ENZO PACI Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone
ENZO PACI
Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone
Messina e Milano, Principato, 1938
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Officine Grafiche Principato — Messina – 1938
PREFAZIONE
La civiltà europea sempre, nei suoi momenti di più alta
tensione, o di potenza o di crisi, ha sentito il bisogno di
guardarsi, di valutarsi, e, questa valutazione, non può essere
stata che lo sguardo al passato, il ritrovare la profonda
sorgente della nostra cultura nella civiltà classica.
Si sa che, prima della guerra mondiale, la scuola di
Marburgo ha cercato in Platone la riprova del suo sistema
trascendentale. Ma come il pensiero tedesco dal neo-kantismo
si mosse verso un nuovo ontologismo, cosi si senti il
bisogno di ristudiare il pensiero platonico, di liberarlo dall’interpretazione
metodologica del Natorp. Fu Iulius Stenzel
che compì questo grande lavoro; attentissimo al pensiero
contemporaneo sempre seguì un indirizzo filosofico in
ogni ricerca, anche in quelle che sembrano puramente filologiche,
e riuscì in tal modo a realizzare il grande ideale
dello studioso del pensiero antico: l’unità tra la filosofia e
la filologia. Mentre Husserl combatteva per una nuova visione
del mondo, riuscendo in fondo ad una teoria delle
idee, che rinnova i motivi più profondamente razionali del
platonismo, Stenzel sgretolava l’interpretazione natorpiana
dell’idea come legge.
Il presente lavoro, in cui si ritrovano i suaccennati motivi,
pur mantenendosi nel piano di un:’interpretazione sto
rica di Platone, è quindi un lavoro di pensiero, e tale non
poteva non essere in quanto tenta di inverare Vinterpreta
zione di Natorp in una più ampia visione del concetto di
legge trascendentale e tiene conto sempre, anche là dove
non può sembrare, del paziente studio filoso fico-filologico
dello Stenzel.
Il risultato è un principio antinomico assoluto, la cor
relatività tra l’uno e il molteplice o tra l’essere e il non es
sere, assunta come fondamento razionale del platonismo,
inteso quest’ultimo non solo come espressione storica ma
come ciò che nel pensiero c’è e ci sarà di eternamente
platonico.
Non starò qui a difendere anticipatamente i difetti del
la mia opera: certo un simile tentativo non era facile e
spesso la fatica è rimasta nel lavoro troppo visibile e verrà
richiesta, conseguentemente, al lettore. La grandezza di
Platone non ha nulla da temere dal mio metodo anatomi
co; tuttavia una tale freddezza era necessaria e solo essa
mi ha permesso di ritrovare quell’armonia che per me non
è solo base della civiltà classica ma di ogni civiltà e quindi
della stessa civiltà contemporanea.
Tornare a Platone significa ritrovare il fondamento eterno
del nostro spirito, l’essenza primordiale dell’ europeismo.
In due parole è tutto detto: è europea la sintesi creatrice
degli opposti, la soluzione positiva di tutte le antinomie,
raggiunta senza ridurre la potenza vitale della loro dinamicità.
Io credo dunque al principio dell’ antinomia dell’essere,
anche se assunto oltre l’orizzonte platonico, come principio
base di un vero idealismo, di un idealismo cioè che non si
plachi in un cristallizzato e dogmatico ottimismo, ma senta
la vita come opposizione e lotta creatrice. Altrove ho tentato
e tenterò di chiarire ciò che qui, con Platone, mi sembra
porsi come base prima, storicamente e idealmente, del
nostro pensiero. Per ora, congedando questo primo lavoro,
mi preme indirizzare il lettore verso una meditazione che
non credo inutile: il nulla, il non essere, Vopposizione distruggitrice
di tutti gli aspetti della vita e del pensiero, hanno
invaso e stanno invadendo la filosofia europea. Non chiudiamo
gli occhi, ma cerchiamo di « vivere » questa crisi,
oltrepassandola, rendendola positiva e creatrice. Sarà ciò
che di più grande potremo fare se riusciremo, e sarà, in un
certo senso, la missione della nostra epoca. Mi si comprende?
Non rinunciare a nulla, accettare in noi ogni esperienza,
vivere in tutte le opposizioni, svolgere tutti i problemi,
seguire tutti i sensi dell’essere che la ragione ci indica. È
quello che si fa nel Parmenide. E il Parmenide non è il simbolo
della distruzione, non è il crollo del sistema, non è lo
spezzarsi della logica, come vuole la filosofia dell’esistenza
(Cfr. K . JASPERS: Philosophie, III. Metaphisik. Berlin,
1932, pag. 46); proprio le sue opposizioni creano la vita
stessa del pensiero, il respiro dialettico del vivente, l’eterna
legge razionale che supera la morte ad essa opponendo senza
tregua la potenza creatrice dello spirito. Si comprenderà il
senso dì questo lavoro quando ci si renderà conto che sugli
stessi motivi dell’ esistenzialismo e della « meditatio mortis »
esso tende a fondare la più libera e pura « meditatio vitae ».
Parma, 12 Maggio 1938-XVT.
E. P.
PARTE PRIMA
IL PROBLEMA DEL PARMENIDE NEI DIALOGHI
FINO ALLA REPUBBLICA
CAPITOLO I.
I DIALOGHI GIOVANILI FINO AL CRATILO
Il problema del Parmenide è il problema dei possibili
rapporti tra unità e molteplicità. Noi cercheremo di
studiare il graduale svilupparsi di questo problema nei dialoghi
che precedono il Parmenide tentando di seguire in
essi il vario movimento che condurrà alla fissazione dialettica
dei rapporti tra l’uno e il molteplice nelle nove ipotesi
del nostro dialogo.
Tralasceremo perciò tutti i problemi che non contribuiscono
a chiarire il movimento dialettico in questione in
modo che i dialoghi precedenti il Parmenide diventeranno
una logica introduzione ad esso. La discussione, in quest’ultimo,
tra Socrate e Zenone e il lungo discorso dell’Eleate,
permetteranno poi una precisa valutazione del significato
che per Platone conserva il metodo socratico così come verrà
caratterizzato nel Teeteto.
Il nostro studio si dividerà in quattro parti.
Nella prima verrà posta in luce, come si è detto, la
dialettica che conduce al Parmenide e verranno esaminati,
da questo punto di vista, i dialoghi fino alla Repubblica
compresa. Nella seconda analizzeremo il dialogo in questione.
Nella terza il Teeteto ci offrirà la possibilità di valutare
la maieutica socratica come una tipica fenomenologia del
conoscere guidata dalla legge correlativa essere e non essere.
Nell’ultima cercheremo di vedere in che modo le posizioni
raggiunte dal Parmenide permangono e si svolgono
nelle ultime espressioni del pensiero platonico.
L’Ippia Minore e il Primo Alcibiade. — Nell’Ippia Minore
Socrate sostiene che se il male viene commesso coscientemente
si giunge a delle conclusioni scandalose. Se un
uomo, che conosce il bene, fa il male, costui, che fa il male
con un ragionamento ed una premeditazione, è certo superiore
a chi fa il male senza saperlo. Achille è per Ippia
l’uomo naturalmente sincero che non inganna mai volontariamente,
Ulisse è l’uomo che fa il male per realizzaresuoi fini. L’insegnamento del dialogo è questo: bisogna
considerare l’azione in rapporto ad un mondo ideale perfetto
a cui ci si deve avvicinare il più possibile. Tanto le
azioni di Achille quanto quelle di Ulisse devono essere considerate
non in rapporto al loro vantaggio momentaneo,
alla loro utilità immediata per la realizzazione di questo o
quel fine, ma in rapporto alla loro vicinanza o lontananza
dalla realtà ideale. Se Ulisse fa il male, con piena coscienza
di farlo, dev’essere necessariamente migliore di Achille che
è incosciente; a meno che il criterio con cui si giudicano le
azioni dei due eroi non sia un criterio che guarda al contenuto
puramente quantitativo del loro sapere o ad un contenuto
riguardante i loro vantaggi materiali dipendenti dalla
molteplicità sensibile e dalla doxa, ma un criterio che ponga
in rapporto le azioni di Achille e di Ulisse ed il loro sapere
con il sapere finale e totale e cioè con la conoscenza del
mondo delle idee. Il metodo usato da Ippia per giudicare
non tiene affatto conto invece del mondo ideale e perciò
conduce necessariamente a delle conclusioni assurde. Nel
dialogo è quindi tacitamente presente il problema fondamentale
del platonismo, cioè il problema dei rapporti tra
idee e mondo sensibile, rapporti che sono dimostrati neces
sani per assurdo. Si può ridurre schematicamente il ragio
namento del dialogo in questo modo: se non si tiene conto
che ogni azione particolare, ogni molteplicità, deve essere
messa in relazione con una visione generale dei fini della
vita, con un’unità, non si può esprimere nessun giudizio sul
le azioni umane.
Nell’Alcibiade Primo si contrappone alla concezione
politica di Alcibiade, limitata ad una utilità momentanea
ed asservita alla doxa, una politica che tenga conto dell’uti
lità totale, cioè dell’idea del bene. Conoscere sè stessi signi
fica proprio questo: riconoscere in noi medesimi, nel nostro
interno, che tutte le conoscenze e azioni particolari devono
essere regolate da un’unità e capire che quest’unità consi
ste nell’anima (Ale. 130 B, 132 c, 124 C). Alcibiade è im
merso nel mondo delle ombre e segue quello che via via gli
sembra bello e buono, ma una cosa è bella solo in rapporto
ad un’idea della bellezza, perciò Alcibiade non potrà riu
scire mai, a meno che non si rimetta sotto la guida di So
crate, dal momento che egli crede che la virtù consista nella
molteplicità e che essa si possa imparare per abitudine come
si è imparato a parlare la lingua nativa (111 A). I due dia
loghi non dicono nulla di più, in rapporto al nostro pro
blema, di ciò che si è fatto vedere, ma in essi non si trova
nulla che contraddica alle posizioni più tardi prese da Pla
tone. Si tace di molti problemi, ma si può osservare, e così
avrebbe fatto probabilmente osservare Platone, che non
era il caso di trattare i problemi a fondo con interlocutori
del carattere di Ippia e di Alcibiade e che nè con l’uno nè
con l’altro sarebbe stato possibile comportarsi diversamente
da come si è comportato Socrate.
L’Ippici Maggiore. — In questo dialogo si discute sull’idea
del bello. Si è detto che qui non si pensa ad una vera
e propria idea nel senso della teoria delle idee e che si ri’
cerca piuttosto un « concetto » secondo il metodo di discussione
socratico. Ma proprio questo fatto ci può aiutare a
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comprendere la vicinanza del dialogo con i problemi dei
dialoghi metafisici. Tutta la discussione con Ippia riguarda
la bellezza sensibile: Platone vuol far vedere che questa
non si comprende se non si pone in relazione con la bellezza
che è presente in tutte le cose. Si parla infatti anche di una
bellezza delle leggi e dei costumi. Il problema dell’unità e
della molteplicità è anche qui presente: se di due forme si
può dire che sono belle è perchè ad esse appartiene una
medesima « ousia » (Ippia Magg. 302 C D). Se Platone
non accenna qui in modo più chiaro alla teoria delle idee
ciò si spiega ancora una volta con il carattere del dialogo
e dei personaggi: non era il caso di parlare con Ippia come
si parlerà con Parmenide e la discussione, in questo dialogo,
si limita ad un fatto particolare e non riguarda una
teoria generale. È sufficiente che l’Ippia Maggiore, come
tutti i dialoghi che gli sono vicini, ci dimostri, con la sua
conclusione, che il problema posto non si può risolvere
senza tener conto della visione filosofica che Platone esporrà
nella Repubblica e nel Parmenide.
L’Ione. — L’Ione è in relazione con il gruppo di dialoghi
che hanno per scopo di unificare le varie virtù in una
sola virtù, dialoghi (Carmide, Lachete) che stanno intorno
al Protagora, e di cui uno dei temi principali è la critica
della poesia e dell’interpretazione allegorica della poesia.
D’altra parte, come il Protagora, così l’Ione è in relazione
con il Fedro, poiché uno dei problemi più importanti di
questo dialogo sarà quello di trasformare la rettorica di
Fedro, rettorica puramente formale, in una rettorica diretta
verso l’idea. Ma con Ione, il rapsodo non molto intelligente
e molto pieno di sè, non è il caso di parlare come con
Fedro, anche perchè qui non siamo sulle rive dell’Ilisso in
quello stato d’animo tutto speciale in cui Socrate colà si
trova. Così ad Ione verrà detto che la sua è un’arte non
umana, ma un’arte ispirata dagli dei, senza curarsi se il
rapsodo è in grado di comprendere il senso filosofico di
quest’affermazione. In quanto in esso viene principalmente
trattato il problema della poesia l’Ione è poi anche in stretta
relazione con la Repubblica. Si tratta quindi di un dialogo
assai complesso. Il suo intento, secondo noi,-è quello
di far vedere che una « tekne » isolata come quella che dovrebbe
avere il rapsodo non può esistere, così come nel
Protagora si dimostrerà che è necessario un unico concetto
della virtù. Ogni virtù dipende dall’altra e tutte dipendono
dalla visione dell’idea del bene, dell’unità che è implicita
nella loro molteplicità. Una « tekne » è la espressione di
una « areté » particolare, ma questa particolare u areté »
a sua volta non ha valore se chi la possiede non possiede,
nella sua particolarità, l’unità, e cioè la vera unica e prima
<( areté » : l’idea del bene. Ora per Platone esiste un
piano in cui il mondo delle idee agisce attraverso un’ispirazione
divina; Ione si trova così di fronte a due mondi: il
mondo della realtà ed il mondo della poesia, noi diremmo
del contenuto e della forma poetica. In quanto nella poesia
si guarda al contenuto Ione non è affatto in grado di giudicare:
come potrà egli, poiché Omero parla di tante arti,
essere capace di giudicare se di tutte parla bene o male?
Qui Ione avrebbe potuto risolvere la situazione solo ponendosi
non più dal punto di vista del rapsodo ma dal punto
di vista del filosofo. Se la poesia è ispirazione divina proveniente
dall’idea, il filosofo che giudica Omero deve tener
conto di questo fatto, ma nello stesso tempo notare che
tutte le singole arti che Omero ci descrive hanno un significato
solo in quanto sono poste in relazione, non logica,
ma <( magnetica », con l’idea. Solo il filosofo può, di fronte
ad Omero, comprendere che il poeta può parlare di tutto
proprio perchè è ispirato e che perciò non si tratta, per interpretarlo,
di essere abili in tante arti quante sono quelle
di cui Omero parla, ma basta sapere formalmente che tutte
le singole arti sono forme molteplici di un’unica realtà. Il
filosofo trova nel fatto che Omero, per ispirazione, può
parlare di tutte le arti senza conoscerne nessuna, una pro
va che in tutte c’è l’unità, l’idea, che sul poeta agisce magicamente,
proprio, dice Socrate, come un magnete. Nell’Ione
non si fa altro che dire ciò che si afferma nel Parmenide
da un punto di vista metafìsico e nel Sofista da un
punto di vista principalmente logico, ma lo si dice per ciò
che riguarda il problema della poesia. Che nell’Ione sia
presente già la teoria delle idee lo si può dedurre anche da
un parallelo possibilissimo colla Repubblica. In quest’opera
ci troviamo certamente di fronte ad una condanna della
poesia, ma ciò non ha nessun valore per la nostra discussione
perchè nella Repubblica siamo sul piano politico e,
da questo punto di vista, l’idealità di uno stato non può
ammettere una realtà determinata solo dall’ispirazione.
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l
// Carmide ed il Lachete. — Il Carmide è uno di quei
dialoghi che ci rappresentano la vita di Socrate in Atene.
Vediamo il filosofo in una palestra, in mezzo alla migliore
gioventù ateniese. Socrate è sicuro che il bel giovanetto
Carmide possiede la « sofrosune » ma non riesce a fargli
dire in che cosa questa possa consistere. Dell’interlocutore
bisogna tener conto perchè il dialogo finisce senza conclusione:
Socrate non poteva infatti intraprendere con Carmide
una discussione sistematica sulla teoria delle idee.
Anche qui si tratta di far comprendere come una virtù particolare
la si debba considerare solo in relazione con la virtù
in sè stessa e cioè con l’idea del bene. Così il dialogo si inserisce
nel problema dell’unità e della molteplicità in quanto
dimostra che una virtù isolata è inconcepibile. Qualcosa di
simile, ma in senso inverso, troviamo nel Lachete. Anche
in questo dialogo si delinea un ritratto della vita di Socrate:
il maestro viene ricercato come educatore dai generali
Lachete e Nicia, per i figli di due buoni Ateniesi; la scena
è anche qui in un ginnasio. È in discussione il coraggio,
l(( andreia ». Nicia cerca di definire il coraggio ma definisce
una virtù generale o meglio la virtù in generale (L.
199 E), certo con più spirito filosofico di quello dimostrato
da Lachete nelle sue definizioni. Senza ricorrere a delle
assurde ipotesi, secondo cui tanto nel Carmide, quanto
nel Lachete, Platone rifiuterebbe la filosofia di Socrate, basta
pensare al rapporto reciproco dei due dialoghi, molto
simili sia per la costruzione letteraria, sia per la scena che
in essi vien rappresentata. Nel primo una singola virtù viene
posta in relazione alla virtù in sè, all’unità, e si dimostra
con ciò che le virtù particolari non sono concepibili se non
in quanto partecipano all’idea della virtù; nel secondo si
dimostra invece che come la molteplicità non è possibile
senza l’unità, così l’unità non può, per mezzo di una definizione
artificiale come quella dì Nicia, essere separata dalla
molteplicità.
// Liside. — La medesima scena dei dialoghi precedenti
ritroviamo nel Liside: siamo in una palestra e il giovinetto
Liside si può benissimo paragonare a Carmide. Il dialogo
si può pensare avvenuto nello stesso periodo di tempo in
cui sono avvenuti il Carmide ed il Lachete.
Si tratta dell’amicizia ed entriamo così in un nuovo
campo: quello che sarà sviluppato specialmente nel Simposio.
L’amicizia non è originata nè dalla somiglianza di
due esseri nè dalla dissomiglianza, per spiegarsela occorre
pensare che l’idea del bene, come amore, attrae a sè gli esseri
particolari che si amano in quanto in essi è presente
l’unico vero amore che è quello per l’idea. Nel particolare
non si ama il particolare, ma l’unità e quindi, si può concludere,
in ogni particolare ci deve essere l’unità. Anche
qui ritroviamo il problema dell’unità e del molteplice, il
quale, dato l’ambiente, non può essere sviluppato di più di
come è stato fatto.
L’Eutijrone. — Nell’Eutifrone il problema trattato è
di carattere religioso, ma tentiamo di vedere il significato
veramente filosofico del dialogo. Secondo noi Socrate vuol
far capire ad Eutifrone che la vera pietà non può essere
PACI
separata dalla giustizia e questa, a sua volta, dal bene in
sè, dall’idea massima e unica che qui sembra identificarsi
con la divinità. Vedremo nel Parmenide che l’idea del bene,
concepita come assoluta unità, raccoglie nel suo seno tutte
le idee positive, le quali da essa vengono distinte solo quando
si sale all’unità dal molteplice, in quanto si raggruppano
dei molteplici sotto un’idea, per esempio quella della giustizia,
senza pensare che ciò che è giusto, se è veramente tale,
deve essere necessariamente anche bello e santo ed avere
in conseguenza anche tutti gli altri attributi positivi. Per
Socrate la religione coincide con la filosofia ed il culto di
Eutifrone non può essere che un errore c una vuota formalità.
Eutifrone vede solo un aspetto dell’idea del bene:
il sacro; non si accorge che una sola determinazione positiva
porta con sè anche tutte le altre e che perciò un culto
come quello che egli pratica non ha nessun valore, in quanto,
determinandosi come culto, nega il valore totale della
divinità stessa. 1).
77 Protagora e VEutidemo. — Il Protagora è diretto
contro la sofistica di fronte alla quale si rivendica il metodo
socratico. Inoltre troviamo in questo dialogo la condanna
della poesia e la condanna delle varie interpretazioni
dell’opera poetica considerata del tutto inutile rispetto alla
ricerca del vero (Prot. 357 C e segg.). Il metodo d’interpretare
la poesia che Protagora usa, come usa, ironicamente,
anche Socrate, è quello stesso che venne condannato
nell’Ione. In questo dialogo abbiamo visto che l’interpretazione
della poesia non è possibile se non si tiene
presente che in ogni arte particolare è presente l’unità
ideale. Così il Protagora si ricollega al dialogo considerato
e in esso ritroviamo una più decisa affermazione dell’unità
della virtù, unità qui tanto più confermata quanto più la
1) EUTIFRONE – Ed. Crcnset. Paris, 1925, pag. 182.
— ig —
tendenza della sofistica conduceva al particolarismo. L’unità
della virtù è tutt’uno con la scienza: si parla cioè chiaramente
della necessità di un sapere scientifico intorno all’idea,
mentre nell’Ione l’unità era considerata solo dal
punto di vista della poesia e nell’Ippia Minore da un punto
di vista unicamente morale. Si noti come nel Protagora
viene inverato scientificamente ciò che nell’Ippia Minore rimane
solo una premessa necessaria per risolvere il paradosso
presentato da quel dialogo. Qui si parla della felicità
dell’uomo che non si può raggiungere se non guardando
all’unità finale delle azioni, all’unità delle virtù particolari
e quindi alla scienza. Il paradosso dell’Ippia Minore, per
cui chi fa il male volontariamente è migliore di chi fa il
bene, si ritrova nel Protagora (355 E) in cui si afferma che
l’uomo dovrebbe fare il male per necessità di fare il bene.
Tutto si spiega, tanto nel primo caso come nel secondo,
ammettendo che se il male si fa è per ignoranza e non per
conoscenza e l’ignoranza è precisamente il non conoscere
la relazione di ogni particolare azione con l’idea del bene.
La valorizzazione del metodo socratico, a scapito della
sofistica, viene ripresa nell’Eutidemo. Poiché la sofistica
rappresenta il metodo errato è chiaro che il metodo giusto
si affermerà tanto più quanto più si distinguerà da quello
dei sofisti. Comprendiamo qui come fosse logico che Platone
ci desse la trattazione più ampia di questo problema
in un dialogo come il Sofista di cui lo scopo fondamentale
è appunto quello di cercar di definire che cosa è il sofista.
Il Gorgia. — L’apporto principale di questo dialogo è
la condanna della rettorica come essa veniva concepita nelle
scuole sofistiche. La definizione della rettorica data nella
prima parte del dialogo presenta quest’arte come operatrice
di persuasioni sia vere che false. In questo senso essa viene
distinta dalla scienza che è sempre verità (Gor. 454 B E).
Gorgia osserva che la rettorica, come mezzo di persuasione,
deve essere usata con giustizia. Ma questo non può bastare
a Socrate (459 B). Egli nota che un oratore può persuadere,
anche se non è medico, per ciò che riguarda la salute, meglio
di uno stesso medico, cioè di colui che possiede la
scienza; ma, e qui siamo in uno dei punti centrali del dialogo,
può l’oratore agire anche indipendentemente dalla conoscenza
del giusto e dell’ingiusto e, in questo caso, dalla
conoscenza di ciò che è veramente utile per la salute? (459
DE) . Si dimostra che ciò è impossibile e che perciò l’oratore,
se è veramente tale, non può e non deve sbagliare
(460 E). Conseguentemente non bisogna affermare, come
ha fatto Gorgia, che l’oratore deve essere giusto e che
quindi può non essere tale, perchè l’oratore non può non
agire che secondo giustizia. Secondo Socrate non può dunque
esistere una rettorica come scienza particolare indipendentemente
dalla conoscenza delle idee. La scienza rettorica
non è, in ultima analisi, possibile, se non in quanto
è preceduta dalla conoscenza del mondo ideale. Nel Fedro
si vedrà come la rettorica concepita in tal modo non venga
condannata, ma esaltata come un mezzo per avvicinarsi
alla perfezione del mondo delle idee. D’altra parte in che
cosa la rettorica si distingue dalla scienza? In quanto precisamente
l’oratore non ha una vera conoscenza di ciò di
cui parla come, analogamente, il poeta non conosce tutte
le arti di cui la sua poesia diventa l’espressione lirica.
Quello che l’oratore deve sapere è che ogni azione umana
è tanto più degna di essere compiuta quanto più essa avvicina
colui che la compie alla realtà del bene. È per questa
relazione formale fra le diverse azioni e l’idea che l’oratore
può persuadere ad una data azione. Si pensi qui alle
relazioni di questa posizione con i dialoghi già da noi esaminati
e, principalmente, con l’Ione e con l’Ippia Minore.
I problemi di questi dialoghi si ripresentano necessariamente
quando si prende in esame la questione della rettorica.
Il fatto che sia possibile l’arte del persuadere, come
il fatto che sia possibile la poesia, non si spiegano se non
si ammette una relazione tra il molteplice e l’unità, tra
l’esperienza ed il mondo ideale. L’esistenza stessa di certe
forme di conoscenza, limitata, dell’idea, come quelle da
noi considerate, è una dimostrazione della presenza dell’unità
nella molteplicità, del bene unico in ogni azione
buona particolare. Usando termini che vengono poi ripresi
da Platone possiamo dire che la relazione tra unità e molteplicità
non è qui considerata come « koinonia » o come
partecipazione, ma come ragion sufficiente dell’esistenza del
particolare, come l’essenza del molteplice il quale non si
può spiegare se non in quanto contiene l’unità nella sua
molteplicità.
Nell’Ione abbiamo visto un unione non logica ma, diremo,
mistica, con l’idea, in quanto questa attrae come una
calamita il poeta ed il rapsodo. Con il problema della rettorica
siamo su un nuovo piano in quanto qui è in questione
anche l’azione che deriva dalla persuasione e quindi, oltre
che un valore poetico, il problema assume anche un valore
pratico. In questo senso il Gorgia presenta quello che sarà
l’interesse centrale del Fedro. Ma quello che più interessa
Platone nel dialogo che stiamo considerando è l’aspetto
negativo della questione, così che, mentre nel Fedro la
rettorica verrà giustificata, nel Gorgia essa verrà condannata
come nel Protagora e nell’Eutidemo.
In queste opposte posizioni di Platone non c’è nessuna
incoerenza come non c’è nessuna incoerenza di fronte alle
opposte maniere con cui viene considerato Isocrate nell’opera
platonica : semplicemente varia il punto di vista da
cui Platone si pone di fronte al problema. Poiché la rettorica
può essere considerata, come era considerata dai sofisti,
non come un’arte che avvicini all’idea ma come un’arte
che delle relazioni delle cose particolari approfitta non
per indirizzare le azioni verso il bene ma invece per spingere
ad azioni malvage giustificandole con tutti i mezzi;
Platone si porrà contro la rettorica, cioè contro la molteplicità
bruta e disorganizzata considerandola come falsità ed
errore. A questa si contrappone la felicità di colui che segue
il bene: il mito che chiude il dialogo e quindi una specie di
esempio della vera rettorica di cui il Fedro presenterà la
teoria.
Ritroviamo in questo dialogo anche un problema che
non mancava nel Protagora, il problema cioè di come sia
possibile l’errore e di come sia possibile che ci siano degli
uomini che usano la rettorica erroneamente ed ingiustamente.
La questione si può presentare benissimo in questa
semplice domanda: che cos’è il sofista? E sarà proprio a
questa domanda che Platone, come sappiamo, dovrà più
tardi rispondere.
C’interessa notare che anche nel Gorgia le relazioni
tra l’unità e la molteplicità costituiscono la base di tutta la
discussione: il punto di vista filosofico di Platone è qui
dalla parte dell’unità contro la molteplicità ora considerata
essenzialmente nel suo aspetto negativo.
Il Menone. — Il dialogo s’immagina avvenuto un po’
di tempo dopo quelli precedentemente esaminati (Men. gì
E). La posizione è diversa da quelle finora esaminate e
questa diversità la cogliamo pienamente in questo fatto:
non si cerca di sapere che cosa siano questa o quella virtù
particolari, ma che cos’è la virtù in sè medesima. Menone
chiede se la virtù è insegnabile: la domanda resta apparentemente
senza risposta, ma in realtà essa si trova in
tutto lo svolgimento del dialogo, in cui Socrate dimostra a
Menone che il principio secondo cui si pretende di definire
la virtù in sè stessa con tanta facilità è un principio assolutamente
erroneo. La virtù è presente in noi in quanto
muove continuamente la nostra ricerca, in quanto, liberandoci
dagli errori, ci guida sempre di più verso la verità
l). Che nel Menone sia possibile ritrovare una posizione
i) La dialettica socratica mira a rendere cosciente l’interlocutore
della sua ignoranza e determina cioè con assolutezza « l’atto
aporético». Cír. GRASSI: Il problema della metafisica piato
molto vicina a quella che noi moderni chiameremmo « criticista
», lo ha messo bene in evidenza il Natorp ‘) e si potrebbe
anche dire che la conclusione del dialogo è questa:
non si deve considerare la virtù come un oggetto, come una
cosa, come un fenomeno. Noi potremo avvicinarci alla virtù
inverando via via il nostro pensiero e ampliando la nostra
ricerca su di essa. Ma ciò che a noi particolarmente interessa
è, per così dire, l’aspetto opposto della questione,
che viene ben posto in luce dal Menone. In realtà l’interpretazione
del Natorp forza un poco il senso del dialogo;
ciò che qui principalmente troviamo è che mentre Socrate
richiede a Menone una sola virtù, Menone non riesce a rispondere
e continua a « fare più cose di una sola » (77 B).
Evidentemente è l’unità della virtù che interessa, ma in che
senso? Non nel senso che tutte le virtù si debbono riunire
in una sola, punto di vista già preso in altri dialoghi, ma
con l’intenzione di vedere quale rapporto c’è tra la virtù,
una, e le virtù, molteplici. Possiamo noi attraverso il molteplice
risalire all’uno? Possiamo fare per la virtù quello
che Socrate fa così facilmente per il concetto di figura (75
B e segg.)? E si noti che qui Socrate ci dà della figura due
definizioni a cui sembra attribuire quasi lo stesso valore.
Come mai? Secondo noi si può concludere che con la virtù,
con l’idea di virtù, non ci si può comportare come con qualsiasi
concetto: se l’idea come tale è unità non potremo mai
trovarla come un oggetto esistente sullo stesso piano in cui
esistono le cose molteplici. Menone dovrebbe fare un salto
dal molteplice all’unità e, non potendo fare questo salto,
non potrà mai dire che cos’è la virtù. L’idea, nella sua as
nica. Bari, 1923 pag. 16 e segg. 61 e segg. Vedremo come si sviluppa
nel Teeteto questo metodo socratico alla luce della discussione
del Parmenide.
1) NATORP: Platos Idecnlehre. Leipzig, 1921. II Ed., p. 36 e
sgg. La grande scoperta del Menone sarebbe la concezione dell’a
priori. Cfr. pag. 42.
solutezza, è superiore all’esistenza, come ci dimostrerà la
prima ipotesi del Parmenide. Si noti come la posizione del
problema determini tutto l’andamento della discussione e
come la conclusione sia strettamente legata alle premesse.
Se noi nella molteplicità vogliamo trovare l’unità come una
realtà molteplice dobbiamo necessariamente concludere che
quest’unità non esiste e che è, cioè, superiore al concetto
di esistenza. Se le premesse fossero diverse la conclusione
muterebbe: si ricordi il punto di vista del Lachete in cui
l’unità da sola non è concepibile ed in cui non può separarsi
dalla molteplicità. Le due conclusioni possono sembrare
un’incoerenza ma ciò non è se si osserva le cosa più
profondamente : è sempre vero che in ogni particolare virtù
deve essere presente la virtù, ma è anche vero che, se noi
abbassiamo la virtù ad una realtà particolarmente esistente,
essa diventa una cosa fra le tante cose ed allora è compromessa
anche la partecipazione delle virtù molteplici alla
virtù come unità.
Da questo punto di vista possiamo anche spiegarci per
quale ragione si presenti in questo dialogo la teoria dell’
« anamnesis » e valutare il significato filosofico di questa
teoria. Se infatti l’unità, l’idea, è superiore all’esistenza, al
molteplice, come è possibile di fronte a più dati riconoscere
l’unità stessa? Come da un oggetto dato è possibile risalire
all’idea se la via seguita da Menone è errata? Seguendo il
linguaggio kantiano del Natorp potremmo dire che, mentre
Menone ricerca a posteriori la definizione della virtù, questa
è invece nel nostro interno e non si può dedurre dal
molteplice, è, cioè, a priori. Se, come sappiamo, l’unità è
necessariamente presente nella molteplicità, la sua presenza
non è quella di un’idea che si aggiunge ad altre idee, come
vedremo nelle ipotesi del Parmenide. Questa posizione ci
viene presentata da Socrate nel mito dell’ « anamnesis »,
cioè come distesa nel tempo, semplificata nel racconto di
un avvenimento. Prima della nascita l’anima era consapevole
della verità ed era, in questo senso, unità. Se ora essa
riesce a scoprire l’unità nel molteplice è perchè si ricorda
di quell’unità che fu lei stessa e che ora vede ripresentarsi
in tutte le cose. Il problema qui sottinteso, e che ritroveremo
in seguito svolto in tutte le sue posizioni, è quello di
come l’uno possa essere, nel medesimo tempo che è uno,
anche molteplice. Dal Menone noi sappiamo che l’unità in
quanto tale è sempre superiore all’essere ma sappiamo anche
che proprio per questo la molteplicità può partecipare
all’uno. Solo il Parmenide ci spiegherà come questa partecipazione
possa effettivamente essere possibile.
Il Cratilo. — Il Cratilo non contiene nessuna indica
zione che ci riveli quando esso è avvenuto. Si può avvici
nare all’Eutidemo in quanto nel Cratilo c’è un ricordo di
questo dialogo. Per noi è sufficiente sapere che è avvenuto
in un periodo di tempo non molto lontano dai dialoghi an
tecedentemente esaminati.
Questo dialogo ha molto sviato per il suo carattere extrafilosofico,
cioè per l’analisi etimologica dei nomi, ma
possiamo dire con il Diès che il vero senso del Cratilo consiste
nel tentativo di tracciare una teoria della conoscenza
Si pensi al fondamento della discussione: Ermogene
crede che il linguaggio sia semplicemente derivato da una
convenzione tra gli uomini e che nulla impedirebbe di chiamare
con un altro nome una medesima cosa e dire che è
bianco quello che ora viene chiamato nero. Cratilo pensa
invece che i nomi, quando sono veramente tali, rappresentano
perfettamente le cose, perchè essi sono l’espressione
della natura di queste e si determinano e si formano secondo
questa natura. Contro Ermogene Socrate fa osservare
che i nomi possiedono una certa loro caratteristica naturale
causata da un’altra caratteristica che, indipendente
i) A. DIÈS: Autour de Platon. Paris, 1926, II Vol., pag. 482
e segg.
mente da noi, resta permanente in tutte le cose. È precisamente
a questa che il legislatore del linguaggio, colui che
forma le parole, deve guardare (Cr. 388 E). Ma in che cosa
consiste questa caratteristica? Nel caso della spola essa è
« la spola in sè » (389 A). Senza esagerare l’importanza di
quest’ultima affermazione, noi possiamo però sapere dall’intero
passo del Cratilo sul legislatore dei nomi, che questi
dovrebbero essere costituiti e, in un certo senso si costituiscono,
secondo l’essenza delle cose e quindi secondo l’idea.
In questo senso noi sappiamo che ci possono essere idee di
tutte le cose di cui ci sono nomi e che esiste perciò un
mondo molteplice delle idee.
La teoria delle idee si sviluppa nel problema dell’unità
e del molteplice: in certi dialoghi si porrà in evidenza la
necessità dell’unità di fronte alla molteplicità, in altri si dimostrerà
che le cose molteplici disorganizzate non hanno
senso e che devono perciò essere unificate in un’idea. Il
problema è quello della possibilità da parte delle idee di
tutte le cose di accordarsi con l’unità ideale. Può sembrare
perfino, a tal riguardo, che ci siano in Platone due diverse
teorie delle idee: una, in cui l’idea viene considerata nella
sua unità come valore, l’altra in cui si guarda alle diverse
idee, distinzione che dovremo in seguito esaminare.
In conclusione nel Cratilo si può già intravedere che la
molteplicità possiede una certa regola e quindi una certa
unità. Ogni essere partecipa dell’essere assoluto e cioè dell’idea
ed in questo senso ogni molteplice è uno. Ma si vuol
dire nel nostro dialogo anche di più. Non solo ogni molteplice
ha in sè l’unità ma la molteplicità stessa possiede una
sua regola in quanto si determina come tale. Per ogni realtà
c’è un essenza particolare oltre alla più profonda essenza
generale e unitaria. Si può quindi concludere, come si è
detto, che l’unità dell’idea può anche essere relativa, che
cioè è possibile una molteplicità ideale, come dimostrerà la
seconda ipotesi del Parmenide.
Se noi guardiamo il mondo della doxa vedremo l’unità
ideale moltiplicarsi in tante unità quante sono quelle delle
cose reali. È per questa posizione dell’uno, diversa da
quella in cui esso ci appare come superiore all’esistenza, che
le cose sono per noi intelliggibili e sono unificabili in varie
speci ed in generi, come vedremo nel Sofista. Ad Ermogene
bisognava far capire che il linguaggio non è una semplice
convenzione: in quanto è uno strumento della conoscenza
(387 E) esso serve ad informarci sulle cose reali, se fosse
una convenzione non sarebbe in nessuna relazione con la
realtà e perciò il mondo delle cose sarebbe per noi assolutamente
inconoscibile anche se attraverso i nomi lo conosciamo
solo confusamente. Una realtà delle cose dunque esiste
come esiste nella molteplicità di esse una regola, ed è fissandoci
su questa che noi possiamo conoscere la realtà dei
molteplici in continuo divenire, e perciò quasi inconoscibili,
per quanto rispecchino una realtà immobile. Questa, che,
a sua volta, si deve necessariamente differenziare dal divenire,
sarà la regola secondo cui la molteplicità si organizza.
Perciò Socrate combatte Cratilo che identifica senz’altro
i nomi con le cose e rivendica, di fronte a lui, la necessità
di idee immobili, distinte dai vari nomi in cui esse vengono
rappresentate (439 AB) . Se si identifica la molteplicità
dei nomi con la realtà delle cose questa realtà scompare e
con essa scompaiono anche le idee. I nomi non hanno nessun
senso se non sono l’espressione dell’essenza ideale di
ogni essere.
Con il nominalismo di Cratilo tutto cade nel divenire;
se ogni cosa si adegua ad un nome anche il contrario è
vero e le idee non sono quindi che dei nomi senza nessuna
realtà. Non solo ma l’errore e la verità in questo modo si
confondono e, come non esiste più l’uno, non esiste più il
vero. Logicamente Socrate sostiene di fronte a Cratilo l’opposto
di quello che aveva sostenuto di fronte ad Ermogene :
nei nomi e nella loro costituzione molto possono l’abitudine e
l’arbitrio (434 C E e segg.) : essi rispecchiano il vero ma solo
molto da lontano. Se i nomi sono una cosa diversa dalla
realtà allora si spiega la possibilità dell’errore, altrimenti
tutto quello che si dice dovrebbe essere vero (429 D).
Il nulla di Cratilo è un nulla assoluto e, nella sua netta
opposizione tra essere e non essere, egli non si accorge
quanto sia difficile giustificare l’errore. In questo modo
troviamo nella fine del Cratilo quasi un preludio al Sofista,
dove a quel non essere si cercherà di attribuire una certa
realtà.
CAPITOLO II.
IL FEDONE, IL SIMPOSIO E IL FEDRO
IL FEDONE.
Il dialogo è un ritratto ideale del vero filosofo. Questi
desidera la morte in quanto con essa può restituire
l’anima a sè medesima. La virtù è una purificazione continua
dalle incoerenze e dalla pesantezza del mondo sensibile,
per mezzo di essa noi riusciamo ad avvicinarci alla
pura essenza, a ciò che è in sè e per sè (Fed. 65 C e segg.).
Questa guida tutta la vita del filosofo e poiché essa non
sarà pienamente raggiungibile se non quando il corpo
non sarà più, la vita viene considerata come un esercizio
della morte (64 A, 67 A, 81 A). Si tratta qui dell’unità
come fine a cui l’anima tende e della molteplicità come
male da cui l’anima si libera. L’unità dell’idea viene quindi
pensata al di là della vita, superiore a questa, tanto che
solo con la morte è possibile raggiungerla. Il mondo ideale
è considerato come assolutamente trascendente: il « chorismos
» è incolmabile. Le idee possono essere conosciute
solo dall’anima, attraverso i sensi sono assolutamente irraggiungibili
(65 D, 100 D).
Nella molteplicità dell’esperienza noi possiamo vedere
l’idea, ma solo per mezzo della reminiscenza che garantisce,
in un certo senso, la partecipazione del mondo sensibile al
mondo ideale, ponendo non una continuità tra i due mondi,
ma un’interiorità dell’uno rispetto all’altro. Quello che, in
proposito di questa questione, è stato notato per il Menone,
vale anche per il Fedone. Ciò che nell’altro dialogo è però
visto da un punto di vista gnoseologico è qui visto di fronte
al destino ed al significato della vita dell’uomo. Come Menone
si deve liberare da tutte le false conoscenze per arrivare
al vero, così la vita del filosofo non è che il continuo
liberarsi dalle esperienze sensibili per ritrovare l’idea. Questa
non si raggiunge, in un certo momento, come qualcosa
che si aggiunge alla vita e che è sullo stesso piano della
vita. L’idea è sempre stata, era prima e sarà dopo; è, della
vita, l’essenza, come è l’essenza di tutta la realtà. Poiché
qui l’interesse fondamentale non è gnoseologico ma umano,
si cercherà di vedere se anche l’anima, come l’idea, è possibile
a priori, se cioè è garantita la sua eternità. Il fatto
più notevole della trattazione mitologica del Fedone è la
trasposizione delle posizioni logiche sull’unità e sulla molteplicità,
che noi abbiamo visto variare da dialogo a dialogo,
su un piano in cui si tratta di scoprire qual’è il destino dell’anima
di ogni uomo e specialmente dell’anima del filosofo.
Già nel Menone di fronte al punto di vista logicognoseologico
si faceva avanti quello mistico-religioso che
correva, per così dire, sulle stesse rotaie dell’altro. Poiché
il problema dell’immortalità trova le sue basi su una struttura
logica, accade che, chiarendo questo problema, si chiarisce
nello stesso tempo sempre più il problema dell’uno,
del molteplice e delle loro relazioni. Come abbiamo visto la
discussione è sempre in Platone legata alla scena del dialogo,
qui la scena non poteva essere più adatta per porre
in tutta la sua ampiezza il problema dell’eternità, della superiorità
dell’uno all’esistente.
Di fronte all’affermazione dell’unità ideale, intesa in
senso assoluto come nel Menone, troviamo però, nel nostro
dialogo, anche la concezione dell’unità relativa del mondo
e, cioè, della molteplicità delle idee, già da noi ritrovata
nel Cratilo. Nel Fedone questa posizione diventa più chiara:
vedremmo nel Cratilo l’ammissione di una molteplicità
e quella del mondo sensibile in quanto eternamente diveniente.
Anche nel Fedone, come nel Cratilo, si distinguono
due mondi, quello del sensibile e quello delle idee, quello
visibile e quello invisibile (79 C). I due mondi si differenziano
ancora perchè il mondo delle idee è formato, come
abbiamo visto, da una molteplicità, per così dire, immobile;
il mondo sensibile invece continuamente diviene per
cui in esso la realtà diventa un fenomeno che ora è e ora
non è, ora è positivo e ora è negativo. (72 B e segg., 70
D E e segg., 71 B). Ma qual’è la relazione tra le due molteplicità,
tra il molteplice del divenire e il”‘ molteplice dell’idea?
Se l’uno cioè è, in senso relativo, che cosa sono gli
altri? Proprio in questo modo si porrà la quarta ipotesi del
Parmenide. Come si spiegano le cose molteplici, di fronte
all’immobile molteplicità ideale? È qui necessario da una
parte salvare la purezza dell’idea e, in questo caso, l’immortalità
dell’anima, e dall’altra spiegare il divenire della
realtà. Sembra assai difficile che il mondo sensibile possa
partecipare all’idea senza che questa in qualche modo si
corrompa e perda la sua purezza. È necessario notare come
in questi problemi del Fedone si presenti il problema della
comunione o partecipazione o dei rapporti tra mondo ideale
e mondo sensibile. Abbiamo visto nel Menone che, proprio
perchè l’uno è superiore all’esistenza e non può esistere
come una cosa tra le altre cose, proprio per questa
sua apriorità esso si può porre come l’essenza medesima di
ogni molteplice. Abbiamo visto poi nel Cratilo che la molteplicità
ideale, distinta da quella sensibile, ci dà la possibilità
di raccogliere le cose in una specie, che l’uno per formare
il molteplice moltiplica la sua unità che diventa perciò
relativa e diventa una garanzia dell’intelligibilità del
reale. Qui nel Fedone ci troviamo di fronte ad una terza
posizione: nella prima l’uno era superiore all’esistenza e
quindi irraggiungibile (Menone), nella seconda l’unità diventava
relativa e quindi intelligibile e riceveva per ciò il
predicato di esistenza, si tratta ora di spiegarsi il mondo
molteplice in quanto assolutamente diveniente. L’atteggiarsi
del problema assomiglia alla discussione che ritroveremo
nel Parmenide: nel Fedone però manca una netta
distinzione tra ipotesi e ipotesi, distinzione che potrebbe
permettere di vedere i problemi trattati con una maggiore
chiarezza. Come dunque è possibile l’esistenza di un mondo
del divenire? Esso esiste in quanto partecipa alle idee,
queste idee sono immobili ed eterne: se il mondo sensibile
partecipasse completamente al mondo ideale o si identificherebbe
con questo oppure non sarebbe neppur concepibile.
In ogni caso noi non riusciamo a giustificare la sua esistenza.
Tutto il Fedone è indirizzato dalla considerazione
che se l’immortalità dell’anima è necessaria, lo è tanto di
più in quanto con la sua mortalità tutto si ridurrebbe a
mondo sensibile informe, tutto il mondo ideale diventereb
be un’illusione e la realtà empirica di conseguenza inspiegabile.
La trascendenza del mondo ideale è necessaria per
spiegare il mondo del divenire: il chorismos delle idee è
l’unica posizione che renda possibile l’intelligibilità e l’esistenza
del mondo immanente. Si confrontino le nostre osservazioni
come il passo 76 D E : « Non è dunque così —
disse — o Simmia — se è vero ciò di cui sempre parliamo ed
il bello ed il buono ed ogni essenza di questo genere, e, se
è vero che noi a questa riferiamo tutto ciò che ci viene dalle
sensazioni, poiché la troviamo esistente in noi già da prima
: se ad essa paragoniamo queste cose è necessario che
come esistono queste, così sia esistita anche l’anima nostra
prima che noi nascessimo. E se la cosa non è così, allora
questo discorso sarebbe stato tenuto invano ».
I rapporti tra i due mondi, cioè tra il mondo considerato
nella seconda posizione e quello della terza, vengono
interpretati da Simmia col famoso esempio dell’armonia e
della lira, proprio il rovescio di come vanno intesi. Che
cos’è che Simmia non ha compreso? È quello che noi abbiamo
già visto nel Menone e che ci è stato presentato con
il mito dell’anamnesis, sia in quel dialogo, sia qui nel Fedone.
Abbiamo visto che l’essenza stessa della molteplicità
è l’unità che nel suo interno noi riusciamo a scoprire, quello
cioè che rende possibile l’esistenza del molteplice è proprio
l’uno e, in questo caso, l’anima. Perchè ciò fosse accordabile
con l’esempio di Simmia bisognerebbe che fosse l’accordo
a rendere possibile l’esistenza della lira (92 A B ed
E). Simmia non ha capito che il mondo del divenire non è
possibile se non esiste un mondo ideale che ne è l’essenza.
Più importante, e in un certo senso più nuova di fronte
alle posizioni del Menone, è la chiarificazione a cui dà
luogo Cebete. Si tratta qui di svolgere interamente il problema
della generazione e della distruzione (96 A), si tratta
cioè di spiegarsi completamente il divenire. Socrate comincia
con il famoso discorso (96 A e segg.) in cui rifa la storia
del suo pensiero. L’insegnamento principale che da questo
passo si può ricavare è che il mondo del divenire, o della
natura, non si spiega finché si cerca la causa dei fenomeni
in un altro fenomeno: analogamente nel Menone non era
lecito pensare l’idea come un molteplice tra gli altri. Anassagora,
pur parlando della necessità di una mente ordinatrice,
finì per materializzare questa mente (98 C) : bisogna
invece cercare la ragione del divenire nel « logos » (100 A).
Se il divenire è possibile è perchè le cose sensibili possono
partecipare ora ad un’idea ora al suo opposto; poiché le
idee opposte si escludono la partecipazione ad un’idea che
si nega significa, per il mondo, divenire, nascere e perire.
Necessariamente una cosa muta, quando, partecipando dell’idea
della grandezza, le si avvicina poi la piccolezza. Siccome
il grande ed il piccolo non possono stare insieme (103
B) in quanto uno di questi concetti nega l’altro, è necessa
rio che la grandezza scompaia quando si avvicina la picco
lezza. Non essendoci più la partecipazione all’idea e cioè
la partecipazione a quella realtà che faceva sì che la cosa
PACI
fosse grande: questa muterà e da grande diventerà piccola
(102 D E).
Se il molteplice dunque diviene è perchè ci sono delle
idee che ammettono in sè medesime un loro contrario, delle
idee che si sono chiamate opposte. Ora che cosa significa
che due idee sono opposte? Può anche significare che una
neghi l’altra, ma sopratutto significa che è necessario ammettere
che nell’interno stesso del perfetto mondo ideale
esiste un fattore negativo. Per questa ragione nel Parmenide
si insisterà tanto sulla posizione negativa del mondo
ideale: solo ammettendo un non essere delle idee si potrà
infatti spiegare l’esistenza del mondo delle doxa, l’esistenza
del male ed infine la possibilità dell’errore.
IL SIMPOSIO.
Le possibilità sceniche del Simposio sono di una ricchezza
e di una varietà infinite. Non si tratta veramente
di un dialogo: il banchetto in onore di Agatone è e doveva
essere pervaso da troppo spirito dionisiaco perchè
Socrate potesse qui svolgere la sua discussione secondo
i metodi dialettici che abbiamo imparato a conoscere negli
altri dialoghi. Per questa ragione, crediamo, il filosofo
parla attraverso Diotima, non senza aver fatto notare
però che egli parlerà diversamente da come hanno
parlato gli altri commensali e cioè parlerà badando innanzitutto
alla verità di ciò che dice. Ritroviamo qui l’opposizione
tra letteratura e filosofia e, ancor più precisamente,
tra rettorica e filosofia. La discussione del Fedro non è lontana
da questo dialogo e può anche darsi che il Fedro sia
stato scritto prima del Simposio. In quel dialogo si giustificherà,
infatti, la rettorica in quanto sarà possibile elevarla,
in un certo senso, a filosofia. Nel Simposio Socrate
ci darà un esempio vivo di questa rettorica filosofica.
II discorso di Fedro. — Il primo discorso rispecchia
tutto il carattere del giovanetto Fedro: egli si preoccupa di
parlar bene, di dire delle belle cose, di mettere in evidenza
il più possibile ciò che si deve considerare come giusto,
senza preoccuparsi però affatto del valore ideale dei concetti
di bello e di giusto. Tutto il suo discorso è tenuto in
un tono molto vicino a quello che ritroveremo nel dialogo
che porta il suo nome. È un tono entusiastico e, in un certo
senso, dilettantesco. Fedro rappresenta nel Simposio quello
stato poetico, non privo di ingenuità, di piena commozione
di fronte alla vita, nel quale si è sempre pronti ad esaltare
ed a glorificare, mentre si trova in tutto qualcosa che sia
degno di ciò. Però nel discorso di Fedro non manca una
certa verità e perciò questa non manca nemmeno nel suo
atteggiamento, come non dovrà mancare, necessariamente,
in quella letteratura e in quella rettorica che dietro il discorso
di Fedro sono facilmente ritrovabili. Verità, ma verità
parziale: certamente il senso profondamente filosofico
di Platone non può arrestarsi al dilettantismo di Fedro nè
al pragmatismo di Lisia di cui Fedro è tanto entusiasta
Fedro non sente affatto il bisogno di un’unità, egli osserva
e sente la vita e questa sua osservazione e questo suo
sentimento, pieni di giovanile freschezza, non hanno bisogno
di nessuna giustificazione filosofica. È certo vero che
l’Amore è il più famoso e il più antico tra gli dei (178 A C)
ed è vero che noi potremmo anche usare la storia della mitologia
per renderci conto di quanto grande dovette essere
ed è, per gli uomini, l’importanza dell’amore. Fedro vede
in esso anche di più : nota che il vero amore è disinteressato
come quello di Alcesti, di Orfeo, di Achille e di Patroclo
(179 B e segg.). Nessuna persona di buon senso potrebbe
certo negare questa affermazione. Ma, per il filosofo, spiegare
^importanza e la funzione dell’amore con la storia
della mitologia è spiegare un fatto con altri fatti, uno dei
1) ROBIN: Ed. Fedro, Paris 1933, pag. XIV e segg.
tanti fatti della vita con altri fatti della storia. È vero, che
Socrate usa il mito, ma il suo mito rappresenta quasi sempre
una profonda verità filosofica che sarebbe impossibile
spiegare in tutte le sue posizioni o che sarebbe impossibile
ridurre ad una discussione dialettica. Fedro invece usa la
storia del mito come una dimostrazione delle sue affermazioni
e questa dimostrazione non potrà necessariamente
avere per Platone un valore veramente filosofico. Che l’amore
sia disinteressato è certo una verità che il senso comune
può immediatamente scoprire, ma quale verità sarà questa
per il filosofo? In quella così semplice affermazione egli ritroverà
la superiorità dell’idea, l’unità di essa di fronte ai
molteplici, agli uomini in questo caso, che, come sappiamo
dal Liside, non amano la bellezza nei particolari se non in
quanto essa rappresenta la bellezza unica e cioè la bellezza
ideale. Su questa verità di Fedro il filosofo baserà tutta In
sua visione della realtà. Fedro è, potremmo dire, usando
l’espressione in un senso molto vasto, immerso nel sonno
dogmatico, se la sua posizione viene giudicata da un superiore
punto di vista di carattere filosofico. La sua è una
accettazione dogmatica della molteplicità e questo è, per
Platone, quanto di più antifilosofico sia possibile immaginare.
Ma sarà questa posizione, restando tale, cioè un
momento della conoscenza del reale, totalmente condannabile?
Ecco quello che ci interessa. Il discorso di Fedro è
un riconoscimento della realtà del molteplice, non solo, ma
anche della positività del molteplice, ma, si pensi bene,
perchè egli è così entusiasta della vita? Perchè sente che in
essa ci sono delle « relazioni », forse quelle stesse di cui Lisia
approfitta per la sua rettorica, delle relazioni che lasciano
indovinare una profonda realtà dietro al mondo delle
apparenze. Se Fedro fosse capace di uscire dal suo dogmatismo
e di entrare in una posizione critica e poi dall;alto di
questa potesse guardare il suo anteriore atteggiamento di
fronte alla vita, si troverebbe allora nella stessa posizione
in cui abbiamo visto Socrate di fronte a Ione. Se la molte
plicità considerata come tale è condannabile e conduce all’assurdo,
se essa è assolutamente irrazionale quando viene
contrapposta all’unità assoluta, concepita come nel Menone
e in certe posizioni del Fedone, se è assurdo servirsi
dello stato entusiastico di Fedro per spingere gli uomini a
questa o a quella azione come forse faceva Lisia, e se infine
è assolutamente condannabile la posizione poetica di Fedro
se essa viene considerata di fronte allo Stato ideale e
perfetto; tutto questo non significa che il discorso di Fedro
e le affermazioni di esso siano falsi se quelle affermazioni
vengono ricondotte al posto che veramente devono occupare,
se esse non tentano di sostituirsi alla filosofia, se vengono
giudicate come un anello della catena del processo
dialettico e conoscitivo e come un momento della razionalità
del reale. Noi sappiamo infatti che per Platone il
mondo molteplice ha una sua realtà, quando esso, come
nel Fedone e nel Cratilo, viene visto in quanto organizzato
idealmente, quando ogni molteplice viene giudicato tenendo
conto della sua essenza ideale. Anche lo stato poetico di
Fedro può così essere ammissibile se non si dimentica che
deve essere sempre superato da una superiore posizione filosofica:
la poesia e la rettorica hanno sempre bisogno di
essere completate dalla filosofia e possono allora anche diventare
una filosofia poeticamente sentita, sentita come
amore per la verità, come creazione della verità proprio
nel senso « maieutico », nel senso reale cioè che si deve
attribuire alla parola « poiesis ». Il vero significato della
condanna platonica che” ritroveremo nella Repubblica ci
sembra in questo modo sufficientemente chiarito: come Hegel
Platone non condanna l’arte se non nel senso che essa
deve essere sempre, da un punto di vista dialettico, superata
dalla verità filosofica.
Il discorso di Pausania. — Come dietro Fedro si poteva
scorgere l’ombra di Lisia, così dietro Pausania si potrebbe
nascondere la personalità di Isocrate che Platone
vede da un punto di vista molto diverso, se non opposto,
da quello con cui considerava l’opera e la personalità di
Lisia :). Se Fedro intuisce, in uno stato d’entusiasmo, una
relazione tra i molteplici e non sa però vedere il mondo
molteplice organizzato da una realtà ideale, Pausania invece
sa che ogni realtà empirica deve essere considerata in
funzione di una certa unità, che le azioni non hanno valore
per sè medesime ma in quanto partecipano a qualche
cosa che è comune a tutte. Fedro vede la positività del
molteplice senza sapere che questa positività dipende da
un mondo ideale, Pausania vede il molteplice come positivo
o negativo a seconda che sia in relazione o no con
un’unità, non sa però quale questa unità sia: egli intuisce
semplicemente che il mondo empirico deve essere organizzato
da una realtà che lo trascenda.
La manifestazione di ogni nostra attività, sostiene Pausania
(180 E, 181 B), non è per sè stessa nè bella nè brutta.
Questi caratteri risultano per l’azione dal modo con cui
essa viene compiuta, se viene compiuta rettamente, se cioè
in essa c’è rettitudine, è buona, altrimenti è cattiva. Pausania
non parla dell’idea del bene ma però intuisce quasi
la sua esistenza. Senza un’unità ogni azione particolare è
indifferente: non ci può essere nessuna bellezza in azioni
prese isolatamente e viste come molteplicità disorganizzata.
Perciò Pausania distingue due diversi caratteri dell’amore
a seconda che esso si manifesti negli uomini di basso genere
(181 B e segg.), che pensano solo al corpo, o negli uomini
nobili che guardano anche all’anima. Lo scopo per cui la
precedente distinzione viene usata non corrisponde però all’altezza
spirituale con cui Pausania si è presentato finora,
perchè egli usa la sua parziale verità per uno scopo molto
basso, così come, in un altro senso, Fedro, o meglio Lisia,
usava la sua. Pausania si serve della sua intuizione all’opposto
di come se ne servirebbe se questa intuizione diven
i) ROBIN: Cit. pag. XXII.
lasse una vera conocsenza. Tutto è possibile giustificare
quando si pensa non al vero contenuto di un’azione ma alla
semplice forma con cui questa azione viene compiuta. Il
conoscere che ci dev’essere una relazione tra molteplicità e
unità, senza sapere in che cosa veramente essa consista,
può permettere di ritrovare questa relazione per ogni caso
e cioè anche per i casi in cui non esiste. Pausania si serve
insomma del suo formalismo per accogliere il contenuto che
più gli fa comodo.
Come abbiamo visto però la posizione di Pausania, come
quella di Fedro, non è priva di una certa verità, ma questa
non è una verità totale ed assoluta e, non essendo in
relazione con una visione filosofica generale, diventa necessariamente
un errore.
Il discorso di Erissimaco. — Al discorso di Pausania
segue un intermezzo (185 C E); dovrebbe parlare Aristofane,
poiché è il suo turno, ma Aristofane non può perchè
è preso da un violento singhiozzo. Oltre al fatto che la scena
ha un carattere burlesco e che essa rappresenta una caricatura
del buffone Aristofane, con questo artifizio Platone
ha voluto farci notare che nel Simposio non c’è una
pura relazione casuale nell’ordine con cui parlano i diversi
personaggi. Abbiamo visto come a Fedro segue Pausania
e cioè come si susseguono i rappresentanti, per così dire,
di due posizioni della rettorica, molto probabilmente di Lisia
e di Isocrate. Aristofane verrà logicamente posto insieme
ad Agatone, cioè l’autore di commedie sarà avvicinato all’autore
di tragedie.
Erissimaco, che è un medico, rappresenta invece un
punto di vista scientifìco-pratico di fronte al problema dell’amore.
Egli vede molto di più di Fedro e di Pausania. Le
sue due maniere di considerare il problema nella natura e
nell’arte o, diremmo meglio, nella spiritualità, verranno
infatti riprese da Diotima. Ma Erissimaco ci offre anche
nuovi aspetti del problema. Quello che Fedro e Pausania
—o —
4
non avevano visto è, principalmente, che l’amore deve essere
considerato in rapporto al male ed al bene, al negativo
ed al positivo ed in questo senso viene usata da Erissimaco
la distinzione posta da Pausania tra l’amore nobile e l’amore
popolare e applicata a tutta la natura (186 A). In tutti
i corpi Erissimaco vede il male ed il bene, il buono ed il
cattivo amore: l’abilità del buon medico consiste nel saperli
riconoscere, liberando il corpo dal male e facendo sorgere
in esso il bene. La salute è un’armonia di contrarli e la malattia
consiste nel predominare di uno dei contrari (186 B
E). Nello stesso modo l’armonia si realizza nella musica in
quanto essa accorda l’acuto con il grave (187 AB) : il ritmo
è la combinazione del lento col veloce (187 C). L’armonia
in cui consiste la salute dell’uomo ha bisogno di una vigilanza
speciale come, del resto, ogni armonia ha bisogno
della vigilanza degli scienziati per non essere turbata, e per
essere, se è necessario, ristabilita (187 E). Erissimaco applica
i suoi principi all’astronomia e alla divinazione sempre
notando la necessità di una regola e di un ordine. Nell’esposizione
del medico c’è molto di vero, per il fatto che
egli pensa, come si è visto, ad un principio positivo e ad
uno negativo: c’è qui quasi il preludio di quella che sarà
la visione platonica dell’amore. Anche Erissimaco però insieme
alla verità ci offre un errore: egli è uno scienziato e
giudica da scienziato, così non vede quale sia il valore dell’armonia
di cui parla: egli ha presente il mondo davanti
a sè come una serie di oggetti negativi e positivi, oggetti
che come medico deve curare, organizzare, armonizzare. I
contrarli di Erissimaco non sono essere e non essere, conseguentemente
l’amore da lui concepito non sarà creazione.
Egli può parlare di un amore cattivo, perchè per lui amore
è sentimento patologico che può dirigersi sia verso il bene
che verso il male, mentre per Platone non ci sarà che amore
della verità. Erissimaco non comprende la positività dell’amore
e non la può comprendere perchè non s’interessa,
come scienziato, della logica reale della realtà, ma solo di
— 4i —
una visione di questa che possa essere utile alla sua arte di
medico. Il suo discorso rappresenta quasi la verità parziale
che può offrire la sua scienza pratica, verità che deve essere
ripresa ma anche ampliata. Col concetto di armonia il
discorso di Erissimaco riunisce, in un certo senso, le posizioni
opposte di Pausania e di Fedro, ma esso non rimane
privo di errori, tra essi il fondamentale è quello di pensare
l’amore come un oggetto tra gli oggetti.
Aristofane ed Agatone. — Al discorso di Erissimaco
segue quello di Aristofane che, come sappiamo, deve essere
messo in relazione con quello di Agatone. Anche Aristofane
ed Agatone diranno la loro parziale verità sull’amore. Aristofane
sostiene che l’amore consiste sopratutto nell’unità
e combatte le distinzioni di Pausania e di Erissimaco. Per
lui nell’amore c’è tutto il destino degli uomini (189 A) e la
loro sola speranza di felicità (191 D, 193 D). Agatone sa
distinguere tra ciò che riguarda la natura dell’amore in sè e
ciò che riguarda la sua azione, ma poi, come osserva Socrate
(201 E e segg.) riconfonde nuovamente le posizioni.
due discorsi di Aristofane e di Agatone hanno un valore
sopratutto di fronte al problema del comico e del tragico
che noi vedremo ampliarsi, nel discorso di Diotima, in quello
dell’essere e del non essere. I due discorsi sono divisi da
un intermezzo (193 D-194 E) : la sua funzione è naturalmente
quella di distaccare il discorso di Aristofane da quello
di Agatone. Per quale ragione? La più plausibile ci sembra
questa : il discorso di Aristofane resta in un certo senso in
sospeso di fronte agli altri, abbiamo visto qual’è la relazione
tra i primi tre e come ognuno di essi risponda all’altro:
ad Agatone risponderà poi Socrate che criticherà il suo discorso,
ma Socrate, anzi nemmeno Socrate, Diotima accennerà
appena alle teorie aristofanesche sull’amore. Chi risponderà
ad Aristofane? Non dimentichamoci della fine del
dialogo: la risposta ad Aristofane si può pensare compiuta
dal discorso di Alcibiade il quale risponde alla protesta che
Aristofane stava per sollevare contro Socrate (212 C). In
questo modo si può spiegare anche un altro fatto e cioè che
sia stato scelto come rappresentante della tragedia un tragediografo
che conserva tanto poco il vero carattere tragico
del teatro greco. Tanto Aristofane che Agatone, come
Lisia ed Isocrate, non sono quelli che dovrebbero essere
per Platone: in tutti, come abbiamo visto, c’è una verità
ma in tutti c’è una posizione errata. La rettorica sappiamo
che deve sempre essere completata dalla filosofia, così la
vera commedia troverà sempre in fondo a sè medesima una
verità tragica. Del resto c’è del tragico anche nel discorso
di Aristofane, in quello strano destino dei mortali che si
affannano tanto per raggiungere un’unità che allo spirito
comico sembra così ridicola. Ma Aristofane è ben lungi dal
rendersi conto di questo fatto. Un comico che ha un carattere
profondamente tragico è quello di Alcibiade, di tutta
la personalità di Alcibiade che ama e vuole il vero Socrate,
sì da diventarne pazzo, ma che al vero non vorrà mai assoggettarsi
e non potrà mai partecipare. Come in Aristofane
c’è un senso del comico che a Platone non doveva suonar
bene per il ricordo sempre vivo della caricatura di Socrate
e sopratutto dei suoi effetti, così in Agatone c’è un
falso tragico, come del resto sappiamo dallo stesso Aristofane.
Agatone dimentica proprio il più importante, non si
accorge cioè che l’amore in sè medesimo è privo di bellezza
ed è per questo che la cerca : egli non si accorge della profonda
miseria di chi ama come Alcibiade, tutto il suo discorso
non è che una celebrazione dell’amore in quanto grazia
e gentilezza ed in quanto portatore di pace all’umanità.
Commedia e tragedia devono trascendersi in una visione
filosofica: se Socrate ci dà l’esempio apollineo di questa
unione, Alcibiade ce ne dà un tragico esempio dionisiaco
ma un esempio non meno vero. È infatti Alcibiade l’unico
che possa pronunciare un elogio di Socrate, l’unico che in
Socrate abbia saputo vedere un profondo mistero, il mistero
stesso della realtà. Perchè Socrate è per lui un demo
ne: posto alla fine del dialogo così come è, l’elogio di So
crate fa sì che noi ritroviamo nel filosofo, di quell’amore di
cui si è tanto parlato nel Simposio, un’immagine ed un
esempio vivente. Commedia e tragedia sono una stessa
realtà se considerate come devono essere considerate: la
tragedia, il tragico dell’arte maieutica di Socrate e di tutta
la sua vita è pur sempre pieno di un certo senso di legge
rezza e di gioia, di semplicità e di comicità, di profonda
mente serio e di profondamente ironico; così la commedia,
il senso comico di cui tutti i dialoghi sono serenamente per
vasi si conclude in una giustificazione gioiosa di ciò che
sembra la cosa più profondamente tragica: la morte. Per
la commedia diventa positivo ciò che è negativo, se essa
ha un valore veramente comico; per la tragedia diventa ne
gativo ciò che è positivo: nulla sappiamo e la verità è sì
un’eterna creazione della bellezza, ma nel dolore, nell’apo
ria. L’eudemonismo socratico si basa su una concezione pro
fondamente tragica della vita, ma veramente tragica e non
falsamente, come l’eudemonismo di Agatone.
Socrate medesimo sottolinea il significato di questi passi
del Simposio, quando, alla fine del dialogo, mentre tutti
sono caduti vittime di Dioniso meno Agatone ed Aristofane,
di fronte ad essi egli sostiene che colui che veramente
è un comico deve essere anche un tragico (223 D). Il Simposio
è così una tragedia ed una commedia nello stesso
tempo, in quanto è pieno di verità filosofiche. La medesima
cosa si potrebbe dire di tutta l’opera platonica; come
poteva una visione della vita di questo genere giustificarsi,
se insieme all’unità non veniva pensata la molteplicità, se
insieme al positivo non veniva giustificato anche il negativo?
Se la logica della realtà non fosse stata tale da permettere
la più assoluta mancanza del bene e la più lontana e
opposta posizione di fronte all’idea; ma, nello stesso tempo,
la più armonica fusione del bene e del male nella creazione
di ogni ente e del mondo, che, come vedremo, si ricrea continuamente
per mezzo dell’amore?
Socrate e Diotima. — Parla Diotima e non Socrate che
non potrebbe parlare nel tono ispirato e solenne della sacerdotessa.
Ricordiamoci, prima di iniziare l’esame del suo discorso,
delle più importanti posizioni fin qui considerate:
sappiamo infatti che l’unità è superiore all’esistenza e che
essa non può essere considerata come un oggetto (Menone,
Fedone e in seguito, la prima ipotesi del Parmenide). L’unità
può essere anche relativa, è possibile cioè una molteplicità
ideale che garantisce l’intelligibilità della realtà (Cratilo
e Fedone, poi la seconda ipotesi del Parmenide). L’unità
è poi necessariamente presente in ogni particolare (Fedone,
quarta ipotesi del Parmenide), presa come tale la
molteplicità è incoerente (Cratilo, quinta ed ottava ipotesi
del Parmenide), dal punto di vista morale conduce all’assurdo
(Ippia Minore). Nel particolare non si ama il particolare
ma l’unità e questa è quindi in esso presente (Liside,
quarta ipotesi), la bellezza è possibile in quanto nel molteplice
è presente la bellezza ideale (Ippia Maggiore, quarta
ipotesi). Il mondo empirico si deve quindi organizzare intorno
alle idee, la poesia e le altre arti sono possibili in
quanto tutte le cose sono riunite in un’unità, in quanto cioè
c’è tra molteplicità e unità una relazione e si chiami questa
relazione con qualsiasi nome (Ione, Fedone, discorsi di Fedro,
di Pausania e di Erissimaco). Le virtù particolari non
sono possibili se non in quanto partecipano al bene (Carmide),
la loro unità ci dà la scienza e cioè la coscienza del
vero ideale a cui conduce il metodo dialettico (Protagora),
la molteplicità che domina nella rettorica è condannabile:
bisogna riconoscere la presenza di un’unica virtù nelle virtù,
bisogna organizzare la rettorica verso l’idea (Gorgia,
Simposio, Fedro, Repubblica). La molteplicità del mondo
delle idee ci permette di conoscere il reale, le relazioni fra
la molteplicità ideale e quella sensibile si spiegano con la
presenza del non essere nel mondo ideale e cioè colla teoria
delle idee opposte: l’idea rimane una ma nel suo interno
si fa strada il non essere (Fedone e tutte le ipotesi negative
del Parmenide). Essere e non essere sono dunque uno di
fronte all’altro, nello stesso modo l’idea è e non è, sempre
dunque è e non è nel medesimo tempo e, poiché anche il
molteplice viene spiegato per mezzo del non essere, sempre
l’idea è nello stesso tempo una e molteplice (discorso di
Diotima e terza ipotesi del Parmenide).
Tutte le precedenti posizioni sono, e lo vedremo bene
in seguito, tutte logicamente possibili, una cioè non esclude
l’altra: tutte sono vere in quanto sono momenti della razionalità
del reale come dimostrerà chiaramente la discussione
della seconda parte del Parmenide. Dell’idea non basta
dire che è una ma bisogna anche dire tutto quello che
s’è visto.
Nella posizione sopra ricordata per cui l’idea è e non
è nello stesso tempo è implicita un’altra possibilità. L’idea
può essere e non essere: se nel suo seno c’è, quando è svolta
in tutte le sue interne posizioni, sia l’assoluta trascendenza
come l’assoluta immanenza, sia l’unità che la molteplicità;
essa acquista ai nostri occhi un carattere nuovo, proprio
perchè si lascia vedere sotto diversi aspetti. L’idea
non è solamente l’unità eleatica ma è anche una realtà esistente
ed una realtà molteplice e, come tale, è e non è. La
sua negatività è una conseguenza logica, come il Parmenide
dimostrerà, della sua positività, come la sua molteplicità
della sua unità. Il mondo empirico si spiega come sorgente
dalla sua stessa unità in quanto l’idea si pone come negativa,
in quanto l’idea non esiste. L’unità e la trascendenza
ideali non si negano per questo, anzi sono tanto più necessarie,
sia come principi della deduzione logica, sia perchè
questa deduzione non procede per gradi che via via si escludono
ma per gradi che rimangono sempre veri: il mondo
empirico da essa logicamente derivato esige una continua
unificazione, una continua riduzione della molteplicità all’unità,
del non essere all’essere. Sia l’essere assoluto come
il non essere assoluto sono entrambi logicamente possibili
ma essi non sono posizioni uniche perchè ne richiamano
continuamente delle altre di fronte a cui giustificano la loro
stessa possibilità. L’essere e il non essere posti immediatamente
uno di fronte all’altro restano immobili e come tali,
inconcepibili, in relazioni logiche tra loro come quelle che
abbiamo visto nei dialoghi esaminati conducono invece ad
una posizione in cui noi vediamo nello stesso tempo esistenza
e non esistenza fusi nello stesso principio, nello stesso
tempo, nello stesso istante.
Pensiamo ora alle possibilità di questa nuova posizione
dell’idea ed al nuovo carattere che di essa viene posto
così in luce. Contenendo in sè due principi che sono
opposti essa deve necessariamente possedere gli attributi
di quei due principi. Sarà cioè positiva ma sarà anche
negativa, avrà l’essere ma, nello stesso tempo, non
l’avrà. In quanto lo possiede, essa rimarrà simile a sè medesima,
ultimo termine e regola di tutto il molteplice, ratio
essendi della realtà, idea perfetta ed unica; in quanto non
lo possiede esse si moltiplicherà in una molteplicità, si svilupperà
nel mondo sensibile, sarà non essere e cioè la negazione
di sè medesima. Ma potrà negarsi se non esiste? Potrà
non essere se nello stesso tempo non si afferma come
positiva? E potrà essere positiva ed affermarsi come tale
se questa nuova affermazione non rappresenta una posizione
assolutamente nuova, se cioè prima di essere positiva
l’idea non era negativa? Concludendo l’idea per non essere
deve essere, per essere deve non essere. L’unità ideale più
pura non potrà affermarsi se non in relazione con una molteplicità.
Così la molteplicità più assoluta dovrà accogliere
in sè stessa una certa unità. Il Parmenide ci dimostrerà
chiaramente la necessità di queste posizioni e innalzerà il
senso dell’antinomia essere e non essere a legge trascendentale,
quella legge che vedremo giustificare chiaramente, nel
Teeteto, il metodo maieutico e che ora vediamo chiarirsi a
poco a poco delle premesse dei primi dialoghi. Già da ora
possiamo affermare ciò che sarà affermato solo dal Parmenide
e cioè che dall’unità ideale deriva necessariamente la
struttura della realtà e che dalla struttura della realtà deriva
necessariamente l’unità ideale.
A seconda che noi ci poniamo dal punto di vista ideale
o dal punto di vista della realtà del mondo noi vedremo
dal primo il molteplice e dal secondo l’unità. A contatto
con l’idea del bene il filosofo vedrà nella realtà il molteplice
come logica conseguenza della sua posizione ma in questa
molteplicità ritroverà immediatamente il bene e ritornerà
allora all’idea. In questa, ancora, non potrà arrestarsi ed
il ciclo logico-metafisico in questo modo si completerà determinandosi
come infinito ed eterno. La terza ipotesi del
Parmenide ci spiegherà, nel suo significato più profondo,
l’affermazione che ora abbiamo cercato di chiarire e cioè
che l’idea è e non è nel medesimo istante. Si tratta di un
passaggio eterno, sempre presente in ogni istante, dall’essere
al non essere e dal non essere all’essere. Proprio questo
passaggio si determina, nel Simposio, come creazione.
Dall’essere al non essere perchè nell’atto di creare l’idea,
che necessariamente è nel creatore, si nega in quanto spezza
la sua unità in una molteplicità: dal non essere all’essere
perchè con questo spezzarsi dell’idea come supersistente,
ciò che non è acquista, appunto perchè creato, esistenza.
Passiamo ora ai passi dei Simposio in cui parlano Socrate
e Diotima. L’idea come creazione viene identificata
con l’amore. Il passaggio dal non essere all’essere viene
chiarito nel passo 205 B C : « quando c’è per qualsiasi ragione
movimento dal non essere all’essere, la causa di questo
movimento è sempre un atto creatore ». Questa creazione
avviene sia nei corpi, sia nelle anime. Se essa mancasse
accadrebbe quello che si suppone accadere nel Fedone sè
mancassero i contrari (Fed. 71 A e segg.) : la vita finirebbe
perchè è attraverso la generazione che le cose mortali riescono
a diventare eterne (Simp. 208 B). Anche la creazione
spirituale tende a creare negli uomini l’eternità del ricordo,
così la creazione poetica, la creazione legislativa e la creazione
educatrice (208 E e segg.). L’amore fa sì che ciò che
è molteplice si ricrei nell’unità e da mortale diventi immortale:
in tutta la natura c’è infatti il desiderio dell’immortalità
(206 C-207 B e segg.). L’amore tende al possesso eterno
del bene (206 A), l’uomo felice non si accontenta di essere
felice ma vuole conservare la sua felicità. A che cosa sarà
diretta, perciò, la sua azione? Qual’è l’oggetto dell’amore?
Qual’è la sua maniera d’agire? È una creazione nel bello
(206 B), perchè non si può creare nel brutto. È dunque necessaria,
per colui che crea, l’idea del bello e logicamente
saranno necessarie, per il creatore, tutte le idee che determinano
la positività dll’uno. In questo modo la creazione
diventa un atto di carattere divino: « L’unione dell’uomo
e della donna è infatti una procreazione, e in quest’atto c’è
qualcosa di divino » (206 C) : è questo nel mortale un carattere
di immortalità. « Tutte le volte che un essere fecondo
si trova in vicinanza del bello, procrea, ma ciò non può accadere
in vicinanza del brutto » (id.). La creazione è dunque
possibile solo quando nel molteplice viene trovata ed è
presente la bellezza, solo quando il singolo si sente reale
nell’idea della bellezza eterna. Qui il mito dell’anamnesi viene
giustificato in una più ampia posizione, così il conoscere
è sopratutto un atto maieutico possibile in quanto in noi c’è
già la verità. La bellezza presente nel molteplice fa in modo
che questo si riproduca, che il genere umano non perisca.
Ciò è possibile solo per la presenza dell’idea, per la presenza
dell’unità in quanto positività assoluta. Avviene così,
quando l’idea viene vista dal molteplice come essere, che
questo molteplice si eternizza con la riproduzione. È attraverso
questa che la molteplicità riproduce sè medesima : ecco
il passaggio dall’essere al non essere ed il moltiplicarsi
continuo dell’idea come unità. Quando il filosofo è salito
fino all’idea comprende la realtà e la crea quasi dal nulla;
ma questa spiegazione della realtà, questa realtà in quanto
intelligibile, esige, come sappiamo, la relatività dell’uno e
cioè l’esistenza nell’interno dell’uno stesso di una molteplicità,
di una negazione, di un non essere. Anche qui solo il
Parmenide potrà chiarire fino in fondo il problema. Si spiega
così l’ultimo termine dell’amore, la dialettica ascendente
che porta il filosofo all’intuizione della bellezza (210 e segg.).
Il filosofo dovrà arrivarci dopo un’esperienza reale di tutti
i diversi gradi della molteplicità (Rep. VI, 490 A B). Giunto
all’ultimo grado egli sarà in possesso dell’intuizione del
bello, sarà vicinissimo al bello in sè, ma proprio questa vicinanza
sarà la causa della sua creazione, del suo tentativo
di discendere nel mondo per imporgli il bene e la perfezione
(Rep. VI, 496 B e segg.). Così secondo noi si può spiegare
il passo 209 E-212 A, in rapporto a tutto il resto, e non
preso isolatamente, altrimenti esso darebbe luogo a contraddizioni
insolubili. L’ascesa all’intuizione del bello è, in conclusione,
necessaria, per la stessa ragione per cui è necessaria
la bellezza nell’atto della creazione, per la ragione che,
nella creazione, non solo si passa dal nulla all’essere ma
anche si obbliga la purezza ideale a contaminarsi, l’idea a
fenomenizzarsi, a diventare infine non essere.
È per le ragioni sopra accennate che, conseguentemente,
l’Amore non sarà bello, come voleva Agatone, ma sarà
privo della bellezza (200 ABC) , dovrà avere un oggetto
che è fuori di lui e che continuamente ricerca (199 C E).
Amore è figlio di Poros, del dio degli espedienti e della ricchezza,
e di Povertà; partecipa in conseguenza sia della
natura del padre sia della natura della madre (203 B e
segg.). Amore viene considerato un demone (202 E e segg.),
cioè un mediatore tra gli uomini e gli dei, uscendo dal mito,
tra la molteplicità e l’unità e comincia così ad affermarsi
quel concetto di medietà che tanta importanza avrà nelle
ultime espressioni del pensiero platonico.
In quanto amore, vista dunque nella posizione con cui
la vediamo nel Simposio, l’idea è l’eterna creatrice del mondo,
oltre ad essere l’essenza e la realtà positiva di esso, ed
esprime così il senso demonico del vero filosofo che, dopo
aver conosciuto il mondo ideale, ritorna nel mondo della
doxa. Socrate poteva benissimo accennare sorridendo alla
PACI
sua credenza negli dei, in quanto, rimanendo nel mito ed
applicandolo alla filosofìa, ogni posizione logica dell’idea
ha la sua verità e di essa si può affermare tanto la trascendenza
quanto la sua possibilità creatrice. È questa la verità
nascosta dalla fede negli dei e nei demoni. Ma se Socrate
poteva dire che la sua era una vera religione in quanto inverava
l’antica nel suo spirito e nella sua verità, la posizione
socratica era troppo nuova perchè uomini come Anito
e Meleto non sentissero in essa un profondo e temibile carattere
rivoluzionario.
IL FEDRO.
Il Fedro ci presenta uno dei problemi più intricati dell’interpretazione
del pensiero platonico l). Insieme alla discussione
sulla posizione cronologica, per cui la critica dall’ipotesi
dello Schleimacher, che considerava il Fedro come
la prima opera di Platone, tende ora a trasportare il
dialogo all’ultimo periodo, il Fedro è un vero rebus anche
dal punto di vista del pensiero e della forma Von
2).
Arnim e Maier avvicinano il problema del Fedro ai problemi
del Sofista e del Politico. Così anche Stenzel pone in
relazione con il Sof. 253 D il passo del Fedro 265 D 3). Le
1) Questo capitolo è già apparso, con qualche piccola modificazione,
nell’« Arch. di stor. della filos. it. » 1936, II.
2) I. STENZEL : Studien z. Entwicklung d. Plat. Dialektik.
Leipzig, 1931, pag. 105.
3) STENZEL: Op. cit. pag. in, Il passo del Sofista 253 D è
uno dei passi più significativi sul procedimento diairetico che,
secondo lo Stenzel, è l’interesse fondamentale del pensiero platonico
dell’ultimo periodo, mentre fino alla Repubblica sarebbe
rimasta valida la primitiva teoria platonica tendente a concepire
l’idea come un valore. Diamo alcune notizie a proposito dell’opera
dello Stenzel, notizie che sono necessarie a meglio comprendere
i problemi di cui ci occupiamo. Tutti i problemi presentatisi
nei dialoghi fino alla Repubblica trovano la loro soluzione, secondo
lo Stenzel, nel procedimento diairetico, mentre si muta in
questo modo la fisionomia dell’idea che si avvicina sempre più al
discussioni si basano tutte sul fatto che si ammettono due
periodi ben distinti del pensiero platonico come fa principalmente
lo Stenzel. Quest’ultimo crede il Fedro un dialogo
concetto. L’idea diventerà divisibile e nello stesso tempo si risolverà
il problema del chorismos e si fonderà una vera methexis.
problemi si aggireranno intorno alla doxa su cui bisogna tener
fermo per l’interpretazione del Teeteto e del Sofista. Platone si
avvicinerebbe così all’interesse dominante del secolo IV; e noi
sappiamo dall’Usener e dal Wilamowitz che in questo tempo si
era formata una vasta scienza dell’esperienza. In questo modo si
potrebbe colmare, secondo lo Stenzel, l’abisso tuttora rimasto
aperto tra Platone e Aristotele. A Platone il regno del divenire
si presenterebbe, nel secondo periodo del suo pensiero, come un
campo degno della più seria indagine.
Il metodo diairetico permette a Platone di dividere l’idea e
di assegnare a questa tutte le funzioni del concetto. Ma ogni
diairesis, ogni divisione, conduce ad un indivisibile, ad un « atomon
», come lo chiama Platone stesso (Sof. 229 B), quindi ad
una nuova idea che non ha più le caratteristiche dell’antica e che
Stenzel chiama « atomon eidos ». Nel procedimento diairetico,
per mezzo di continue differenziazioni e divisioni, si giunge a
nuovi concetti, a concetti idee, finché l’ultima idea trovata non
esclude più la possibilità di essere vista come generica ed una nello
stesso tempo. Questo procedimento appariva a Platone come
deduttivo ed il resultato, l’idea atomo, come il resultato di una
deduzione. E poiché Platone vuol spiegare il singolo nella sua essenza
determinata necessariamente, si troverà di fronte al proplema
della doxa, volendo anche fondare la verità essenziale del
singolo giudizio e non solamente la forma generica di quest’ultimo.
Ora il procedimento diairetico si applica con un taglio netto
ogni volta che si presenta un dato. Ad es. : il sofista è un profano
. uno che se ne intende? La risposta a questa domanda presenta
un nuovo concetto il quale a sua volta è suscettibile di una
divisione. Prima di giungere in questo modo al concetto ultimo
si trova così una quantità di concetti che sono quindi quasi sottospecie
dell’ultimo concetto e stanno nella relazione di essere e
non essere, non essere che assume il significato nuovo dell’« altro
». La diairesis presenta continuamente l’essere ed il non essere
in una concatenazione infinita: il primo si mostra come
<( questo essere », il secondo come « non questo », quindi come l’« altro )>. Questo connesso del non essere con la diairesis viene
esplicitamente chiarito da Platone nel Sofista 257 E: Lo Straniero:
«la natura dell’altro mi sembra dividersi nel medesimo
modo della scienza». Teet. : «come? ». Lo Str. « anche questa
senza dubbio è una ». « Ma ogni parte che se ne distacca per ap
di passaggio; formalmente esso è socratico, dal punto di
vista del pensiero si contrappongono nel Fedro due posizioni
: quella del passo 277 B : « Bisogna essere capaci di
definire ogni cosa di per sè stessa e sapere inoltre, dopo
averla definita, suddividerla nuovamente secondo le sue specie,
non arrestandosi che alla specie indivisibile », che indica
chiaramente il procedimento diairetico e l’atomon come
scopo della divisione, e quella del passo 249 B, « Bisogna
che l’intelligenza si eserciti secondo ciò che si chiama idea,
andando da una molteplicità di sensazioni verso l’unità di
cui l’affermarsi è un atto di riflessione. Ora quest’atto consiste
nel ricordarsi di oggetti che già altrove la nostra anima
plicarsi ad un oggetto determinato riveste un nome che le è proprio
ed è per questo che si parla di una molteplicità delle arti e
delle scienze». Teet. : «Perfettamente». Lo Str.: «Ebbene le
parti di quest’unità della natura dell’altro si specificano nel medesimo
modo ».
Secondo lo scopo a cui tende la divisione, ogni gradino di
questa mostra come un non essente sta di fronte ad un essente.
Una volta giunti all’atomo-idea si compie una nuova operazione:
tutti i diversi essenti trovati, tutti i diversi sottoconcetti, che
hanno condotto al vero e proprio concetto, vengono riuniti: operazione
questa espressa in greco con i verbi « sunagein » (Sof.
224 C), « sumplekein », « sundein » (Sof. 268 C) ed in questo
precisamente consiste la « sumploke eidon », opposta alla pura
« sumploke onomaton » del Teeteto. In questo modo l’atomo
idea contiene tanti predicati quanti sono i concetti in esso raccolti
e ci offre la definizione in maniera da realizzare ciò che nel
Parmenide era sembrato assurdo a Socrate, che un oggetto possa
riunire in sè, senza contraddizioni, determinazioni diverse, che
l’idea sia cioè una e multipla nello stesso tempo (cfr. Parm., 195
E). (Cfr. Op. cit., pagg. 54-72).
Il passo del Fedro, 265 D, ci presenta Socrate che parla di
due procedimenti dialettici. Il primo consiste nel « condurre ad
una forma unica, per mezzo di una visione d’insieme, ciò che è
disseminato in mille parti, in modo che con la definizione di ciò
che interessa (traduco così « ekaston » perchè mi sembra di poter
rendere solo in questo modo il significato che qui si dà al neutro
nel contesto) tra quelle, si possa far vedere con chiarezza quale è
quella su cui si vuole in ogni caso condurre l’indagine ». In 265 E
il riavvicinamento al metodo diairetico così come è concepito dallo
Stenzel è molto chiaro: l’altro procedimento dialettico consiste
per Socrate « nell’essere capace di dettagliare per specie ».
ha visto », in cui la dialettica viene concepita in funzione
dell’anamnesis e cioè in funzione ad una teoria essenzialmente
socratica o, almeno per lo Stenzel, del Platone del
primo periodo. La formazione del concetto di specie sarebbe
data nel passo 277 B come risultante dalla divisione e nel
passo B come unificazione della molteplicità delle percezioni.
Nel passo 249 B la contraddizione consisterebbe nel fatto
che, mentre si considera in un primo tempo l’idea come risultato
delle sensazioni, in un secondo tempo questa viene
posta come condizione dell’atto unificante come reminiscenza.
Vecchio e nuovo -Due forme della dialettica. — Lo
Stenzel nota giustamente che la prima affermazione del passo
249 B poteva prestarsi ad una equivoca interpretazione
sensistica e perciò Platone ha ricorso, in un secondo momento,
alla teoria dell’anamnesis come alla massima garanzia
contro ogni empirismo. Il senso del brano è, sempre
per lo Stenzel, comprensibile, se si pensa che in esso si vuol
mostrare la possibilità di raccogliere in un’unità le singole
percezioni. Ora il metodo diairetico, che si chiarirà principalmente
nel Sofista, è basato sopratutto sul ravvicinamento
dell’idea colla percezione sensibile, conformemente a tutto
il movimento del pensiero platonico che tende, per lo Stenzel,
sempre ad una maggiore valutazione del mondo della
doxa e, rispettivamente, ad un progressivo concettualizzarsi
dell’idea. Se si pensa che nel passo 249 B sono di fronte le
due concezioni, la vecchia, tendente a vedere l’idea come
un valore, e la nuova che avvicina l’idea agli oggetti del
mondo sensibile, allora non si troverà più in quel passo nessuna
contraddizione. Esso, mostrandoci come le percezioni
intese non sensisticamente si raccolgono in un raggruppamento,
ci prepara alla possibilità di vedere nelle percezioni
un valore ideale e nell’idea una certa identità con le percecezioni.
Ci si avvicina così al problema del Sofista ed alla
teoria del metodo diairetico a cui si accenna nello stesso
Fedro al passo 277 B. Il vecchio e il nuovo che qui si tenta
di porre in una certa continuità trovano una corrispondenza
nella forma del dialogo che è, come abbiamo detto, per
10 Stenzel, socratica, ma che racchiude però nel suo seno
posizioni che appartengono al vero pensiero platonico. Il
metodo diairetico è stato possibile solo dopo che il Parmenide
ebbe risolto i problemi di come l’uno possa diventare
molti; ora, una volta affermata la nuova posizione, questa
si trovava, per lo Stenzel, in una certa contraddizione con
11 pensiero platonico del periodo socratico, che ricercava
sopratutto nei molteplici l’unità e tendeva a non corrompere
la trascendenza ideale. Inoltre il passaggio all’unità risultava
in un certo senso concordante con la primitiva visione
dei dialoghi socratici, presentandosi sì come resultato di una
divisione, ma come un resultato indivisibile (atomon), quindi
come risultato unitario. Questo fatto poteva rendere più
facile il tentativo di riavvicinare la vecchia e la nuova posizione.
« Non doveva attrarre Platone come artista la rappresentazione
di quest’ultimo connesso unitario, il riprendere
nuovamente i vecchi problemi pur tenendo conto, con
grande circospezione, delle posizioni nuovamente acquistate?
» ‘). Se Platone voleva porre in relazione il vecchio
ed il nuovo doveva prima di tutto dimostrare l’accordo
delle nuove posizioni con l’anteriore processo induttivo socratico
2). In questo modo si spiega il passo 249 B in questione,
come si spiega il fatto che. nel passo 277 B Platone
parli chiaramente del nuovo metodo diairetico che viene
così posto in relazione col punto di vista dei dialoghi so
cratici.
Queste posizioni dello Stenzel sono certamente molto
fondate ma ci obbligano a delle osservazioni. Per noi nel
pensiero platonico non è assolutamente possibile porre delle
nette divisioni tra periodi e periodi di pensiero e ci vorrem
1) STENZEL: Op. cit. Pag. 10S.
2) STENZEL: Op. cit. Pag. 109.
mo sforzare di vedere la filosofia di Platone come un tutto
unitario. Anche se nel Teeteto, come vedremo, Platone ri
prenderà in esame, dopo il Parmenide, il metodo socratico,
non ci sarà mai nello svolgimento del suo pensiero un vero
salto evolutivo.
Se del resto Platone sente il bisogno di ricollegare il
nuovo all’antico, vorrà considerare questo antico come una
posizione superata e perciò non più vera di fronte all’ulteriore
sviluppo del suo pensiero? Platone vuole evidentemente
che insieme alla sua nuova posizione sia conservata l’antica
ed è tenendo conto di questo fatto che per noi è possibile
accettare i resultati dello Stenzel. Tra metodo diairetico
e metodo socratico ci sembra che non ci sia contraddizione,
ma piuttosto crediamo che i due metodi siano ambedue
veri, ciascuno nel loro ambito. Nulla impedisce con ciò
di riconoscere effettivamente nel Fedro posizioni già note,
ma non è detto che queste posizioni debbano considerarsi
come superate dalle nuove posizioni del pensiero platonico
e che debbano perciò essere del tutto respinte; ed è proprio
lo Stenzel che ci dà, come abbiamo visto, le basi fondamentali
di una simile interpretazione.
Secondo il nostro punto di vista, in Platone si possono
distinguere, non storicamente ma filosoficamente, due metodi
della dialettica : il primo è diretto alla conoscenza della
razionalità del reale e cioè è un metodo in cui si muove un
problema filosofico, il secondo è invece caratterizzato dal
fatto di avere come oggetto la molteplicità del mondo empirico.
Le leggi su cui questo secondo metodo si basa saranno
più rigide e meno elastiche di quelle del primo, si riuscirà
a vedere in esso delle regole caratteristiche che ce lo faranno
apparire quasi come una logica formale. Corrispondentemente
ci dovranno essere due dialettiche, una dialettica che
chiameremo filosofica ed una che chiameremo formalistica.
Uno dei problemi più importanti sarà quello di vedere in
quale relazione queste due dialettiche stanno tra di loro.
Per lo Stenzel, come si è visto, le due dialettiche si distin
guono in quanto appartengono a due diversi periodi del pensiero
platonico. Nei dialoghi socratici Platone pensa alla
dialettica filosofica; a poco a poco la visione platonica si
trasforma e, evolvendosi e lasciando le precedenti posizioni,
diventa quella che noi troviamo nel Sofista, nel Politico e
nel Filebo. Qual’è, si chiede lo Stenzel, il procedimento logico
che viene usato dalla dialettica del primo periodo? Esso
si basa sull’intuizione di idee molto importanti come il
buono, il bello, e il vero, ma per questo applicarsi immediatamente
a concetti molto complicati sarebbe stato necessario
aver formulato una logica. Anche queste osservazioni dello
Stenzel sono giustissime. Dobbiamo però notare che per
Platone non sarà mai possibile ridurre a concetti le idee del
bello e del buono e le altre simili. Queste idee superiori insieme
a molte altre conserveranno sempre il loro valore puramente
ideale: solamente Platone ci farà vedere, nei dialoghi
metafisici, che ci possono essere idee di tutte le cose e
quindi ide a cui corrisponde una realtà empirica e che possono,
ve vogliamo usare il linguaggio dello Stenzel, essere
pensate come concetti.
Si potrebbe inoltre insistere anche su un altro problema:
quando si cerca di fondare una dialettica formale e di
comprendere la realtà del concetto, con quale mezzo si svolge
questa indagine? Non è essa un oggetto di studio, non
ricade a sua volta sotto il metodo di investigazione filosofica?
La ricerca di una logica formale non è una delle tante
ricerche di cui si occupa la filosofia? Essa è in un secondo
piano rispetto alla dialettica filosofica usata nei dialoghi, in
quanto è di questa un’applicazione particolare. Se la logica
formale non venisse distinta dalla logica superiore, che
guida il nostro pensiero quando con esso si tende ad una
verità filosofica, non si capirebbe più con quale maniera
e con quali mezzi noi riusciremmo a stabilire un metodo
logico. Lo Stenzel sostiene che prima di applicarsi a problemi
quali l’idea del buono e del bello, sarebbe stato
necessario trovare un metodo logico : ma, secondo noi, que
sto metodo logico, dedotto necessariamente da posizioni empiriche,
non sarebbe mai riuscito a condurci a delle verità
filosofiche come sono quelle riguardanti l’idea del buono
e del bello. Il problema della logica formale doveva
invece sorgere necessariamente nel seno stesso della ricerca
filosofica come tanti altri problemi; ad un certo momento
si può presentare questa domanda: come dobbiamo
regolarci quando si tratta non di cercare che cos’è il bello
ma di definire che cos’è l’oggetto a? Il problema della conoscenza
del mondo empirico sorgerà proprio in questo
modo, dopo che i problemi filosofici sono stati posti in tutta
la loro interezza, come ha ben notato anche lo Stenzel a
proposito del Parmenide. Naturalmente il metodo diairetico
che permetterà la conoscenza della realtà empirica dovrà
necessariamente essere in relazione con una visione filosofica
generale del mondo e cioè con i risultati del metodo
filosofico. Noi crediamo perciò che ci sia in Platone, piuttosto
che la trasformazione di una dialettica filosofica in una
dialettica formale, l’affermazione della necessità delle due
dialettiche. Il passo del Fedro 265 D si potrebbe spiegare
pensando che nella prima parte di esso si accenna al metodo
filosofico e che nella seconda parte si accenna al metodo
diairetico. I due movimenti dialettici che è possibile ritrovare
nel passo suddetto si potrebbero riconoscere il primo
come una dialettica ascendente che conduce alla conoscenza
della razionalità del reale ed il secondo come una dialettica
discendente mirante a dare la definizione di un singolo oggetto
in relazione con la posizione di questo nella realtà razionale.
Il Robin interpreta senz’altro il passo in questione
in questo senso e così tutto il problema dell’opposizione delle
due dialettiche nel Fedro Come esempi del primo procedimento
dialettico il Robin pensa ai dialoghi socratici, come
esempi del secondo egli cita naturalmente i dialoghi metafisici.
1) Cfr. R OBIN: Op. cit. P. C LIV e segg.
L’interpretazione del Robin però non tiene conto, e
non poteva farlo, dei problemi che si affacciano a chi rilegga
il Fedro dopo aver conosciuto l’opera dello Stenzel. Noi
crediamo che nel passo 265 D E si alluda, sia nel primo caso
sia nel secondo, al procedimento diairetico che viene visto
prima come ascendente poi come discendente. Nel passo
249 B crediamo invece che si tratti del metodo filosofico
così come si esprime nell’ascesa del processo induttivo socratico.
Le nostre interpretazioni presuppongono però, e
nello stesso tempo provano, che in Platone non si può trovare
un metodo ascendente che coincide col metodo filosofico
e un metodo discendente che coincide con il procedimento
diairetico, ma piuttosto si deve distinguere un metodo filosofico
che si distingue nei due procedimenti ascendente e
discendente ed un metodo diairetico che si distingue nello
stesso modo. Questa interpretazione ci sembra in armonia
con il resto del pensiero platonico. Il metodo filosofico, come
ascendente, ha ragione il Robin a ritrovarlo in tuttidialoghi socratici e come discendente ogni lettore di Platone
può ricordarsi della Repubblica dove, se il pensiero
sale fino all’unità, si pone però la necessità della sua discesa
per spiegare tutto il reale ‘). Il problema del Parmenide
sarà proprio quello di realizzare ciò che nella Repubblica
si è affermato come necessario dopo l’ascesa all’unità e cioè
la discesa dall’uno e l’applicazione nella sua interezza del
metodo filosofico discendente, mentre il Teeteto cercherà di
giustificare alla luce dei resultati del Parmenide il metodo
induttivo socratico o il metodo ascendente.
1) La dialettica filosofica conduce fino ad un principio incondizionato
che giustifica i gradi di conoscenza per mezzo dei
quali si è arrivati fino ad esso. È questo il movimento che chiamiamo
metodo ascendente della dialettica. Ma quando ha raggiunto
l’ultimo suo gradino il pensiero ridiscende, tenendosi fermo
alle conseguenze che dal principio raggiunto derivano, ritornando
quindi a giustificare, in questa sua discesa, le premesse da cui era
passato e per mezzo delle quali era giunto all’unità. Cfr. principalmente:
Rep. 516 e segg. e 511 B. C.
Analogamente nel metodo diairetico non c’è solo una
discesa, come potrebbe sembrare osservando a prima vista
il processo di divisione, ma questa divisione è possibile solo
se preceduta da un processo di unificazione ascendente ed
è proprio di questo che si parla nel passo 265 D del Fedro,
come primo procedimento da notare. Questa ascesa è proprio
il « condurre ad una forma unica, per mezzo di una visione
d’insieme, ciò che è disseminato in mille parti » come
si esprime il passo citato. La diairesis, dividendo idea da
idea, pone un limite in ciò che è per sua natura illimitato,
poiché le parti dovranno necessariamente, man mano che
si formano per divisione, formarsi nell’interno di un’unità
che è proprio quella fissata nell’ascesa diairetica. È per questo
che nel passo 265 D si dice che si deve dare una definizione
di ciò che è disseminato in mille parti, e cioè illimitato,
e si sostiene che si deve vedere con chiarezza « quale
è quella parte su cui si vuole in ogni caso condurre l’indadine
». Non solo, come dice Stenzel, si tratta dunque qui
di un riavvicinamento al mondo empirico, ma troviamo già
la descrizione di un processo della diairesis. In più il processo
di ascesa unificatrice, necessario ad ogni diairesis, ci
sembra anche compiere l’importante funzione di ricongiungere
il metodo diairetico alla dialettica filosofica. Sarà più
facile riportarsi ad un esempio concreto. Se si tratta di trovare
l’idea del pescatore di lenza, ci troveremo di fronte a
questo problema; se esiste l’idea della caccia (cfr. Sof. 219
E e segg.) esistono altre due idee, e cioè quella della caccia
al genere animato e quella della caccia al genere inanimato;
accettata la prima e trovata un’unità saremo obbligati a
dividere ancora la caccia al genere animato in caccia agli
nimali pedigradi e in caccia ai nuotatori; accettata la seconda
dovremo dividere ancora. Ma, si noti bene, con quale
criterio si sceglie la caccia ai nuotatori e non quella agli
animali pedigradi? Perchè si tiene presente un’unità già
precedentemente stabilita quando si pose la ricerca di un
pescatore. È quindi un’unità già precedentemente stabilita
che rende possibile la divisione, altrimenti noi non sapremmo
se procedere da una parte oppure dall’altra e cioè non
sapremmo più dividere. Si divide in quanto si compie l’azione
su un’idea unica. E si noti che man mano che si risale
dall’idea trovata al punto di partenza, i generi diminuiscono
in comprensione ed aumentano in estensione, per cui,
prima della caccia, ci troveremo di fronte all’idea di cattura,
la quale è più estesa perchè ci può essere cattura per
caccia e catura per lotta. Così di seguito, finché arriveremo
all’idea di arte e, se si procedesse ancora in avanti, ci troveremmo
nella necessità di cercare l’idea dell’essere e qui
saremmo in piena ricerca filosofica.
Rettorica e metodo diairetico. — Fedro presenta a Socrate
un discorso di Lisia. Noi sappiamo dal Simposio, dove
Fedro ci appare come un discepolo dell’oratore, che in
Lisia c’è una certa coscienza delle relazioni possibili tra i
molteplici, ma che queste relazioni vengono viste da un
punto di vista dogmatico e usate per un fine pratico. Era
possibile chiedersi: se la rettorica di Lisia usa un metodo
falso, quale sarà il. metodo che dovrà essere usato da una
vera rettorica? Le regole di cui Lisia si serve nel discorso
sull’amore, che viene letto da Fedro, trovano una certa rispondenza
nella realtà, tanto è vero che le sue argomentazioni
sembrano a prima vista molto convincenti. Se il discorso
di Lisia è possibile lo è perchè si basa su delle vere
relazioni logiche, ma erroneamente usate, o meglio, usate
per un fine pratico. Ora è evidente che in un discorso delle
connessioni logiche ci dovranno essere e che la possibilità
di convinzione di esso si dovrà su queste basare, ma queste
connessioni non dovranno essere usate indipendentemente
dal loro contenuto filosofico e dovranno essere considerate
in relazione con tutta la realtà e cioè con la verità.
Ecco come si passa al problema di una logica del discorso
che sia in relazione con una visione filosofica generale; col
ricollegare un singolo problema morale ad una visione ge
nerale e determinare ogni azione particolare in vista del
l’unità fondamentale e cioè dell’idea del bene.
Lisia spingeva ad una azione dimostrando che era giusta
col ricollegarla ad una visione generale che però era necessariamente
parziale. Qual’era l’interno vizio logico, il
giuoco su cui Lisia si basava per convincere i suoi ascoltatori
a compiere qualsiasi azione? Una logica diventa in questo
modo assolutamente necessaria, perciò Socrate raddrizza il
discorso di Lisia e cercherà di dimostrare in che modo è stato
possibile comporlo. Il discorso in questione si basa su una
verità generale: l’amore di un amante che si dirige verso
la bellezza sensibile è, per colui che viene amato, un male.
Ma invece di concludere che tra amato ed amante le relazioni
non dovranno essere che di carattere spirituale, Lisia
ne conclude che, per l’amato, sarà meglio concedere i suoi
favori piuttosto a colui che non l’ama. Lisia non tiene conto
che non esiste solo l’amore di cui egli parla e che il fatto
stesso che rende possibile il suo discorso dimostra l’esistenza
di un amore per cui non è male amare chi ama veramente.
Nel primo discorso Socrate dimostrerà in che senso il
discorso di Lisia è vero: se, egli dimostra, per amore s’intende
quello che intende l’oratore, e dà qui dell’amore una
definizione che potrebbe dare anche Lisia, allora non bisognerebbe
amare chi ama, ma chi non ama. La definizione
dell’amore che Socrate pronuncia nel passo 238 C non è da
prendersi come tale, ma come una definizione posta ipoteticamente
per poter fare in modo di giungere alle stesse conclusioni
di Lisia. Da ciò che precedentemente s’è visto, si
conclude che Lisia parla di un amore senza darcene la definizione,
ma che, una volta data questa definizione e riconosciuto
in quale relazione essa è con la verità, allora il suo
discorso sarebbe giusto ed avrebbe un senso, ma la conclusione
pratica di esso sarebbe assai diversa.
Guardiamo ora alle conclusioni che derivano se si pongono
di fronte i due discorsi, quello di Lisia ed il primo di Socrate.
Se, stabilendo bene le definizioni di una cosa, se ne
deducono le conclusioni logiche e si arriva ad una conclusione
su un fatto empirico, vuol dire che c’è una relazione logica
necesaria tra le parti del discorso. Questa relazione logica
sarà vera o falsa a seconda che le premesse siano in accordo
o in disaccordo con la razionalità del reale e cioè con una visione
filosofica. Nel primo caso la soluzione su un oggetto
empirico sarà positiva, nel secondo caso sarà negativa. Nel
discorso di Lisia il procedimento logico reale avrebbe dovuto
essere questo: se amore è —A, questo caso empirico
dovrà essere —a. Così, se Lisia fosse stato coerente e non
interessato, non avrebbe detto che la verità. Ma Lisia non
afferma che l’amore è —A, e lascia completamente qualsiasi
definizione. Altrimenti il suo discorso avrebbe il significato
contrario di quello che vuole avere, perchè dimostrare
l’equivalenza tra la definizione negativa di un caso generale
(— A) e un caso empirico (— a) significa anche dimostrare
l’equivalenza tra una definizione positiva e un caso
empirico positivo (se — A è equivalente a —a, anche A sarà
equivalente ad a). Socrate col suo discorso dimostrerà proprio
ciò che s’è visto colle precedenti conclusioni. Si scopre
così uno schema logico con cui si prende un oggetto a e si
mette in relazione per mezzo di una definizione (A) con la
realtà, da questa poi si trova la posizione del caso empirico
a. Lisia usa la logica al rovescio e cioè usa una logica
senza premessa.
Potrebbe sembrare ancora strano che il suo discorso
si presenti con tanta semplicità ed evidenza. Prendiamo
il passo 262 B. In esso Socrate afferma: « quando si giudica
contrariamente alla realtà e si è vittime di una illusione,
è chiaro che, se questo male è penetrato in noi, è
a causa di certe somiglianze ». E ancora precedentemente
(262 A) aveva notato che se si vuole ingannare senza ingannarsi
bisogna conoscere a fondo le rassomiglianze della
realtà (Cfr. anche il passo 273 D in cui il problema viene
visto in rapporto al valore della scrittura). Anche qui c’è
già una chiara allusione al procedimento diairetico. Esso si
rivela attraverso il problema della rettorica in quanto è
nella rettorica che si avvicina decisamente un mondo razio
nale ed una visione filosofica di questo con dei casi parti
colari, con la necessità di giudicare e conoscere questi casi
particolari. Quando questi diventeranno dei semplici oggetti
dell’esperienza allora il metodo diairetico si manifesterà in
tutta la sua chiarezza.
Ma si noti ancora quanto segue. Prima di incominciare
un discorso bisogna definire ciò che non ha un valore
uguale per tutti (263 B) e qui Socrate si richiama
esplicitamente al suo primo discorso. In esso, egli dice,
« per tutto il resto non abbiamo compiuto che un giuoco,
ma in quelle cose che una felice fortuna ci ha fatto dire,
ci sono due procedimenti di cui non sarà senza interesse
di comprendere tecnicamente la funzione » (265 C). Socrate
si riferisce anche al suo secondo discorso in cui ha compiuto
della vera rettorica, ha posto l’amore in relazione ad un mito
che velava la razionalità profonda della realtà e poi ha
dimostrato che, nel caso particolare, bisogna amare chi
ama. Ora è precisamente dopo il passo 265 C che troviamo
il primo chiaro accenno al metodo diairetico (265 D) che,
come abbiamo visto, si divide anche nei due procedimenti
ascendente e discendente. In ogni caso prima di definire un
oggetto empirico bisogna definire l’idea che con questo oggetto
deve essere posto in relazione. In questo modo noi ci
spieghiamo ancor meglio il passo 277 E : in esso si parla di
una logica formale come quella che è necessaria per la rettorica
che deve dare una definizione e porre il suo problema
in relazione a tutta una visione filosofica per poi procedere,
attraverso la divisione, alla comprensione del caso singolo.
La divisione è possibile per mezzo delle rassomiglianze di
cui sopra si è parlato e se Lisia giunge alle conclusioni che
vuole è perchè procede attraverso la divisione non per il
lato giusto, ma per il lato opposto a quello che dovrebbe
usare.
Rettorica e caratteriologia. — Si è visto così come il
problema della rettorica conduca al problema della logica
formale. Ma c’è nell’interno stesso del problema considerato
un’altra complicazione. Nel suo secondo discorso Socrate
dimostra quale dev’essere l’ideale della nuova rettorica. Si
vuol sapere qualcosa su un fatto particolare dell’amore?
Bisogna prima di tutto pensare all’idea dell’amore e porla
in relazione con tutta la realtà ideale. Ma se la rettorica deve
guidare le anime e deve essere perciò una « psicagogia »,
deve anche conoscere la natura dell’anima: noi diremmo
che l’oratore deve conoscere qual’è il carattere di quest’anima
e qual’è la sua posizione nella realtà. La visione gene
rale a cui ogni oratore deve ricollegare il fatto particolare
si rivela allora come una conoscenza delle possibili posizioni
che possono avere le anime nell’universo. Le visioni del
Fedone e del Simposio sono troppo vaste per poter ricollegare
ad esse un fatto particolare: noi abbiamo bisogno di
una spiegazione filosofica che sia più vicina ai bisogni della
vita, abbiamo bisogno di ridurre la verità, di avvicinarla
al mondo empirico, senza, possibilmente, che essa perda
il suo valore positivo. I termini logici dovranno in un certo
senso negare il loro valore universale per muoversi in una
visione temporale in cui si succedono nel tempo i termini
che invece, di fronte al pensiero, si succedono logicamente.
È così che Platone ci disegna il mito della processione delle
anime.
Nel Fedro le posizioni logiche del Simposio si trasformano
in un mito che tenta di spiegare la ragione delle diverse
posizioni delle anime di fronte all’idea del bene e
la ragione delle diverse specie di anime, dei diversi carattri,
delle diverse individualità. Il mito è concepito su uno
sfondo razionale, ma non può dire nulla di preciso e di
scientificamente vero. E non può dirci nulla di vero proprio
perchè il problema non è un problema filosofico, ma piuttosto
una applicazione del problema filosofico ad un certo
campo: la psicologia 1). Noi sappiamo sicuramente dal Fedone
che il destino dell’anima e la sua storia sono regolati
dalle stesse leggi su cui si muove il mondo, nel Fedro essa
ci è presentata come automotrice, ma non possiamo conoscere
perfettamente la storia di quest’anima;-solo in un mito
ci è possibile trasformare la visione logica del problema nel
succedersi delle cadute e del salire dell’anima all’idea del
vero e del bene. Poiché il problema che qui Platone si pone
è un problema psicologico in senso universale e totale, la
questione si potrebbe porre anche in questi termini: o la
psicologia ha un valore assoluto e allora essa si riduce a
filosofia o essa non ha un valore assoluto e, in questo caso,
non possiamo pretendere di considerare i suoi risultati sullo
stesso piano dei risultati di carattere filosofico. Il problema
acquista in Platone anche un senso più profondo : se la psicologia
e la caratteriologia sono necessarie, lo sono per una
psicagogia e cioè per una vera rettorica. Compito di quest’ultima
è, come sappiamo, il ricollegare un atto particolare
ad una visione generale. Ora un atto particolare è un momento
del divenire, è, cioè, un momento isolato nel tempo
e nello spazio. Se noi avessimo presente davanti al nostro
sguardo tutto il tempo e tutto lo spazio, allora potremmo veramente
vedere in essi la razionalità del reale. Ma poiché
a noi si presenta un solo momento e non si presentano tutti
gli altri che sono preceduti o che seguiranno, noi non possiamo
vedere, nella sua totalità, la storia di ciò che diviene,
non possiamo cioè disegnare una storia razionale delle
vicende dell’anima per la stessa ragione per cui non possiamo
comprendere l’essenza particolare di ogni individuo:
omne individuum ineffabile. Da questo punto di vista l’uso
del mito diventa filosoficamente necessario, come, per le
stesse ragioni, vedremo che sarà necessario nel Politico e
nel Timeo.
i) R OBIN: Op. cit. P. CXLVII, P. XXXV e segg.
P ACI
5
Realtà empirica e realtà formale. — Ciò che sopra si
è detto può spiegare la ragione per cui, quando si deve conoscere
la realtà di un oggetto empirico, la logica sembra
perdere il suo assoluto valore filosofico per diventare una
semplice forma. Per la stessa ragione per cui è impossibile
una razionale storia delle vicende dell’anima, noi sappiamo
che è impossibile anche una reale spiegazione logica di un
oggetto particolare. Come, insomma, non si può cogliere
l’individualità delle anime, così è impossibile conoscere
l’idea nel suo essere particolare di fronte a cui la conoscenza
assume perciò necessariamente un carattere formale. Si noti
bene però che questo formalismo non vuol affatto significare
che la conoscenza della realtà empirica ed il metodo diabetico
che la rende possibile non abbiano un contenuto di idee.
Un oggetto si potrà, in conclusione, spiegare per mezzo
delle sue relazioni formali con tutta la realtà. Conseguentemente
un dato empirico qualsiasi si dovrà prima porre in
relazione con una visione generale filosofica e, quando è
necessario, attraverso un mito, e poi per mezzo della relazione
generale si riuscirà a scoprire una relazione particolare.
Accade lo stesso quando si tratta di una ricerca di
carattere filosofico; si sale all’idea e poi da questa si discende
a spiegare il molteplice. Ma nella ricerca filosofica era
la razionalità dell’universo che si manifestava nella sua totalità,
nella ricerca empirica è invece la posizione di un momento
del divenire che si deve spiegare e, per la stessa ragione
per cui esiste il divenire, per la stessa ragione per cui
il non essere è una logica conseguenza dell’essere, bisognerà
che la spiegazione di un oggetto empirico venga data solo
formalmente.
Abbiamo cercato in questo modo di renderci conto dell’intima
connessione con cui le due dialettiche, la filosofica
e la diairetica, si congiungono nel Fedro. Dalla logica reale
nasce quella che noi chiameremmo una logica formale. Ambedue
si muovono con i due procedimenti ascendente e discendente,
ma si distinguono in quanto una mira alla spie
gazione della razionalità del reale e l’altra alla spiegazione
della realtà di un dato empirico. Nello stesso tempo però
le due logiche si riuniscono perchè, quando quello stesso
pensiero che ha conosciuto la razionalità dell’universo si avvicinerà
ad un dato empirico, di esso dovrà necessariamente
conoscere solo il suo carattere positivo, ideale o filosofico, e
cioè dovrà conoscerlo solo formalmente.
CAPITOLO III.
LA REPUBBLICA
LO STATO IDEALE.
Il problema dell’essere. — L’importanza della Repubblica
non è solo di carattere politico; il pensiero di Platone,
come ogni pensiero umano, si avvicina alla realtà,
tanto più quanto più chiarisce sè stesso. Nella Repubblica
dpvremmo quindi trovare, espresse con la massima chiarezza,
le linee fondamentali della filosofia platonica. Gli
studiosi hanno spesso visto in quest’opera la conclusione
di un periodo del pensiero di Platone e l’inizio di un altro,
non sempre, a parte quei richiami con gli altri dialoghi
che si impongono da sè medesimi, si è cercato di vedere
nella Repubblica il centro ideale dell’opera platonica. Le
divisioni di vari periodi del pensiero platonico non rientrano,
come abbiamo detto, nel nostro metodo di studio;
in quanto alla politica a noi interessa solamente porre in
rilievo il significato filosofico delle posizioni platoniche in
rapporto allo Stato. Quest’ultimo dovrebbe far parte del
mondo del divenire, ora noi sappiamo che per Platone è impossibile
arrivare a conoscere completamente in quale modo
si formi e si muova ciò che è diveniente, in quale modo si
rispecchi nella natura e nella psicologia la razionalità del
reale su cui tutto si regola ed a cui tutto si adegua. Qui
nella Repubblica troviamo invece un’organizzazione sociale
idealizzata, una parte del divenire che diventa idea e che
viene conosciuta e studiata come tale.
Lo Stato è in fondo un’idea, l’idea della giustizia in
quanto organizzazione di una società. Lo Stato è un modello
ideale che deve servir di guida agli uomini di questo mondo.
Se in questo esso esista o non esista non ha alcun valore
(473 A B, 592 B). Siamo dunque di fronte ad una visione
specialissima e di fronte ad uno studio ricco di relazioni e
di complicazioni. La molteplicità organizzata viene a formare
un’idea, questa si presenta così non come un’unità
ma come un complesso molteplice che ha però valore ideale.
Il molteplice perde d’altra parte il suo predicato di esistenzialità
empirica, nessuno ci assicura sull’esistenza dello Stato
platonico. A che cosa mira questa idealizzazione del molteplice?
Che significato ha questa fusione tra idea e realtà
empirica? Evidentemente l’idea non viene qui considerata
nella sua posizione trascendente come nel Menone ed in
parte nel Fedone. Qui essa è conoscibile, e, sopratutto, è
molteplice ed esiste idealmente come motleplicità. C’è dunque
un’esistenza dell’idea come molteplicità e questa conclusione
riconferma le conclusioni dello stesso genere a cui
hanno condotto già altri dialoghi. Me l’esistenza di una molteplicità
ideale si trova nella Repubblica in una posizione
particolare. Essa è pensata come realizzabile nella molteplicità
empirica, anzi è attraverso all’esame di questa che si
sale all’idea dello Stato. Quale maggiore dimostrazione che
il mondo del divenire si può organizzare secondo un’idea?
Noi sappiamo però che il divenire porta nel suo, seno
un vuoto incolmabile: il divenire è pieno di negatività e si
muove nel nulla. Per idealizzarlo completamente bisognerebbe,
come abbiamo visto nel Fedro, tener presenti del
divenire tutti gli elementi, tutto il suo svolgimento nel tempo
e cioè, infine, tutto il suo essere. Questo è impossibile
per i campi di cui si occupano il Fedro ed il Timeo; lo sarà
altrettanto per la politica? Per la politica, almeno dal punto
di vista in cui ora ci si pone, sembra di no. Uno Stato
ideale è possibile e, si noti bene, non si assicurerà tanto
che è possibile realizzarlo, quanto si dimostrerà che è possibile
pensarlo. Ecco ciò che a Platone interessa. Necessariamente
per questa indagine tutti gli elementi del divenire
politico dovranno essere presenti. Sarà infatti possibile
disegnare una storia della genesi dello Stato (369 B,
376 D), proprio in quanto sarà possibile conoscere tutti gli
elementi empirici che lo hanno costituito. Sarà possibile anche
fissare le linee di una educazione perfetta (376 E, 412 B),
fissare una psicologia dell’individuo e ritrovare in esso
tre potenze fondamentali come sarà possibile distinguere
nello Stato tre classi, nella armonizzazione delle distinzioni
psicologiche e delle classi si farà consistere la giustizia. Questa
viene vista come dominante su ogni particolare e ogni
~paì”ticoiarè~tróva—ia^ulO’àgiorie-d’essere in quanto ha una
sua propria funzione (397 E). La giustizia consiste nel fare
il proprio lavoro (433 B). Ognuno di noi è giusto se ciascuna
sua facoltà fa ciò che le spetta (441 E, 586 E, 587 A B).
La giustizia, l’idea, che in altri casi sarebbe vista come unità
assolutamente trascendente il mondo diventa qui armonia
di molteplici organizzati razionalmente. La prudenza consiste
nel dominio della facoltà razionale dell’uomo e per
mezzo di questo predominio si realizza la massima armonia
(442 D). C’è qui l’affermazione che poi ritroveremo nel
Filebo (Fil. 65 A e segg.), secondo cui il bene è bellezza,
simmetria e verità. Il lettore di Platone che ha presente tutte
le opere del filosofo pensa spontaneamente al Filebo quando
Socrate dice che non parlerà per ora del bene ma solo di
qualcosa che gli rassomiglia (506 E), e trova quindi già
nella Repubblica le suggestioni di quel dialogo.
Tutto il molteplice viene dunque visto nella Repubblica
come organizzato, . meglio, si dimostra che esso è
pensabile come organizzato secondo l’idea. Il non essere
insito nella molteplicità scompare: questa si idealizza, diventa
essere. Troviamo nella Repubblica in tutta la sua
— 7i —
grandiosità la posizione di pensiero che idealizza il mondo
ed avvicina alla realtà la perfezione ideale. Secondo noi qui
c’è una applicazione del concetto di creazione quale è stato
visto nel Simposio, una creazione nel senso più puro e cioè
la creazione della pensabilità di uno Stato perfetto. In questa
creazione tutto il molteplice si positivizza in massimo
grado, come d’altra parte il mondo ideale si immanentizza,
fino a presentarsi come coincidente col divenire. La realtà
politica è il piano su cui idealità e realtà si fondono, essa
ci dà la possibilità di realizzare nel mondo la positività delle
idee, come ci dà la possibilità di conoscerle, di educare
noi stessi e gli altri od occupare degnamente quel posto
che ci è assegnato dalla razionalità del reale, permettendoci
così di seguire, in tutto il suo profondo significato, l’insegnamento
dell’oracolo di Apollo.
È nella Repubblica dunque che il pensiero platonico
trova la sua massima espressione, come è nella politica che
Platone trovava il suo interesse fondamentale. Nella Repubblica
solamente il mondo delle idee diventa il mondo
della realtà: nello Stato ideale platonico domina il famoso
principio hegeliano che anche ad Hegel si era chiarito
proprio nella « Filosofia del diritto » : ciò che è razionale è
reale, ciò che è reale è razionale. È comprensibile che in
questo dialogo si parli con tanta ampiezza della dialettica
e della teoria delle idee: è qui che il pensiero platonico raggiunge
il suo scopo, che le posizioni parziali si riconfermano
in una visione generale, è qui che il problema dell’essere si
rivela in tutta la sua ricchezza e che Platone chiarisce di
fronte ad esso le posizioni fondamentali del suo pensiero.
Se la razionalità del reale è vera bisogna dimostrare
che è pensabile uno Stato perfetto. Se la razionalità è veramente
razionalità essa deve poter organizzare idealmente
una molteplicità quando tutti gli elementi di questa sono
presenti. Poiché questo è possibile solo per la realtà politica,
la pensabilità di uno Stato ideale sarà il fondamento e la
prova della stessa razionalità dell’universo. Perciò sarà nella
Repubblica che noi troveremo nella loro pienezza e nella
loro totalità le ipotesi del Parmenide che riguardano l’essere
come idea e come mondo. Nella Repubblica, non perchè
qui per ragioni esteriori Platone ce ne parla, ma perchè l’oggetto
della Repubblica lo permette e lo esige, come invece
gli altri dialoghi rivelavano della realtà solo quegli aspetti
e quelle posizioni che si riflettevano negli oggetti da essi
trattati.
Il problema del non essere. — Abbiamo detto che nella
Repubblica di Platone domina il principio hegeliano della
razionalità del reale. Ma noi sappiamo che il divenire per
Platone è il non essere e che solo lo Stato ideale permette
il riavvicinamento con Hegel, come solo la realtà politica
permette la coincidenza del mondo con la realtà ideale. In
-Hegel-troviamo-uno^tato^ealeT^toiicamerite-determinato,
nel quale si realizza l’idea del diritto: per Platone nessun
governo della sua epoca è avvicinabile, anche da lontano,
allo Stato filosofico (499 B). Hegel ci può dare una filosofia
della natura, Platone non parla della natura che attraverso
il mito. Ora potremo noi dividere completamente la realtà
sociale dal mondo della natura? Potrà la filosofia del diritto
fondarsi indipendentemente dalla filosofia della natura?
In Platone la possibilità di quest’indipendenza ci garantisce,
in un primo tempo, la realtà di uno Stato ideale,
cioè la presenza di una realtà empirica afferrabile nella sua
totalità come essere. Se infatti lo Stato viene pensato in
relazione col mondo della natura esso allora non si può
più pensare come ideale. Non sarà più perfetto, non sarà
più un’idea, non sarà più molteplicità organizzata, ma
molteplicità disorganizzata, divenire illimitato, non essere.
Esso sarà male, non bene.
Ed ecco che il problema del male si fa avanti nell’VIII
libro della Repubblica: si parla della corruzione dello Stato
e dell’individuo ed il problema dell’ingiustizia viene posto
in relazione con un mito nel quale si sintetizzano le rela
zioni tra politica e cosmologia (546 A B), mito che viene
sviluppato, in tutta la sua importanza, nel Politico dove
occuperà la maggior parte del dialogo. In certi periodi
c’è sulla terra sterilità d’anime e di corpi, tutto l’universo
è in un movimento negativo ed allora lo Stato ideale si
dissolve. Il mito spiega naturalmente quello che può spiegare
un mito. Il non essere, il male, appunto perchè tali,
non si possono spiegare razionalmente perchè non rientrano
nello svolgimento di una fenomenologia: la filosofia potrà
giustificare la loro esistenza e la loro necessità di fronte
all’essere ed al bene ma non scoprire la loro interna razionalità
perchè in essi questa razionalità non esiste.
Concludendo molteplicità e unità, essere e non essere,
possono nel loro incontro creare la realtà del mondo ma
possono anche negare questa realtà e distruggerla. L’idea
può ritornare trascendente, perfetta, immobile, al di là
della stessa esistenza, ed il mondo può di conseguenza ricadere
nella molteplicità caotica, nel nulla, come nel Fedro
l’anima può ricadere anche dopo aver raggiunto la sua più
alta esistenza. Tutto ciò è possibile e noi vedremo come queste
posizioni verranno affermate nelle ipotesi del Parmenide
riguardanti il non essere. Questo non potrà spiegarsi
che come tale, come posizione negativa, disorganizzazione,
opposizione al bene. E quando sarà necessario parlarne
come di qualcosa di organizzato, come di qualcosa di ideale,
allora si ricorrerà al mito il cui uso verrà quindi anche qui
ad assumere un valore profondamente filosofico. Nella natura,
in cui tutto l’essere e tutto il non essere dovrebbero essere
presenti, cristallizzati nel divenire fisico, nella storia
del cosmos, il non essere, se noi ce ne dessimo ragione come
dell’essere, assumerebbe un valore positivo. Per questo la
storia del cosmos noi non la conosciamo, nè dobbiamo conoscerla:
vedremo come nel Timeo si svilupperanno al
massimo queste posizioni e come, anche là, solo il mito
riuscirà ad esprimerne il senso positivo. Solo il mito può
illuminarci se noi, attraverso il suo mistero, sapremo intra
vedere da lontano la sapienza divina. Divina, perchè se un
Dio così concepito esistesse e se fosse ad esso presente tutto
il divenire cosmico, come al filosofo la realtà politica, questo
Dio potrebbe spiegarsi il non essere ed il male in una
visione razionale. Ma spiegare il non essere vuol dire conoscerlo
e giustificarlo: potrebbe un Dio considerare come
bene il male? Certo a Lui il mondo si presenterebbe come
perfezione assoluta. Forse, come Lessing, il filosofo preferisce
il male, l’ignoranza e l’imperfezione, ma anche perciò,
l’amore, la creazione e la vita.
DIALETTICA E RE ALTA.
Il problema dell’essere. – Il metodo ascendente. — Rappresentando
dunque la Repubblica il punto di vista centrale
del platonismo e la fusione tra la visione filosofica e
la realtà empirica si doveva necessariamente in quest’opera
trattare, con ampiezza e con larghezza, in una veduta d’insieme,
il problema della razionalità del reale che negli altri
dialoghi si era presentato più in profondità che in larghezza
e collegato a dei problemi particolari, ma mai visto in una
visione generale. L’organizzazione ideale di un complesso
così vasto come la società riporta in questione tutti i problemi,
ma ciò di cui ora si sente il bisogno è un collegamento
delle varie posizioni ed una superiore giustificazione
di esse. Così non si potrà parlare, nella Repubblica, solo
di quell’aspetto del mondo ideale che rende possibile l’avvicinarsi
dell’idea al mondo sensibile, ma si dovrà anche
parlare della trascendenza delle idee, come del molteplice
nella sua posizione più lontana dal mondo ideale. Già nella
struttura generale dell’opera e nello spirito che la informa
si può notare che Platone non tende a sopprimere il molteplice,
ma ad assegnargli un posto di fronte all’idea senza
negarlo come molteplice. Il filosofo cerca di trasformare
il mondo delle apparenze in un mondo reale; la realtà di
questo mondo di ombre sarà la sua relazione stessa con
l’idea, il riconoscimento che queste ombre non sono reali,
ma appunto ombre di qualcosa che le supera e che nello
stesso tempo permette la loro esistenza e la loro cono
scibilità.
Platone si troverà necessariamente di fronte alla negatività
del mondo sensibile, di quel mondo che è l’oggetto
di conoscenza della doxa. Qui nella Repubblica è la
realtà politica che viene combattuta in quanto fondata sulla
doxa o in quanto disorganizzata a causa della negatività
dei molteplici e cioè, in questo caso, a causa dell’ingiustizia.
Il dialogo comincia proprio con la presentazione del non
essere insito nel mondo delle opinioni: il rappresentante
deciso e cosciente di questo mondo è Trasimaco (336 B,
354 C). Il primo libro della Repubblica presenta nel campo
politico la sintesi di tutte quelle posizioni a cui Platone si è
sempre opposto in tutti i dialoghi: è l’opposizione al dogmatismo
che qui si vuol far notare in tutta la sua necessità ed
è insieme, diremo col Natorp, la funzione critica dell’idealismo
platonico che si vuol porre sopra tutto in evidenza.
Ai filodoxi si dovranno contrapporre i filosofi. Solo quando
questi saranno al potere finiranno i mali per lo Stato e
per il genere umano (473 D, Lett. VII, 326 B). Allora si
insisterà sul fatto che, benché le idee possono apparire
molteplici, si deve guardare alla loro unità (476 A), la necessità
del chorismos verrà nello stesso tempo riaffermata
in tutta la sua crudezza (476 B). Sarà necessario guardare
all’unità quando le idee vengono considerate molteplicità
tra la molteplicità, quando si confonde il bene in sè con
gli esseri che ne partecipano (476 B). Questa confusione è
possibile in quanto la conoscenza resta doxa, bisogna invece
vedere i singoli concetti in sè, nella loro costanza e
nella loro uniformità (479 E, 484 B, 485 E, 493 E, 494 A).
È sul metodo ascendente della dialettica filosofica che
qui si insiste. Dalla molteplicità conosciuta dogmaticamente
bisogna salire ad una molteplicità ideale (507 B), all’idea
di ogni singolo. D’altra parte come si può giustificare questa
molteplicità ideale se non con un’unità? Quest’unità
massima e quest’ultimo grado della dialettica sarà la conoscenza
dell’idea del bene (505 A). La dialettica deve quindi
condurre alla visione di quest’unità, alla noesis dell’uno, arrivare
per mezzo d’ipotesi ad una realtà superipotetica
(510 B). Per quest’ascesa la matematica ha un grandissimo
valore educativo, proprio in quanto il suo studio abitua
l’anima a valersi dell’intelligenza per la verità, a trovare
l’uno in ciò che è molteplice (511 A B , 522 C, 526 C) ed è
per questa ascesa che si delinea una scala delle scienze.
L’educazione del filosofo sarà dunque tutta indirizzata in
questo senso perchè solo la conoscenza dell’idea del bene
può permettere di ben governare (505 A B , 517 C,
519 C). In questo modo Trasimaco è vinto ed in questo
modo la funzione critica dell’idealismo platonico si riconferma
come ascesa all’ultimo bene. Noi riconosceremmo nel
metodo dialettico di cui qui si è parlato il metodo usato in
tutti i dialoghi anche se Platone non ce lo facesse esplicitamente
notare (534 D) asserendo che all’idea si deve arri
vare mediante l’abilità del domandare e del rispondere.
Il valore ontologico del metodo ascendente. — Il metodo
ascendente, di cui qui nella Repubblica si parla, è applicato,
come si è detto, a un problema di carattere generale
che riguarda tutta la visione filosofica di Platone e chiarisce,
proprio per questo suo totale spiegamento, il metodo
usato in tutti i dialoghi platonici. Ma in questi ultimi abbiamo
visto come il metodo filosofico è in stretta relazione
con il problema trattato; necessariamente, in essi, l’ascesa
al mondo ideale non verrà compiuta in tutti i suoi gradi ed
in tutta la sua totalità come nella Repubblica. Nello stesso
modo gli altri dialoghi non ci daranno quella visione d’insieme
che ci dà la Repubblica ma illumineranno piuttosto
questo o quell’aspetto dell’idea, questa o quella sua posizione
logica. Una volta giunti ad un principio non ipote
tico, per il fatto stesso che vi si è giunti, tutte le ipotesi
verranno ad assumere un certo valore: così attraverso
l’ascesa all’idea in ogni dialogo platonico si scopre, in un
determinato campo, un aspetto del mondo ideale garantito
proprio dal metodo usato, in quanto Socrate non perde
mai di vista l’idea del bene. Ora nella Repubblica il metodo
è usato per un problema che racchiude i problemi particolari
e quindi l’uso di esso spiega anche i metodi particolari.
Se ogni dialogo ci dà in profondità un aspetto della
razionalità del reale non ci dovrà allora la Repubblica dare
la conoscenza totale di questa razionalità? L’ascesa all’idea
del bene, passando attraverso i minori gradi di conoscenza,
non ci darà insieme alla valutazione conoscitiva di questi,
la descrizione filosofica della loro posizione gerarchica? In
quanto l’idea del bene viene effettivamente raggiunta, ogni
grado di conoscenza acquista il suo valore, proprio perchè
vengono limitate le sue possibilità conoscitive. A questo
punto si potrebbero presentare al lettore le stesse domande
che si trovano nel testo della Repubblica (505 E e segg.).
Che cosa è il bene? È la conoscenza del bene?
L’idea del bene non ha per Platone solo un valore conoscitivo
. meglio solo un valore in quanto è oggetto di conoscenza,
ma, come tutte le idee, ha anche un valore ontologico
assoluto. Come la vista non è il sole così la conoscenza
non è l’idea (508 B). Ma se il sole non è la vista è però
la causa di essa e da essa è veduto: in questo modo si può
dire che ciò che è il sole del mondo visibile è, nel mondo
intelligibile, l’idea del bene (508 C). Essa è la causa della conoscenza,
della verità e dell’esistenza. Il sole non dà solamente
alle cose la possibilità di essere vedute ma anche la genesi,
l’incremento e il nutrimento, senza però che esso sia la
genesi (509 B); l’idea dà l’esistenza al reale ma a questo reale
resta superiore. Ora quanto si è giunti all’idea del bene,
e si è giunti per mezzo di un metodo conoscitivo che ad
essa guardava come a sua guida, questo metodo conoscitivo,
dato il valore ontologico dell’idea, avrà percorso dei
gradi di conoscenza a cui rispondevano dei gradi di esistenza:
in questo modo la gerarchia di conoscenze che ha
condotto all’idea del bene si presenterà anche come una
gerarchia di carattere ontologico. È forse bene qui notare
che, contrariamente a ciò che spesso si è creduto, il carattere
idealistico del pensiero platonico si rivela proprio
quando si insiste sul valore ontologico delle idee: noteremo
in seguito, a proposito del Sofista come, contrariamente alle
tesi neo-kantiane, una dottrina delle idee o delle essenze,
non sia contradditoria rispetto al porsi di una legge trascendentale
ma ne inveri invece la reale dinamicità teoretica.
A chi dubitasse di quanto è stato affermalo Piatone
rivolgerebbe la domanda che si trova nel passo 476 E :
« chi conosce, conosce qualcosa o nulla? » Necessariamente
attraverso la dialettica ascendente si doveva scoprire quell’aspetto
della razionalità del reale che corrispondeva a
quel dato problema e cioè quel dato valore ontologico che
corrispondeva a quel dato valore dialettico. Risulta già da
ciò che la doxa, in quanto grado di conoscenza di cui si conoscono
i limiti, viene giustificata e riconosciuta da quello
stesso metodo dialettico che l’ha condannata come insufficiente
a condurre all’idea del bene, allo stesso modo che vengono
giustificati anche gli altri gradi di conoscenza. La doxa
viene condannata solo in quanto sorpassa i suoi limiti e non
viene posta in relazione con gli altri gradi di conoscenza.
Bisogna cioè vedere i molti nella loro relazione con l’unità
(479 E, – 484 B). La doxa si potrà giustificare solo quando
si sarà giunti all’unità somma, all’idea del bene. Qual’è
ora nella Repubblica la realtà ontologica corrispondente alla
graduazione delle conoscenze? Queste vengono descritte
nello stesso tempo di quella nei passi 509 E e segg. Platone
fa due grandi divisioni, usando per chiarezza un esempio
geometrico, cioè disegnando le divisioni su una retta :
A B O C D
doxa episteme
eikasia pistis dianoia episteme
(in s. stretto)
A B immagini,
B O esseri reali.
O C esseri reali come intelligibili,
C D idee.
Si divide la retta prima in due parti che rappresentano,
rispettivamente, il mondo del visibile oggetto della doxa
ed il mondo dell’intelligibile oggetto dell’episteme. Il primo
si divide in mondo delle immagini e mondo degli esseri
reali, in quanto intelligibili, cioè le idee in quanto molteplicità
in rapporto con la realtà sensibile, e le idee in quanto
divise da questa realtà sensibile (510 B C). Rispettivamente
i gradi di conoscenza sono: immaginazione, credenza, dianoia
e intelligenza. Noi sappiamo inoltre che dalle idee si
sale poi all’idea che è origine di tutto e cioè all’unità. Platone
stabilisce sulla retta dei rapporti di carattere geometrico
che chiariscono i rapporti di carattere logico e cioè
(I) AB : BC = OC : CD e quindi (II) BO = OC. Tradotto
in termini logici ciò significa (I) : che gli esseri reali
come intelliggibili sono le immagini delle idee allo stesso
modo che (II) le mmagini della fantasia sono le immagini
della realtà concreta. C’è dunque lo stesso rapporto tra
molteplicità intelligibile e le idee e tra fantasia e realtà.
Tenendo conto di quanto si è detto noi sappiamo:
1) che esiste un’unità, cioè che esiste l’idea del bene;
2) che esiste una molteplicità come oggetto della
fantasia;
3) che esiste una molteplicità reale;
4) che esiste una molteplicità reale come intelligibile;
5) che esiste una molteplicità delle idee.
Se noi pensiamo ora al significato della Repubblica
che si è cercato di mettere in chiaro a proposito dello Stato
ideale, quando si trattò del problema dell’essere, vediamo
subito che per Platone il problema principale consiste nella
necessità di unificare le proposizioni (2) e (3) con le ultime
due e cioè il mondo molteplice del reale con quello ideale
in quanto molteplice. Come questa unificazione è avvenuta
nello Stato con le divisioni delle classi e nell’individuo con
le divisioni della facoltà dell’anima in modo che ogni facoltà
ed ogni classe avesse la sua funzione, così nel mondo
dell’essere si è verificata una distinzione delle varie conoscenze
e dei vari oggetti a cui queste si riferivano, resi
possibili questi e quelle dalia superiore e trascendente idea
del bene dominante in tutti i problemi ed in tutta l’opera
di Platone.
Il problema del non essere -Il problema del metodo
discendente e la creazione. — La dialettica filosofica ci con
duce dunque fino ad un principio incondizionato che giu
stifica i gradi di conoscenza per mezzo dei quali si è arrivati
fino ad esso. Questo movimento si è chiamato metodo
ascendente della dialettica. Ma quando ha raggiunto l’ultimo
suo gradino il pensiero ridiscende tenendosi fermo alle con
seguenze che dal principio raggiunto derivano e ritornando
quindi a giustificare, in questa sua discesa, le premesse da
cui era passato e per mezzo delle quali era giunto all’unità.
Gli uomini imprigionati nella caverna credono che le
ombre proiettate sul fondo di essa siano verità (515 C) ma
se vedessero la luce del sole non potrebbero sostenere la
sua forza ed il suo fulgore (516 A). Il filosofo che a poco a
poco a quella luce riesce ad abituarsi, si accorge, guar
dando in essa, cioè, fuori della similitudine, discendendo
logicamente da essa, che produce tutto il visibile ed è la
causa anche delle ombre (516 B C). Compiuta però questa
discesa ideale il filosofo si accorge che quelle ombre sono
ombre, riconosce i loro limiti ed il loro misero valore reale,
— 8i —
perciò non vuol tornare nella caverna perchè sa che là troverebbe
le tenebre (516 C D E). Ma Platone afferma che
è dovere dei filosofi di ritornare nel luogo da cui sono saliti
(519 D) : essi devono abituarsi a fissare le oscure immagini
che una volta credettero realtà, devono ritornare
nel mondo del molteplice e della doxa e ritornarci per organizzarlo,
per idealizzarlo, per avvicinarlo al mondo delle
idee. Come si potrà compiere questa idealizzazione? Riportiamoci
ai cinque aspetti della realtà che sono stati messi
in luce dalla Repubblica. Il primo è il momento in cui
l’idea si pone come assoluta unità superiore alla stessa esistenza.
Si ricorderà come nel Fedone e nel Menone, oltre
che nella Repubblica, è stata rigorosamente affermata questa
posizione che noi ritroveremo nella prima ipotesi del
Parmenide. Nello stesso tempo sappiamo che questa posizione
dell’idea non è l’unica e che un secondo aspetto della
realtà afferma che le idee sono molteplici, che esiste cioè
una molteplicità ideale, come riconfermerà la seconda ipotesi
del Parmenide. Ora il metodo ascendente ci ha fatto
salire fino alla prima posizione ma come si potrà da essa discendere?
Necessariamente dovremo per passare dalla prima
alla seconda affermazione negare l’idea come unità ed
affermarla come molteplicità. La discesa da una posizione
all’altra sarà perciò possibile solo per mezzo di una negazione.
Si potrà dunque dire dell’idea come unità è in quanto
tale, ma che non è, in quanto è molteplice. Nel capitolo
dedicato al Simposio noi abbiamo derivato da queste premesse
il concetto di creazione che ritroveremo nella terza
ipotesi del Parmenide. Ricordandoci delle conclusioni là
raggiunte possiamo ora notare che ripassando col metodo
discendente dalla prima alla seconda posizione della Repubblica
(posizione che nello schema soprascritto è la quinta),
dobbiamo renderci conto che il passaggio è reso possibile
solo dal concetto del non essere.
Nello stesso modo è possibile passare dal mondo degli
oggetti reali (quarta ipotesi del Parmenide, terza posizione
della Repubblica) al mondo delle ombre (la seconda posizione
della Repubblica corrispondente alla quinta ipotesi
del Parmenide) solo se si negano gli oggetti in quanto reali
e si affermano in quanto ombre.
D’altra parte c’è nel quadro presentatoci dalla Repubblica
una grande divisione tra visibile e intelligibile, tra mondo
della doxa e mondo dell’episteme. Noi sappiamo dal Fedone
che le relazioni tra molteplicità ideali e molteplicità sensibile
si spiegano con la teoria delle idee opposte e cioè, come
abbiamo concluso, con la teoria del non essere. Il mondo
sensibile può partecipare al mondo ideale solo in quanto
l’unità ideale diventa molteplice, cioè non è unità. Così il
non essere che il metodo discendente richiede per il suo movimento,
fa sì che sia possibile una partecipazione del mondo
della doxa al mondo dell’episteme. Gli esseri reali diverranno
così intelligibili e in questo rapporto con le idee saranno
conosciuti dalla dianoia (quarta posizione della Repubblica).
Diventando intelligibili si potranno identificare
con le idee, come avviene nella Repubblica per lo Stato
ideale. Compiuta la identificazione si dovrà riconoscere che
in quanto l’idea è diventata molteplicità, e cioè si è negata
come unità, è stata possibile l’identificazione tra mondo
ideale e mondo sensibile. Questo si è posto come non essere
di fronte al mondo ideale e perciò, per idealizzarlo, il
mondo ideale si è negato come unità. Conseguentemente
già la quinta posizione, cioè la molteplicità delle idee contiene
in sè tutte le possibilità per spiegare il mondo empirico,
proprio perchè in essa l’unità si nega, l’essere cioè diventa
non essere.
L’identificazione tra la molteplicità reale e la molteplicità
ideale ci appare così da un nuovo punto di vista.
Gli esseri reali diventano intelligibili, abbiamo visto,
in quanto si identificano con le idee. Nella terza posizione
della Repubblica troviamo dunque un mondo che rappresenta
questa identificazione, un mondo che è il risultato
dell’incontro dell’essere col non essere e che ritro
veremo nella terza ipotesi del Parmenide.. Il metodo ascendente
ha dimostrato che l’incontro è stato possibile dal
passaggio del non essere all’essere, dalla salita del molteplice
all’uno, il metodo discendente invece che esso è
possibile per il passaggio dall’essere al non essere. Nella
terza posizione della Repubblica ritroviamo dunque il
concetto di creazione già esaminato nel Simposio. Creazione
qui nella massima bellezza, perchè nella verità, e
quindi creazione di uno Stato perfetto.
La distruzione. — Abbiamo dunque vinto il non essere?
Sarebbe come dire che lo Stato perfetto non solo è
pensabile ma esiste ed è sempre esistito. Noi sappiamo invece
che c’è e ci potrebbe essere la creazione dello Stato
ideale ma che c’è anche la sua distruzione. C’è dunque un
non essere che ci è sfuggito, un non essere che non è solo il
non essere della molteplicità di fronte all’unità, ma è il non
essere della molteplicità di fronte a sè medesima, cioè la
falsità, l’errore, il male. Le ombre le abbiamo considerate
ombre di una realtà, ma esse potevano anche essere false
ed essere semplicemente ombre, e, dovremmo dire, ombre
di ciò che non è, come quelle dei sogni. Potevano essere immaginazion
falsa, perchè non c’è solo la immaginazione vera.
Il mondo della doxa lo abbiamo visto nella sua positività,
in esso però si annidava l’errore.
C’è un non essere ben più profondo di quello da
noi considerato per il mondo reale di fronte al mondo
ideale. È un non essere che è sotto lo stesso mondo reale,
è la falsità di questo, la sua nullità non di fronte all’idea
ma di fronte a sè medesimo, così come si cela nella natura
un male che a noi uomini non è dato spiegare. Per
questo Platone aveva definito il mondo della doxa un
mondo intermedio tra ciò che è e ciò che non è (477 B
e segg.; 478 C D), con questo non essere intendeva la
possibilità insita nella doxa dell’errore e dell’ombra vana
senza realtà. In conseguenza il mondo della doxa non è
solamente un mondo conoscibile, una realtà che può diventare
intelligibile e avvicinarsi all’idea, ma c’è in esso
un non essere che non è riducibile a conoscenza, un sapere
fantastico di ciò che assolutamente è inconoscibile perchè
non è, perchè è falso, e ripetiamoci ancora la domanda già
citata: come si può conoscere ciò che non è? Il mito, in
quanto trasfigurazione fantastica del non essere, ci appare
qui in tutta la sua pericolosa vicinanza con la doxa.
Ma se il molteplice può essere falso e se esso si spiega
solo in quanto partecipa a un mondo ideale, anche nel
mondo ideale si dovrà essere qualcosa che permette l’errore
ed il male. Il non essere riprende qui tulle le sue posizioni.
Infatti il molteplice nel Fedone veniva spiegato, come abbiamo
già ricordato, in quanto partecipava ad idee opposte.
Ora noi possiamo pensare ad idee come il vero ed il
suo opposto, il falso, ed allora vedremo il molteplice nel
suo informe divenire, così come si è visto lo Stato perfetto
muoversi dalla sua perfezione e quindi, necessariamente,
distruggersi. Il divenire è stato visto come organizzabile
dall’essere, nel momento della creazione si saliva infatti all’essere,
così come la creazione era solo possibile nella bellezza,
cioè nella positività. Ma se il divenire restasse divenire?
Se esso non raggiungesse l’istante della creazione? Se
invece di salire alla positività si dirigesse invece verso la negatività,
verso il non essere? Quali sarebbero allora le idee
a cui parteciperebbe se nel momento della creazione partecipa
al mondo ideale in quanto perfetto? Parteciperebbe ad
idee che sono false in quanto sono il contrario di sè medesime,
in quanto sono il brutto, il falso, il male? Ci sarà un
non essere dell’idea del bello, un non essere dell’idea del
vero e un non essere dell’idea del bene. Ci sarà in ogni modo
un non essere delle idee che non dipende solo dalla loro
molteplicità ma anche da una negatività che si produce in
ogni idea in quanto in ogni idea si può far strada l’opposizione
a sè stessa.
Ed è logico che sia così. Una volta identificato il mon
do del reale col mondo ideale, ciò che accade nel primo
dovrà necessariamente accadere anche nel secondo. E se le
idee come non essere si incontrassero con il mondo reale
come negativo, necessariamente, da questo incontro, dovrebbe
risultare il contrario della creazione e cioè la distruzione,
come ci dimostrerà la settima ipotesi del Parmenide.
Ma anche qui dobbiamo notare che ciò che non
è non può incontrarsi, la distruzione non può esistere perchè
rappresenta il nulla, dovremo dunque parlare di qualcosa
di negativo che si trova nel seno della stessa creazione,
negatività che si verifica proprio quando la creazione
non c’è e c’è quindi il suo opposto. Nello stesso modo quel
mondo reale che noi avevamo visto unirsi al mondo ideale
e diventare intelligibile, se ci sarà nel mondo ideale una
negatività, diventerà negativo e inintelligibile, oggetto di
una credenza che è falsità, mondo di fenomeni inorganizzabili.
La stessa unità dovrà conseguentemente negarsi
insieme al resto e negarsi non in quanto diventa molteplicità
ma nel senso che diventa assolutamente non uno. In
conclusione tutto quello che si era già visto come essere ci
appare ora come non essere e precisamente la seconda posizione
sul mondo delle ombre diventa negatività in quanto
le ombre possono essere false, la terza sul mondo reale trasforma
questo mondo in un mondo fenomenico, la quarta
diventa negativa in quanto c’è in ogni reale una negatività
come c’è nelle idee della quinta, la prima in quanto anche
l’unità può negarsi.
Ritroveremo queste posizioni negative nelle ipotesi negative
del Parmenide.
Il problema del Parmenide. — Così noi abbiamo notato
nella Repubblica l’affermazione di cinque posizioni
sull’essere che possono essere viste anche come negative.
Dall’idea dell’unità, come dal sole, hanno origine luci ed
ombre, creazione e distruzione. La dialettica ci ha condotto
col suo metodo ascendente all’unità, col suo metodo di
scendente prima alla creazione e poi al nulla. Ma il metodo
discendente era usato nella Repubblica, solo per quello che
riguardava il ritorno dei filosofi nella caverna. Noi lo abbiamo
applicato a tutta la realtà. Platone stesso userà nel
Parmenide la dialettica discendente in tutta la sua purezza
e, discendendo dall’uno, dedurrà da esso tutta la realtà e
tutto il non essere.
Il problema del Parmenide sarà appunto quello di unificare
tutte le posizioni da noi trovate nella Repubblica, realizzando
così ciò che nella Repubblica si è affermato come
necessario dopo l’ascesa all’unità e cioè l’applicazione, nella
sua interezza filosofica, del metodo discendente. Usando le
idee esso raggiungerà le idee, attraverso le idee e finirà in
idee, deducendo dall’uno, con questo suo movimento, la
razionalità ed il non essere del mondo.
PARTE SECONDA
PARMENIDE
CAPITOLO I.
LA PRIMA PARTE DEL PARMENIDE
Socrate e Zenone. — Zenone ha finito di leggere il suo
studio; Socrate lo prega di rileggere la prima ipotesi del primo
argomento (127 D). La critica di Socrate si compie solo
su questa prima parte dello studio di Zenone, evidentemente
perchè ciò, nell’idea di Socrate, poteva bastare per
criticare tutto il resto. Socrate fa notare a Parmenide che
Zenone, non solo si vuol rendere inseparabile dalla sua
persona e conservare così la sua amicizia, ma vuol anche
rendersi inseparabile dall’opera del maestro (128 A). Per
Socrate Zenone non fa che ripetere le tesi di Parmenide,
tentando di far credere, trattandole da un altro punto di
vista, che esse sono diverse da quelle del maestro. Parmenide
nel suo poema afferma che in tutto è uno e ce ne dà
delle bellissime ed evidenti prove, altrettante ce ne dà Zenone
dimostrandoci l’inesistenza del molteplice (128 B).
Parmenide e Zenone, dice Socrate, parlano ciascuno dal
loro punto di vista, in modo che non sembrano dire nulla
di simile, ma dicendo in realtà proprio la medesima cosa.
Zenone risponde che il suo libro ha proprio voluto difendere,
a suo modo, la dottrina di Parmenide contro coloro
che tentavano di deriderla col notare che se l’uno è, ad una
— go —
tale affermazione dovrebbero seguire una quantità di conseguenze
ridicole e contrarie alla tesi stessa. Così Zenone
ha fatto vedere che se dall’ammissione dell’unità derivano
delle conseguenze assurde e ridicole, non meno ridicole ed
assurde sono le conseguenze che si devono dedurre quando
si ammette una molteplicità (128 D). Lo studio di Zenone
viene così ridotto ad un’importanza puramente polemica ‘).
Bisogna però notare la speciale posizione in cui sono visti
qui il pensiero di Parmenide e quello di Zenone. Ambedue
conducono all’assurdo ed è proprio questo fatto che si
vuol porre in evidenza. Parmenide viene considerato semplicemente
in quanto affermatore dell’unità, Zenone può per
questo negare l’esistenza del molteplice. Se l’unità viene affermata
in tutta la sua purezza, come nella seconda parte
del dialogo farà Parmenide nella sua prima ipotesi, necessariamente
il mondo molteplice sarà pieno di contraddizioni,
come si chiarirà nella quinta ipotesi. Non si dovrà quindi
dire che la posizione di Zenone è errata ma piuttosto che
essa è limitata. Socrate vede nello studio di Zenone l’affermazione
che se gli esseri sono molteplici essi devono essere
anche simili e dissimili, cosa impossibile perchè i simili
non possono essere dissimili e viceversa (127 E). Conseguentemente
è impossibile l’esistenza della molteplicità
perchè, una volta posta, essa non può sfuggire dalle contraddizioni
sopra notate (Cit. 127 E). Perciò Socrate farà
notare a Zenone che deve pur esistere un’idea in sè della
somiglianza e qualcosa di contrario a questa (129 A). Partecipando
il molteplice a queste due idee, in quanto partecipa
alla somiglianza ciò che è simile è simile, in quanto
partecipa al suo contrario, è dissimile. Socrate dunque non
trova niente di strano nel fatto che le cose siano, a causa
di questa doppia partecipazione, simili e dissimili (129 A B).
1) A. DIÈS: Ed. Parmenide. Paris 1923, Pag. 56 (1).
S. WAHL: Etude sur le Parmenide de Platon. Paris, 1926.
Pag. 16 Pagg. 225-26 (10) e (11).
— gì —
Sarebbe del fatto che ciò che è somigliante in sè divenisse
il suo contrario e viceversa che Socrate si meraviglierebbe
moltissimo (Cit. 129 B), e che l’essenza dell’uno fosse
molteplice e il molteplice, a sua volta, uno (129 C). Che ci
sia una molteplicità nel mondo del divenire sembra a Socrate
la cosa più naturale (129 D). Una volta separate le
idee dal mondo molteplice, quello che è proprio del mondo
della molteplicità, non è più necessario che sia tale anche
nel mondo ideale.
Socrate combatte Zenone e Parmenide in nome del
chorismos. Il Parmenide che vede Socrate attraverso Zenone
è dunque un Parmenide ben diverso da quello pensato
da Platone, cioè dal Parmenide della seconda parte
del dialogo. Là esso non si limiterà ad affermare l’esistenza
dell’uno ed a negare l’esistenza dei molteplici. D’altra
parte Socrate limita la posizione di Zenone per mezzo
della teoria del chorismos. Zenone parla di una molteplicità
in generale senza distinguere tra molteplicità empirica e
molteplicità ideale: era implicito nel suo studio che essendoci
l’una ci fosse anche l’altra e che, essendo impossibile
l’una, fosse impossibile anche l’altra. Questo non sembra
chiaro a Socrate che non potrebbe concepire un fatto di
questo genere. Ci appare qui il primo punto di contatto
tra la prima e la seconda parte del dialogo. Nella seconda
parte, e precisamente nella seconda ipotesi, verrà dimostrato
che esiste una molteplicità ideale: dunque, in un
certo senso, Zenone aveva ragione quando identificava le
due molteplicità. C’è perciò implicitamente nello studio di
Zenone quello che verrà poi distinto da Parmenide nella
seconda parte del dialogo. Non c’è solo il chorismos tra
unità e molteplicità, per cui la molteplicità appare assurda,
ma c’è anche il riconoscimento di una molteplicità del
mondo ideale e cioè precisamente quello che Socrate chiedeva
a Zenone ponendo il chorismos tra idee e molteplicità
empirica. D’altra parte Zenone ha veramente ragione
quando identifica senz’altro la molteplicità empirica e la
molteplicità ideale? Se questo sarà possibile lo sarà solo in
particolari condizioni, come si è visto nel Simposio e nella
Repubblica, e come si vedrà nella terza ipotesi del Parmenide.
La posizione di Zenone non stabilisce tutte le distinzioni
necessarie e Socrate ha dunque ben ragione nelle sue
critiche che saranno in seguito approvate dallo stesso Parmenide
(Cfr. 135 E). Si può anche pensare che Zenone non
credesse necessaria una trattazione di questo genere, data
la caratteristica polemica del suo studio. Se la posizione di
Zenone è però limitata e giustifica la critica di Socrate, la
interpretazione di Socrate è, da parte sua, parziale (e si ricordi
che Socrate esamina solo il primo punto del discorso
di Zenone), in quanto non ammette una molteplicità ideale
e non comprende che nel discorso di Zenone c’è un esempio,
benché non totalmente esauriente, di quel metodo dialettico
a cui, più tardi, Parmenide esorterà Socrate stesso
(Cfr. 135 D).
Nella seconda parte del dialogo tanto la posizione di
Socrate come quella di Zenone verranno riconosciute legit
time in quanto compenetrate l’una nell’altra. Ci dovranno
dunque essere tre posizioni distinte: l’affermazione del
l’unità assoluta, l’affermazione della molteplicità ideale e
l’affermazione di una molteplicità empirica. Se Zenone am
mettesse una distinzione tra molteplicità ideale e moltepli
cità empirica ne deriverebbe poi anche un’altra conseguen
za e, precisamente, che la molteplicità empirica, se può
non essere, può anche essere, come si vedrà nella quarta
ipotesi della seconda parte del dialogo.
In conclusione già da ora si può vedere la necessità
di affermare le prime cinque ipotesi di Parmenide: la pri
ma, cioè l’affermazione dell’unità, la seconda, cioè la mol
teplicità ideale, la terza, cioè l’unione tra la molteplicità
ideale e molteplicità empirica reale, la quarta, cioè questa
molteplicità empirica come realtà e la quinta, cioè la molte
plicità empirica come assurda, in quanto si afferma di fronte
all’unità assoluta dell’uno. Si scopre così ancor meglio la li
mitazione della visione zenoniana dell’opera di Parmenide, o
meglio del Parmenide di Platone, in quanto, mentre Zenone
affermava l’assurdo della molteplicità, Parmenide dimostre
rà, oltre a ciò, la possibilità di una razionalità del molteplice,
applicando, come vedremo meglio in seguito, lo stesso me
todo di Zenone, ma nella sua interezza ed in tutte le sue pos
sibilità. Sembra anche a noi così come al Wahl ‘) che in
questo senso il dialogo si diriga qui verso l’intelligibilità, in
quanto supera, o meglio invera, la posizione di Zenone.
Gli studiosi hanno di solito considerato la teoria della
partecipazione delle cose sensibili alle idee, che Socrate sostiene
in questa parte del dialogo (129 A), come la stessa
teoria sostenuta nel Fedone e nella Repubblica. Noi abbiamo
visto, studiando quei dialoghi e ponendoli in relazione con
il Simposio, che dal Fedone e dalla Repubblica si deducono
le stesse posizioni che poi si ritrovano nel Parmenide. Crediamo
perciò che il Fedone e la Repubblica non vengano
criticati e respinti dal nostro dialogo, ma che piuttosto vengono
criticati in esso gli interpreti che non pongono le posizioni
di quei dialoghi in relazione colla seconda parte del
Parmenide. La teoria che sostiene qui Socrate è sì quella del
Fedone e della Repubblica, ma vista unilateralmente e non
collegata coli’intera opera platonica. Il Socrate del Parmenide,
nella sua giovinezza, non vede tutte le relazioni e con
l’inveramento delle sue posizioni unilaterali, che si trovano
nella prima parte del dialogo, nelle posizioni di Parmenide
che si trovano nella seconda, si vuol avvertire il lettore a non
identificare il Fedone e la Repubblica con una visione del
mondo delle idee che Socrate poteva avere avuto solo in
una sua lontana giovinezza, e, si noti bene, molto prima
che quei dialoghi si immaginassero avvenuti.
Parmenide e Socrate, — Necessità di idee di tutte le
cose. — Parmenide entra nella discussione quasi come di-
r) WAHL: Op. cit. p. 20.
fensore di Zenone o, meglio, della verità parziale che il discorso
di Zenone conteneva: l’unificazione tra molteplicità
ideale e molteplicità empirica. Socrate divide tra le idee e
ciò che ad esse partecipa (130 B). Egli distingue quindi due
mondi, ma per Socrate non è chiaro se nel mondo ideale ci
siano o no tante idee per quante realtà ci sono nel mondo
empirico. Riconosce che ci sono nelle idee del buono e del
bello (130 B) ma non è sicuro che ci sia un’idea dell’uomo,
del fuoco e dell’acqua (130 C) e non sa ammettere che ci
possano essere idee di cose come i peli, il fango e le macchie.
Parmenide pensa invece che ci siano idee di tutte le
cose e fa notare a Socrate che ò a causa della sua giovinezza
che egli disprezza certi oggetti, non giudicandoli degni
di partecipare ad un’idea (130 E). Il riavvicinamento
compiuto da Zenone è dunque possibile e se Socrate ammettesse
idee di tutte le cose lo dovrebbe ben riconoscere.
Ora che cosa significa ammettere che ci siano idee di tutte
le cose? Prima di tutto che il mondo ideale non rimane
fermo nella sua unità e perfezione, come crede Socrate, ma
si può avvicinare al mondo sensibile e che a sua volta questo
mondo sensibile può liberarsi dalla sua negatività ed
organizzarsi così come abbiamo visto nella Repubblica. Socrate
rimane fermo al suo mondo ideale perfetto senza capire
che se esistono delle idee esisterà anche una molteplicità
ideale e quindi tante idee quante sono necessarie per
comprendere il mondo, come ben dimostrerà Parmenide
nella sua seconda ipotesi. Come nella Repubblica ogni facoltà
dell’anima ed ogni classe sociale avevano la loro funzione,
così nulla della realtà sensibile si dovrà disprezzare,
perchè tutto è organizzabile secondo un’idea e cioè perchè
di ogni cosa ci può essere un’idea. Se c’è un’idea del bello
ci dovrà essere anche un’idea del fango.
Noi dobbiamo però osservare che se l’idea del bello
può essere solo positività, in quanto la bellezza ha un valore
essenzialmente ideale e le cose sono belle solo in quanto
ne partecipano, del fango invece ci può essere un’idea in
quanto l’oggetto fango è intelligibile, ma ci può essere an
che un’opinione falsa, in quanto l’oggetto fango appartiene
al mondo della natura. Anche del bello ci potrebbe essere
una doxa, ma allora si tratterebbe del bello empirico, della
molteplicità delle cose belle. Il non bello è il bello in quanto
non è sè stesso, cioè in quanto è negatività di fronte a sè,
contrario cioè a sè medesimo.
In conclusione ci sono idee di tutte le cose ma ci sono
idee di enti che esistono solo idealmente, in quanto si fon
dono, come vedremo meglio, nell’unità, ed idee di cose
che esistono anche sensibilmente. Ci sono idee di quel mon
do che è oggetto della filosofia ed idee di un mondo che
può essere oggetto della filosofia e della scienza, ma che
può essere anche oggetto della doxa. È questo fatto che
giustifica filosoficamente l’acuta osservazione del Wahl ‘) :
« Socrate non ha ancora abbastanza coraggio per ammet
tere che ci sono idee di tutte le cose, ma non si può dire
d’altra parte che Parmenide non abbia abbastanza corag
gio per ammettere che le cose sono, in un certo senso, quello
che sono, fango se sono fango, bellezza se sono bellezza? »
Rapporti con il problema della diairesis. — Il passo
del Parmenide che stiamo esaminando si riconnette filosoficamente
al problema dei due metodi dialettici, quello filosofico
e quello diairetico. Il metodo filosofico che ha per
oggetto un mondo ideale si occupa di tutta la realtà, ma
solo in quanto è organizzabile razionalmente. Così tutte le
idee lo interessano e tutte le cose in quanto idealizzabili.
Se si occuperà delle cose sensibili in quanto oggetti del
mondo della doxa, lo farà per comprendere in qual modo è
possibile conoscere, cioè determinare, la loro idea. Questa
determinazione e quetsa conoscenza sono la funzione precisa
del metodo diairetico che perciò deve distinguere ciò
che è da ciò che non è, ciò che è idealizzabile da ciò che
i) W AHL: Op. cit., Pag. 26.
rimane opinabile. In questo senso il metodo diairetico farà
in modo che il mondo della doxa diventi vero 1), in quanto
toglierà da esso tutto ciò che non è, e la diairesis diventerà
in questo modo una continuazione della dialettica filosofica
che la rende possibile. Il mondo dei concetti non nega, in
altre parole, la teoria delle idee. Le definizioni che può
dare il metodo diairetico nel Sofista sono tutte empiriche e
non guardano a nessuna realtà filosofica. Platone sottolinea
ciò che stiamo dicendo avvicinando la definizione del
sofista a quella del pescatore di lenza ed infatti le due definizioni
corrono su due linee parallele. (Cfr. Sof. 221 D dove
lo straniero eleate insiste sulla parentela dei due concetti)
giustificando il senso ironico, difficilmente negabile, di tutta
la ricerca. Lo stesso avviene nel Politico quando si fa uso
dell’esempio dell’arte del tessitore( Cfr. Poi. 279 B e segg.),
dove non c’è nessun senso ironico ma dove si vede chiaramente
che con la diairesis si può dare una definizione empirica
del politico avvicinandolo a un oggetto veramente
empirico che serva di guida (Cfr. 279 B e segg.). La politica
è come una tela e, con questo raffronto, è possibile
conoscerla come una cosa empirica (Cfr. 311 C); quando
si dovrà dire qualcosa di carattere filosofico sulla politica,
invece del metodo diairetico, si userà un mito (268 D 274
E) a cui, come abbiamo visto, la Repubblica esplicitamente
rimanda. Così nel Sofista il vero senso della sofistica,
e non la definizione empirica del sofista, sarà dato da
una delle più profonde discussioni filosofiche dei dialoghi
platonici.
Ritornando al passo esaminato, la seconda parte del
Parmenide risolverà il problema di Socrate, e Parmenide
avrà il coraggio di riconoscere che le cose sono quello che
sono, nel senso che, se ammetterà un mondo ideale che
può spiegare ed organizzare tutta la realtà, ammetterà anche,
nella quinta ipotesi, un mondo di cui gli oggetti della
1) S TENZEL: Op. cit.. Pagg. 72-73. Pag. 84.
natura vengono visti nella loro negatività, giustificando così
le esitazioni di Socrate, ma inverandole razionalmente.
Anche questo passo del dialogo rimanda dunque alla seconda
parte.
Le difficoltà della partecipazione. — Parmenide seguita
a combattere la posizione di Socrate. Come faranno, egli
chiede, le cose a partecipare alle idee? Ogni cosa che partecipa
parteciperà all’idea intera oppure ad una parte di
essa? (131 A). Quando l’idea è presente nel molteplice rimane
una o diventa molteplice? Rimanere una in oggetti
che si distinguono non può senza perdere la sua unità
(131 B).
Si ricordi che Socrate non ammette idee di tutte le
cose, e che, non ammettendo idee di tutte le cose, egli non
può vedere in che modo il mondo ideale possa adeguarsi a
tutto il mondo reale. Anche qui bisogna pensare alla se
conda ipotesi di Parmenide e tener conto di quanto si è det
to sopra. Nel mondo ideale c’è una molteplicità e una di
stinzione, quando il mondo delle cose viene a sua volta
considerato non più come oggetto della doxa, ma come
un mondo reale che può diventare intelligibile, allora le
cose in quanto intelligibili si potranno unire con le idee in
quanto molteplici. Tenendo conto della seconda parte del
dialogo potremmo dire che allora si uniranno il mondo
della seconda ipotesi con quello della quarta. Le cose in
quanto cose non potranno mai partecipare alle idee, essere
cioè ideali o idee, in quanto, come cose, esse appartengono
al mondo della doxa e sono perciò irreali. Esse divente
ranno reali quando saranno idee e, si potrebbe anche dire,
che allora le idee avranno un’esistenza reale. Il risultato
della seconda ipotesi di Parmenide sarà che l’uno è rela
tivo e che tutta la realtà è conoscibile. La quarta ipotesi si
fonderà sulla seconda e si domanderà: cosa è il mondo se
l’uno è relativo? E concluderà che il mondo in quanto in
telligibile è reale. Dunque non c’è una partecipazione di
— gavina
cosa a una idea, ma piuttosto il mondo delle idee in
quanto molteplice si identificherà con il mondo reale in
quanto intelligibile, come, del resto, si è già visto negli altri
dialoghi.
Ad un certo momento le idee diventano la realtà del
mondo, come vedremo nella quarta ipotesi. Bisogna ricordare
però che tra la quarta e la seconda c’è la terza ipotesi,
il che equivale a dire che tra l’idealità ed il mondo
c’è la – creazione.
Ritorniamo per questa via al problema lasciato poco
fa. Tutte le idee potranno essere create? Evidentemente
no. Solo quelle realtà che possono essere nello stesso tempo
oggetto della scienza e della doxa potranno essere create,
cioè esistere in questo mondo. Diventeranno create solo le
idee di cose esistenti, le altre rimarranno idee come idee,
cioè superiori al ‘ mondo reale e quindi superesistenti in
quanto raccolte nel seno dell’unità assoluta. In questo caso
la partecipazione tra esse e le cose potrebbe forse avvenire
senza dar luogo alle contraddizioni che Parmenide fa notare
a Socrate, perchè la partecipazione non dovrebbe essere
concepita materialmente come sostiene il Wahl, basandosi
su Proclo e richiamandosi ad Halevy, Milhaud e Taylor
‘). Questa partecipazione sarà però sempre la partecipazione
di una realtà sensibile ad una realtà ideale ed allora
ritorna il problema: come può una realtà ideale partecipare
ad una realtà sensibile senza perdere la sua idealità?
Per quanto si faccia quelle che dovranno partecipare
alle idee saranno sempre cose, a meno che queste non siano
rese intelligibili ed il mondo delle idee non diventi molteplice.
Ma allora le idee diventeranno esistenti e le nostre
idee immateriali scompariranno. Se esse sono immateriali
dovranno rimanere separate dalla realtà sensibile.
La terza ipotesi di Parmenide ci farà vedere che nel
mondo delle idee ci sarà una molteplicità, ma che in essa ri
marra anche una certa unità, cioè l’unità di ciò che è nello
stesso tempo vero, bello e buono. A queste idee il molteplice,
il mondo, parteciperà in un modo specialissimo, in quanto
esse saranno presenti nell’istante della creazione, la quale,
si ricordi il Simposio, può avvenire solo nella bellezza e nella
verità, ma, pur essendo presenti, non diventeranno esistenti.
Se nel momento della creazione dello Stato è presente
l’idea del bene, essa sarà presente come il sole sulle
cose e permetterà la loro conoscibilità e la loro esistenza,
ma l’idea del bene in sè sarà sempre superiore all’esistenza.
Se invece sarà presente nel momento della creazione l’idea
del letto, poiché come si è visto c’è un’idea di tutte le cose,
quest’idea si realizzerà e cioè diventerà esistente nello stesso
modo che il letto corrispondente nella realtà acquisterà
un valore intelligibile. A sua volta un letto sarà bello quando
sarà ben fabbricato, quando cioè realizzerà pienamente
l’aretè del bello, cioè l’essenza del letto, altrimenti non sarebbe
intelligibile come letto, ma sarebbe solo un’idea e non
sarebbe stato creato nella bellezza e nella verità alle quali,
se è veramente perfetto, deve aver partecipato nel momento
della creazione. Perciò Socrate porta in risposta a Parmenide
l’esempio del giorno che illumina le cose senza moltiplicare
e dividere la sua luce. Ma l’esempio può andar bene
per le idee immateriali alle quali le cose partecipano nel
momento della creazione, ma non spiega nulla per le altre
idee e perciò Parmenide oppone a Socrate un esempio in
cui si è forzati ad ammettere l’idea come « materiale », cioè
il raffronto tra l’idea e le cose come un velo che ricopre più
individui (131 B). Noi abbiamo visto però che anche questo
punto della prima parte del dialogo, si spiega, come tutto il
resto, se si pensa alla seconda parte.
L”argomento del terzo uomo. — Socrate pensa che i
molteplici siano grandi in quanto partecipano all’idea di
grandezza. Ma il grande in sè e i molteplici grandi non richiedono
una nuova molteplicità e perciò una nuova idea
IOO
di grande che li unifichi? Ma così facendo si accresce la molteplicità,
proprio perchè sempre più si afferma il bisogno di
un’unità, ed il procedimento continua all’infinito, sempre
più moltiplicando il molteplice e senza mai raggiungere la
unità. (132 A B). È questo l’argomento detto del terzo uomo.
Anche questa difficoltà si spiega quando si pensa che
non si tratterà, come si è visto precedentemente, di un grande
che esiste materialmente e di una cosa grande, ma di un
grande a cui la cosa grande partecipa, nella creazione, come
misura e armonia e che perciò resta immateriale e si unisce,
per quanto in maniera particolare, come si vedrà nella seconda
ipotesi, all’idea di vero e di buono. Il grande rimarrà
nell’unità anche quando ad esso parteciperà una cosa molteplice,
perciò non ci saranno due cose ed una dualità che
esige l’unificazione.
L’idealismo empirico. — Socrate cerca di difendere le
sue posizioni col notare che ci potrebbe essere un’altra possibilità.
Ciascuna idea — egli dice — potrebbe essere un
pensiero e solo in questo trovare la sua esistenza. In questo
modo ogni idea potrebbe conservare la sua unità senza esser
soggetta alle difficoltà di cui sopra si è parlato (132 B). Essendo
solo pensiero, ogni molteplice può ad essa partecipare
senza distruggere l’unità ideale.
Dopo tutto ciò che si è detto studiando la Repubblica
si può notare che il Socrate il quale pensa a delle possibilità
di questo genere è ben indietro, è ben più giovane, diremo
con Parmenide, del Socrate di quel dialogo. La conoscenza
del sole non è l’idea del sole. Il pensiero non è la causa della
realtà. L’idea ha un valore ontologico, un’esistenza che è
indipendente dal fatto di essere o no pensata. Il pensiero,
come dice Parmenide, deve necessariamente pensare qualcosa,
qualcosa che è e che quindi è diverso dal pensiero
stesso (cit. 132 B). Il metodo ascendente della Repubblica
ci rivelava infatti una realtà ontologica. L’idealismo platonico
vuol ben distinguersi da ciò che noi moderni potremmo
forse chiamare un idealismo empirico. Si è già notato a proposito
della Repubblica che il vero carattere idealistico del
pensiero platonico si rivela proprio quando si insiste sul
valore ontologico delle idee. Queste hanno ima loro esistenza
immateriale, sono il pensiero in quanto realtà ontologica,
ma esistono indipendentemente dal pensiero. D’altra
parte, come si vedrà nella seconda ipotesi, esse sono
pensabili. La loro esistenza è possibile in quanto in essa è
presente l’unità, l’idea del bene, il sole, ma nella seconda
ipotesi questa unità si relativizza, diventa molteplice e,
come tale, non più superiore all’esistenza, ma immaterialmente
esistente.
L’esistenza delle idee viene però dedotta da qualche
cosa che all’esistenza è superiore e quindi, ricordando che
si può pensare solo ciò che è, superiore anche al pensiero.
La seconda ipotesi deriva dalla prima così come le
idee ed il mondo derivano dal bene e dal sole. Solo questa
osservazione, che verrà chiarita nella seconda parte del
dialogo, può giustificare e risolvere le difficoltà presentate
nel passo di cui stiamo parlando. Possiamo ora notare
che nella seconda ipotesi la realtà ontologica delle idee coincide
con la loro pensabilità e che, in questo senso, le idee
sono pensiero. Ma non esistono in quanto sono pensate, in
quanto sono creazione del pensiero. Abbiamo visto, nello
stesso tempo, che le idee, dopo il momento della creazione,
quando sono idee di una realtà esistente nel mondo, diventano
reali e coincidono con le cose in quanto intelligibili.
Ma questa realtà non è causata dal pensiero perchè è causata
dal momento in cui l’idea si pone come creatrice. Altrimenti
il mondo reale si ridurrebbe ad un soggettivismo assoluto.
La creazione, a sua volta, avviene solo nella bellezza,
cioè quando in essa è presente l’idea del bene che
dà l’esistenza a tutte le cose come a tutte le idee.
La realtà ontologica delle idee, resa possibile dall’idea
del bene, è dunque assolutamente necessaria, altrimenti
avrebbe ragione Parmenide: se ogni cosa partecipa alle
idee è inevitabile o che tutto sia pensiero e tutto pensi, oppure
che tutto sia pensiero e privo della pensabilità (132 C).
Noi sappiamo invece che le idee sono indipendenti dal pensiero
benché coincidano con esso e siano il pensiero, in
quanto pensabile, e sappiamo che il mondo non esiste in
quanto è pensato ma in quanto è creato, benché, in quanto
intelligibilità, esso coincida col pensiero e sia pensiero. Impensabile
è solo ciò che non è, come è inconoscibile il male
ed è inconcepibile il nulla di cui non c’è esistenza né come
idea, né come realtà empirica, poiché, come afferma il
Sofista e come spiega il Parmenide nella seconda parte,
ciò che non è, è semplicemente l’altro e l’opposto di ciò
che è.
C’è però un altro lato del problema. Tutto penserebbe,
dice Parmenide, se le idee fossero solo pensiero, oppure
tutto sarebbe privo di pensabilità.
Bisogna perciò spiegare che tutto non pensa e che c’è
qualcosa che è solo pensabile, senza essere soggetto di un
pensiero. D’altra parte bisogna anche che ci sia un soggetto
pensante, poiché se tutto fosse solamente oggetto di pensiero,
necessariamente questo tutto sarebbe impensabile,
privo del pensare, inconcepibile : i « noemata » sarebbero
« anoeta » (cfr. cit. 132 C).
Se dunque Parmenide afferma che la realtà non può
essere pensiero, egli afferma però anche la necessità di un
soggetto pensante, il quale non deve essere il tutto perchè
altrimenti non ci sarebbe più la realtà: se il soggetto si
identificasse con l’oggetto, e fosse l’oggetto, che cosa penserebbe?
Bisogna bene che il pensiero pensi qualcosa, cioè
un oggetto, senza con esso identificarsi. Ciò non solo rende
necessario un soggetto pensante ma rende necessario anche
che questo soggetto, e si ripensi a Kant, rimanga identico
mentre variano gli oggetti che sono pensati. Anche quest’esigenza
vedremo che sarà soddisfatta dalla seconda parte
del dialogo.
Come Kant nella seconda edizione della sua « Critica
della ragion pura », anche Platone ha voluto difendersi dalla
possibile accusa di idealismo empirico.
La teoria della mimesis. — Socrate, battuto nuovamente,
presenta a Parmenide un nuovo modo di concepire le
idee e la partecipazione ad esse delle cose. Egli suppone che
le idee esistano come modelli della natura, che le cose ne
siano poi le copie e che la partecipazione delle cose alle
idee consista nella rassomiglianza di queste con quelle (132
D). Ma se un oggetto è l’immagine di un’idea bisogna, obbietta
Parmenide, che quest’idea sia simile alla sua immagine
nella misura in cui questa le rassomiglia. Ora queste
due entità simili bisogna che partecipino ambedue dell’idea
di somiglianza (132 E). Se dunque un oggetto è simile all’idea
ad un oggetto, vedremo spuntare una nuova idea e
così, come si sa, all’infinito (133 A). La partecipazione per
mezzo della somiglianza e l’idea come modello della natura
sono dunque impossibili. Bisogna prima di tutto notare che
qui siamo, in un certo senso, nel mondo della doxa. Non
tutte le idee possono creare delle immagini di sè, sono cioè
imitabili. Le idee che non hanno una realtà corrispondente
in questo mondo, noi sappiamo che sono divise da esso e
che di esse non è possibile nessuna imitazione, non è possibile,
insomma, un’imitazione dell’idea del bene e del bello,
senza corrompere quelle idee. Se questa imitazione è realizzabile,
quelle idee saranno prese in un altro senso; come
esistenti cioè nella realtà fìsica, così l’idea del sole nella Repubblica
viene presa come un simbolo. A queste idee, abbiamo
già visto che la partecipazione delle cose avviene in
modo speciale nel momento della creazione. Per ciò che ri
guarda le idee che possono diventare realtà esistenti in questo
mondo abbiamo già visto in che senso la partecipazione
può avvenire. Ma nei passi citati c’è un altro problema: se
la partecipazione come somiglianza è impossibile, come sarà
possibile la teoria della mimesis tante volte affermata da
Platone? Bisogna bene che ci siano in questo mondo delle
copie delle idee e che quindi la teoria della somiglianza sia,
in qualche modo accettabile.
Si prenda il famoso passo della Repubblica sull’idea del
letto. Il fabbricante di letti non fa l’idea del letto ma un
letto. Ora l’idea del letto è ciò che è il letto. Il fabbricante
farà dunque qualcosa che è simile a ciò che è, ma non è
(cfr. Rep. 597 A). Da questo passo si vede chiaramente che
la somiglianza e l’imitazione non avvengono tra una cosa
che è, che cioè è intelligibile e l’idea, ma, ammesso che
ciò sia possibile, tra una cosa che non è e l’idea. L’imitazione,
dato l’ultimo rapporto, è possibile in quanto è possibile
il non essere di un’idea. Così lo Stato, quando non è
perfetto, è un’imitazione dell’idea di Stato (Rep. 484 D).
In realtà l’imitazione non è una partecipazione, ma la
mancanza di identità tra una cosa e l’idea che colla cosa
coincideva in quanto questa cosa era intelligibile, cioè ideale.
Non essendoci più quest’identità l’idea non sarà più reale
e cioè non sarà. Conseguentemente un letto (e non il letto)
non sarà una cosa intelliggibile ma una cosa del mondo
della doxa, cioè di quel mondo determinato, nella seconda
parte del Parmenide, dalla quinta ipotesi; un mondo che
è, ma che, dall’altro lato, non è. Così si comprende sempre
meglio perchè il metodo diairetico, a cui è affidata la conoscenza
delle cose empiriche, si presenti come una doxa razionalizzata
ed eserciti la sua funzione, come dice Stenzel,
concettualizzando i molteplici ed eliminando via via dalla
ricerca ciò che non è per trovare ciò che è.
Concludendo l’imitazione non si deve concepire come
una partecipazione all’idea per rassomiglianza ma come
un non essere dell’idea. È naturale poi che questo essere,
contrapposto di ciò che è, non possa affermarsi se a sua
volta non c’è l’essere. Così anche l’imitazione, nell’Ione,
è stata presa per prova dell’idea e dell’essere, così il discorso
rettorico nel Fedro ci ha dato il mezzo di trovare il
discorso logico, nello stesso modo la ricerca sul sofista, nel
dialogo omonimo, permetterà di trovare invece il filosofo
(cfr. Sof. 253 C e, per i rapporti tra la sofistica e l’arte mimetica,
principalmente Rep. 596 C, Sof. 233 B e segg.).
Il problema della scienza delle idee e la conoscenza del
mondo. — Parmenide non ha ancora finito le sue critiche,
egli prosegue, dicendo che la teoria di Socrate dà luogo a
difficoltà ancor più gravi di quelle finora considerate.
« Se qualcuno dirà che per l’uomo non è possibile conoscere
le idee, non sarà possibile confutarlo, a meno che
il contestante non sia una persona ricca di una cultura
scientifica eccezionale e disposta a seguire l’asserente per
un dedalo di argomenti » (133 B). Parmenide ammette già
da principio che la confutazione non sia impossibile. Se
— egli continua — si pongono delle idee in sè e per sè, si
ammette nello stesso tempo che nessuna di esse sia in noi.
Le idee, anche se hanno rapporti reciproci tra di loro,
hanno un essere riferibile a loro medesime e non a ciò che
in noi vi corrisponde. D’altra parte le cose che sono in
noi pur avendo gli stessi nomi delle idee, non sono che in
quanto sono in rapporto tra sè medesime, e non in quanto
sono in rapporto con le idee (133 CD) . Se qualcuno è padrone
o servo di un altro, egli non sarà schiavo dell’esl’essenza
del padrone e nemmeno padrone dell’essenza del
servo ma, come uomo, egli sarà padrone o servo di un
uomo. In conclusione ciò che è in noi non ha nessuna efficacia
sulle idee, nè le idee ne hanno su noi. Le idee non
esistono che in sè e per sè e ciò che è in noi non è relativo
che a ciò che è in noi (133 E). Così la scienza in quanto è
scienza in sè, sarà scienza di ciò che è la verità in sè, e
ciascuna scienza che è in noi, sarà la scienza di ciascun ente
che esiste in noi (134 A). Non abbiamo le idee in sè stesse
e non abbiamo quindi la scienza in sè stessa e, poiché solo
questa permette la conoscenza delle idee in sè, questa resta
per noi assolutamente inconoscibile (134 B).
La gravità di queste nuove obbiezioni di Parmenide
consiste, in un certo senso, nel fatto che esse riassumono
— io6
tutte le precedenti. Le idee sono in sè, ma esse possono,
come sappiamo, entrare in contatto col nostro mondo nel
momento della creazione. Il mondo reale, nello stesso modo,
entra in contatto con il mondo ideale. Ma come facciamo
noi a conoscere le idee? Per questo scopo c’è la dialettica
filosofica che giunge, col suo metodo ascendente, fino
all’unità e che, col metodo discendente, deduce poi dall’uno
la stessa realtà attraverso cui è passato il metodo
ascendente.
In un certo senso però Parmenide ha ragione quando
afferma che noi possiamo conoscere il mondo ideale. Noi
arriviamo a conoscerlo in quanto esso è esistente e si pone,
in seguito, in relazione con il mondo reale. Lo conosciamo
per mezzo della seconda ipotesi, ma il mondo
ideale si pone anche come superiore all’esistenza nella sua
unità assoluta, ed allora come è possibile conoscerlo? Come
è possibile conoscere l’unità? Tutto ciò che è conosciuto è
oggetto del nostro pensiero, quindi, esiste; come conoscere
ciò che è superiore all’esistenza? D’altra parte l’unità ideale
solamente può permetterci, una volta raggiunta, la spiegazione
e la conoscenza della realtà. Ammessa una scienza
delle idee come quella che ci viene assicurata dalla seconda
ipotesi ed ammessa una scienza del reale come quella garantita
dalla quarta ipotesi, queste scienze non saranno poi
assolutamente indipendenti l’ima dall’altra? In altri termini
Parmenide qui si chiede: come è possibile ed in che cosa
consiste il rapporto tra la dialettica filosofica che conosce
le idee e l’organizzazione razionale della realtà, e il metodo
diairetico che conosce le idee in quanto reali, in quanto oggetti
di questo mondo che diventano idee? La seconda ipotesi
ci dimostrerà che, se è possibile una dialettica filosofica,
tutto è possibile, anche la conoscenza empirica. C’è dunque
già implicita nella dialettica la possibilità della conoscenza,
prima che si distingua, con la creazione, se l’oggetto che è
conosciuto sia esistente solo idealmente o anche realmente.
In questo modo il metodo diairetico ci appare sempre
più come un proseguimento della dialettica filosofica ed esso
è reso possibile, logicamente, prima ancora che esistano realmente
gli oggetti a cui deve applicarsi. Il metodo diairetico
diventa un metodo a sè perchè i suoi oggetti diventano da
ideali, con la creazione, reali; allora trovare l’idea del letto
significherà determinare la realtà del letto. Parmenide pensa,
con l’esempio dello schiavo e del padrone, al fatto che
non esiste la schiavitù ma lo schiavo. Ora l’idea della schiavitù
come tale non diventerà mai esistente, esisterà invece
l’idea dello schiavo a cui può corrispondere una realtà
empirica. C’è però sotto questo l’altro problema: uno schiavo
non è lo schiavo come idea. Ma uno schiavo singolarmente
determinato, fa parte, per Platone, del mondo del
divenire come non intelligibile: esso esiste in quanto c’è
in lui una realtà positiva che è l’idea dello schiavo, ma
non esiste in quanto le determinazioni che lo costituiscono
come singolo restano rappresentazioni fantastiche mai dimostrabili
e quindi mai organizzabili in un giudizio. La
quinta ipotesi spiegherà queste posizioni dandoci insieme
il fondamento razionale del metodo diairetico.
Parmenide fa inoltre notare che se noi non conosciamo
la scienza vera delle idee e le idee sono assolutamente indipendenti
da noi, ne risulterebbe che se Dio possedesse la
scienza in sè non potrebbe conoscere il nostro mondo (134
C D). L’obbiezione si spiega nello stesso modo delle precedenti:
c’è però una verità parziale in questa nuova complicazione
che viene presentata. Si parla di una conoscenza
della scienza in sè, di un’idea della scienza in sè, di un
pensiero in sè; Parmenide sottolinea subito la sua posizione
affermando che c’è una scienza in sè, come c’è il bello in
sè (134 C). Come sarà possibile al pensiero perfetto di conoscere
sè stesso? La domanda è la medesima che si porrà
Parmenide sull’unità è conoscibile non è più unità, e quindi
essa non può essere conoscibile e non può nemmeno essere.
Il pensiero non può, in quanto pensiero perfetto, conoscere
sè stesso, la sua idea. Esso si può solo pensare come
unità ontologica assoluta che permette l’esistenza o come
unità che permette la conoscenza. Non sarà mai però nè
esistente, nè oggetto di conoscenza, come si vedrà nella prima
ipotesi della seconda parte del dialogo a cui questa discussione
è quasi un’introduzione diretta.
L’esercizio dialettico. — Parmenide ha finito. Egli non
ha mai negato, in tutto il suo discorso, l’impossibilità di
una teoria delle idee. Ha solo presentato delle obbiezioni.
Sopratutto ha voluto far vedere che è impossibile definire
il bello, il giusto, il bene e gli altri concetti di questo genere,
perchè essi appartengono ad una visione filosofica generale,
sono i termini ed i momenti di una filosofia e trovano il
loro vero posto solo quando si è in possesso di una teoria
totale sulla razionalità del reale. Il giovane Socrate che qui
ascolta, spaventato, le difficoltà che sorgono davanti alla
sua ipotesi di un mondo ideale, rassomiglia bene a tutti gli
interlocutori del Socrate maturo che Platone ci ha presentato
nei suoi dialoghi. Certamente egli non è Eutifrone, nè
Gorgia, nè Protagora e tanto meno Ippia o Ione, ma può
ben avvicinarsi a Teeteto a cui, come ci dice Platone, rasso
miglia perfino fisicamente. A Teeteto Socrate raccomanderà
quello che ora a lui stesso raccomanda Parmenide: eserci
tati, immergiti fino in fondo negli esercizi della dialettica
che sembrano non servire a nulla e che il volgo considera
chiacchiere e nient’altro. Esercitati finché sei giovane, per
chè se no la verità fuggirà sempre dagli sforzi che tu farai
per raggiungerla (135 D). E la stessa raccomandazione ri
petono costantemente al lettore tutti i dialoghi platonici con
i loro paradossali resultati e con la loro sconcertante man
canza di conclusione. Solo un esercizio dialettico di una ric
chezza inverosimile ha potuto permettere a Platone di scri
vere i suoi dialoghi, solo la visione sempre presente di una
razionalità del reale quale quella che il Parmenide ci svela,
potrà permettere al lettore di Platone di avvicinarsi al suo
pensiero e di perdere di esso il meno possibile. Come a So
— iog —
crate giovanetto l’insegnamento di Parmenide permetterà
di comprendere il vero senso della sua teoria delle idee, così
per il lettore il Parmenide avrebbe dovuto essere la guida
segreta per comprendere ogni dialogo platonico.
Ma di quale esercizio dialettico si vuol parlare? Chiede
Socrate a Parmenide. Bisogna, risponde quest’ultimo, non
solo, in ogni caso, supporre l’esistenza dell’oggetto e considerare
quello che ne risulta, ma anche supporre l’inesistenza
di esso e vedere ciò che risulta da questa posizione (135 D).
Se, chiarisce Parmenide, prendiamo in considerazione l’ipotesi
di Zenone sulla pluralità, bisogna cercare, supposta la
sua esistenza, che cosa ne risulta per il molteplice in rapporto
a sè medesimo e poi in rapporto all’uno e poi, per l’uno,
in rapporto a sè medesimo in rapporto al molteplice; in seguito,
supposta la sua inesistenza, esaminare ancora che
cosa ne risulterà, sia per l’uno come per il motleplice, in
quanto in rapporto a sè medesimo in rapporto al molteplice;
in seguito, supposta la sua inesistenza, esaminare ancora
che cosa ne risulterà, sia per l’uno come per il molteplice,
in quanto in rapporto con sè medesimo e in quanto in rapporto
l’uno con l’altro (136 B). Lo stesso si potrebbe fare,
dice Parmenide, per ogni concetto di genere. Parmenide
avrebbe quindi potuto usare anche un altro concetto oltre
l’unità ma perchè usa l’unità? « Sebbene Parmenide, nota
il Levi ‘), dichiari che l’esame del rapporto fra l’unità e la
molteplicità che egli sceglie serve soltanto a dare l’esempio
di un procedimento dialettico che deve essere applicato a
tutte le idee, è chiaro che, nel pensiero di Platone, tale ricerca
doveva avere un valore particolare ». Ciò significa
che il metodo di Parmenide, non ha un valore puramente
gnoseologico, cosa che, da parte nostra, abbiamo sostenuto
dicendo che esso si occupa della razionalità del reale. Del
resto cominciare da un’idea o da un’altra è lo stesso, anche
1) A. L EVI: Il concetto di tempo nella filosofia di Platone.
Milano, ig20. Pag. 4g.
il molteplice di Zenone poteva servire, purché la dialettica
filosofica venga usata in tutta la sua totalità e, sopratutto,
dice Parmenide, purché si tenga conto non solo dell’essere
ma anche del non essere. E noi abbiamo visto come solo il
concetto del non essere può permettere di risolvere certe
difficoltà poste da Parmenice, così come abbiamo visto che
le ipotesi del non essere sono costantemente a fianco dell’essere
nei dialoghi platonici esaminati e si trovano, implicitamente,
nella Repubblica, nella stessa forma con cui le
troveremo nella seconda parte del Parmenide.
È logico in ogni modo che Parmenide parli dell’unità.
Ed è filosoficamente necessario; la sua discussione comincia
là dove finisce la discussione della Repubblica e dove finisce
l’ascesa del metodo filosofico. Certo qualsiasi altra idea ci
avrebbe condotti all’unità che è il principio e l’inizio della
discussione, come il sole è principio della natura dell’essere
e del conoscere; l’unità a cui Parmenide e Platone erano
arrivati e da cui ridiscendono insieme, per spiegare le idee
e il mondo, il non essere e l’essere, la conoscenza e l’errore.
Avventuriamoci ora con Parmenide e tentiamo di at
traversare il suo <( immenso oceano di pensieri » (137 A). CAPITOLO II. LA SECONDA PARTE DEL PARMENIDE LA PRIMA IPOTESI. L’unità come superessente. — Parmenide comincia con l’affermazione dell’unità. Egli non parla dell’esistenza dell’uno, ma vuol vedere che cosa deriva dal fatto di pensare l’uno come unità. Egli dice perciò se l’uno è tino, ma la copula ha qui un valore di uguaglianza e non determina un’esistenza (137 C). « È » non significa dunque, in questo caso, che l’unità è. Il Natorp ha sostenuto che, mentre per Protagora la parola essere viene usata come attributo del pensiero soggettivo, Parmenide, come Platone, intende l’essere come l’oggetto del pensiero, come il pensato. Se una cosa è essa esiste, se noi pensiamo una cosa essa è così come si presenta davanti a noi, come oggetto. L’essere delle idee è l’essere del pensato, l’essere che vi pone il pensiero. Ora il pensiero ha delle leggi interne, queste leggi sono universali ed assolute e, conseguentemente, sono, per il Natorp, quelle che Platone chiama idee. Il pensiero in quanto legge di sè medesimo non può quindi pensare che ciò che è 1). Ora noi ci troviamo, nella prima 1) NATORP: Ueber Platos Ideenlehre. Berlin. 1914 p. 3 e segg. ipotesi, di fronte al fatto che il pensiero pensa un oggetto che non è. Pensa all’unità, non affermandone l’esistenza, ma affermando semplicemente l’unità come unità. Da ciò risulta che, se seguiamo la posizione del Natorp, l’unità non deve intendersi come il pensato, cioè come l’oggetto del pensiero. Ora se il pensiero non pensa un pensato che cosa pensa? Evidentemente qualcosa che non è pensato. Ma sé il pensato coincide con l’essere allora il pensiero dovrà pensare qualcosa che non è. Ma è possibile pensare un non pensato, pensare un non essere? A Parmenide (come sappiamo dal fr. 7 Diels due volte citato da Platone in Sof. 237 A e 258 C) il pen sare ciò che non è sembrava assolutamente impossibile il che è in pieno accordo con le tesi del Natorp. Platone, nel Sofista, dimostrerà che il non essere è, in quanto esso cinsiste nell’altro, di cui ogni parte che si oppone all’es sere, è il non essere. In questo senso il non essere è pen sabile. Dunque se il non essere viene pensato esso viene pensato in quanto altro dall’essere, e in quanto è quest’al tro. In conseguenza quando il pensiero pensa all’unità, se la pensa come qualcosa che non è, la pensa in rapporto alla molteplicità, o meglio, come altro dalla molteplicità. L’unità non è, si potrebbe dire basandosi sul Sofista, tutto quello che è altro da lei. È questa l’unica maniera con cui il pensiero può pensare l’unità. Ma ciò che non è l’altro che cos’è? Evidentemente, sempre seguendo il Sofista, è sè me desimo. Ora essere sè medesimi significa usare il verbo es sere non come copula ma come equazione. Dire l’uno è l’uno in quanto non è il molteplice, significa dire che l’uno non ha l’esistenza del molteplice. Nella prima ipotesi le idee non sono dunque l’oggetto del pensiero, ma vengono determinate come tutto ciò che è opposto all’esistente, con siderato questo come negativo. Necessariamente le idee avranno qui un valore positivo. Se, conseguentemente, pur avendo un valore positivo, sono l’opposto di ciò che esiste, non saranno, in quanto sono positive, non essere, ma sa ranno più dell’essere. La proporzione della Repubblica tra idee e realtà intelligibile e tra mondo reale e mondo della fantasia, ci può chiarire qui la posizione, assumendo, nello stesso tempo, tutto il suo valore filosofico. Quando si tratta di spiegare quale è la realtà delle idee, Platone si trova, come noi, davanti a tre termini noti e ad un termine ignoto. Per spiegarci che cos’è questo x, cioè la realtà delle idee, egli dice che la stessa distanza che c’è tra il mondo fantastico (il non essere) ed il mondo empirico come reale, c’è tra le idee come esistenti (cioè le idee in quanto pensate, in quanto oggetti del pensiero, come saranno affermate nella seconda ipotesi) e le idee come unità assoluta. C’è dunque un’esistenza ontologica dell’idea come unità, la quale è di tanto superiore alle idee ontologicamente esistenti come molteplici e come pensato, di quanto l’essere del mondo è superiore al non essere del mondo. Da ciò risulta che le idee come molteplici non sono di fronte all’idea come unità. Ora siccome il pensiero pensa solo le idee come molteplici, cioè come esistenti, quando pensa l’unità pensa un essere infinitamente superiore alle idee. Appunto per questo suo superiore valore ontologico l’unità non si pone come oggetto del pensiero e, quando il pensiero la pensa, la pensa o come unità assolutamente superiore all’esistenza senza deterniinazione e allora l’intuisce, oppure la pensa in quanto non è ciò che è altro da lei. In conclusione l’unità ha un valore ontologico superiore all’essere che pensa il pensiero, ed appunto perchè ha questo superiore valore ontologico, è possibile di fronte ad essa e, per mezzo di essa, affermare non solo il mondo fenomenico, ma tutto ciò che è pensabile, e quindi anche le idee, come ciò che è altro da lei. Una volta riconosciuta la superiore posizione ontologica dell’unità che viene intuita o pensata dal pensiero, senza che questo la renda un oggetto cioè un essere esistente, ci si può domandare : qual’è la posizione del pensiero in quanto pensa una realtà ontologica superiore al pensato, in quanto pensa cioè un’unità? Riportiamoci all’interpretazione che dà il Natorp dell’idea del bene nella Repubblica. L’idea del bene non è oggetto di conoscenza, dice Natorp, ma rappresenta, in quanto fondamento dell’essere e del conoscere, la posizione stessa del pensiero in quanto autolegislativa, il pensiero puro, la pura legge del pensiero ‘). Di conseguenza quando il pensiero pensa l’unità pensa sè stesso come unità, come esigenza unificatrice assoluta, cioè, come possiamo dire riferendoci a Kant, come io trascendentale. La legge del puro pensiero è però possibile, per Platone, solo per mezzo dell’affermazione della realtà ontologica dell’idea. Partendo dalle stesse premesse del Natorp si deve necessariamente concludere, come abbiamo concluso, che se bisogna pensare l’unità come altro dal molteplice, bisogna nello stesso tempo pensarla come positività e quindi come superiormente esistente. Anche se si dovesse considerare l’unità come il fondamento metodologico della nostra conoscenza essa dovrebbe mantenere quel preciso valore ontologico che Platone le ha attribuito in tutta la sua opera e, principalmente, nel Menone, nel Fedone e nella Repubblica. Se essa diventerà legge sarà solo come momento correlativo della molteplicità e la legge, in questo caso, vedremo che non negherà affatto il senso ontologico dell’essere. Svolgimento della discussione -Figura e luogo. — Dalla sua prima affermazione dell’unità come unità, Parmenide deduce che non può essere molteplice, che non può avere parti e che non può nemmeno essere un tutto (137 D). L’uno sarà illimitato e non potrà avere nessuna figura (137 E). Non sarà in nessun luogo nè in sè stesso, non po tendo nè essere circondato ed avere contatti, perchè per questo dovrebbe avere delle parti, nè raddoppiare sè mede 1) N ATORP: Platos Ideenlehre cit. p. 216. simo in contenente e contenuto (138 A B). L’affermazione dell’unità assoluta spiega sufficientemente la mancanza di parti nell’unità. Ma questa mancanza di parti è tale che l’uno non può essere unità di una molteplicità. Necessariamente ciò deve accadere se il valore ontologico dell’uno è superiore a qualsiasi molteplicità, come è superiore alla molteplicità ideale che, di fronte all’unità, è non essere. Non si potrà dire dunque che l’uno raccoglie in sè le altre idee perchè in quanto unità queste idee non sarà possibile dividerle, in quanto molteplicità, non sarà possibile raccoglierle. L’uno non è in nessun luogo, perchè il luogo partecipa di un’esistenza. Non essere in nessun luogo significa qui necessariamente non essere allo stesso livello delle idee, quindi in un luogo ideale. Non essere in sè non significa non essere in sè medesimo, come qualcuno ha interpretato, ma non essere localmente in sè, cioè non prendere sè stesso come una parte. Essere sè medesimo, per l’uno, è essere uno in un senso di uguaglianza e non di esistenza. Essere in sè medesimo significherebbe al contrario essere diverso da sè, ed essere quindi nel senso di esistere. Movimento e immobilità. — Per muoversi l’unità dovrebbe muoversi o per alterazione, o per translazione. Se si altera non è più unità. Se si muove per translazione, su sè stessa non può muoversi perchè non avendo parti non ha un centro, verso altri nemmeno perchè non è in nessun luogo. E nemmeno può darsi che vi divenga, perchè una parte di essa sarebbe nello spazio e una parte fuori: ci sarebbero dunque nell’unità delle parti. L’uno è, in conclusione, assolutamente immobile (138 C, 139 A). Questa immobilità però non basta per stabilire la superiorità dell’uno al movimento. L’immobilità è relativa al moto: è logico dunque che l’unità sia considerata come superiore anche al concetto di riposo (139 B C). Differenza e identità. — L’uno non può essere diverso da sè medesimo, non può conseguentemente essere identico ad un altro (139 C). L’unità non potrà nemmeno essere differente da qualcos’altro. Per esserci una differenza ci dovrebbe essere una molteplicità e perciò l’unità è superiore al concetto della diversità. La medesima cosa accade per ciò che riguarda l’identità (139 D E). L’uno non è identico a sè stesso in quanto, come dice chiaramente Parmenide, (( la natura dell’uno non è la stessa di quella dell’identità », e ancora : « se si ammettesse che l’uno e l’identico non differiscono in nulla, tutte le volte che qualcosa diventa identica, dovrebbe diventare anche unità » (139 D). Qui risulta chiaramente che l’unità, in quanto si differenzia dalla molteplicità, permette alla molteplicità di essere molteplice. Nei casi particolari è perchè l’uno è uno che esistono delle parti, in quanto queste sono possibili solo se l’uno viene concepito come unità assoluta da esse distinta. Analogamente l’inesistenza spaziale dell’unità permette l’esistenza dello spazio e, nello stesso senso, l’uno permette l’esistenza del moto e della quiete, della differenza e dell’identità, come permetterà l’esistenza delle altre idee che seguiranno. Somiglianza e non somiglianza. — Così l’unità non sarà nè simile nè dissimile, non potendo essere nè identica nè differente (139 E e segg.), sarà cioè superiore all’idea di somiglianza e all’idea di dissomiglianza. L’unità sarà conseguentemente anche superiore ad ogni relazione matematica, non sarà cioè nè uguale nè disuguale non potendo avere misure identiche, nè maggiore o minore numero di misure, non sarà cioè più grande o più piccola di qualsiasi altra cosa (140 C D). Tempo ed essere. — L’uno non potrà essere nè più vecchio nè più giovane e nemmeno dell’identica età di un altro, esso non potrà dunque in nessun modo esistere nel tempo, non potendo nemmeno essere più giovane o più vecchio di sè medesimo (141 ABC) . Non si può dunque dire dell’uno era, è staio, diveniva; perchè questo significherebbe che è stato nel tempo e per la stessa ragione non si potrà dire: è, diviene, sarà, diventerà, sarà diventato. Ora «se l’uno non partecipa affatto, in nessun caso, al tempo, esso non è mai stato, non diveniva e non era; non è diventato ora, nè diviene, nè è, nè, dopo, diventerà, non sarà diventato mai, nè sarà » (141 E). Se non è possibile partecipare all’essere che in questo modo, l’uno non partecipa affatto all’essere, cioè non è (cit. 141 E). Questi ultimi passi sono molto importanti perchè ci fanno capire che l’uno non è e non esiste nel senso che non partecipa all’essere esistente nel tempo. C’è la conferma qui che l’unità ha un’essenza superiore, ed è per questo che si conclude che l’uno non avrà nemmeno quell’essere necessario per essere uno, giac ché si è dedotto l’essere dal tempo (141 E). Il passo in cui si dimostra che ogni cosa che è nel tempo deve avere la medesima età di sè medesima e deve diventare nel medesimo tempo più giovane e più vecchia di sè stessa (141 B e segg.) può apparire anche molto sofistico. Il Diès ha giustamente posto in relazione questo passo con il passo della Repubblica 430 E e col passo del Carmide 168 A – 169 C ‘). Nella Repubblica si dice che « essere superiore a sè stesso » è un’affermazione ridicola, perchè chi è superiore a sè stesso dovrebbe anche essere inferiore a sè stesso. L’affermazione non è possibile su una medesima persona, se non ammettendo in essa delle parti diverse. Così lo Stato è superiore a sè stesso quando la sua parte migliore domina la peggiore (cfr. Rep. 431 B). Nel Carmide si fa notare, come ben dice il Diès :), che non ci può essere una relazione 1) DIÈS: Op. cit. Pag. 77 (2). 2) DIÈS: Op. cit. Pag. 77 (1). che dove c’è un reale dualismo di termini, altrimenti il più vecchio di sè sarà anche più giovane di sè. Ora come mai nel Parmenide si dice che una cosa può essere più giovane e più vecchia di sè medesima? Tenendo conto dei passi della Repubblica e del Carmide, ciò di cui si parla nel Parmenide non è assurdo proprio perchè è applicato all’uno. Si vuol far vedere che l’uno, in quanto assoluta unità, non può nè diventare più giovane nè più vecchio e questo perchè, quando si parlerà nella seconda ipotesi dell’uno come esistente, si vedrà che di esso si può dire che diventa più giovane e più vecchio pur restando sempre uno, senza determinare in sè medesimo un dualismo tra giovinezza e vecchiaia. Ciò avverrà però quando l’unità sarà pensata come l’idea esistente dell’uno e non quando, come nella prima ipotesi, si parla dell’unità come superiormente esistente. Dell’unità si può dire quello che non si può dire delle altre cose, il passo di Parmenide è un sofisma solo se non si pensa che esso tende a spiegare, con un esempio in cui si parla di cose in generale, una difficoltà che il giovane interlocutore di Parmenide non aveva capito. In conclusione il passo chiarisce che ciò che non è possibile dire di tutte le cose, cioè che sono oppure non sono più giovani e più vecchie di sè stesse senza determinare in sè medesime una molteplicità, si può dire invece dell’idea dell’uno per cui ambedue le affermazioni sono possibili, come si sa dai passi citati della Repubblica e del Carmide. L’essere nel tempo dell’uno che non è possibile per l’unità come unità, nella seconda ipotesi sarà invece possibile dell’unità in quanto è. Ma questo essere nel tempo non sarà concepito come una partecipazione al divenire del mondo empirico, proprio perchè l’uno anche esistente come idea dell’uno, è più vecchio e più giovane di sè medesimo, senza però moltiplicarsi in più parti e in più tempi. Si intravede già qui la necessità della terza ipotesi, di — ng una concezione speciale cioè dei rapporti tra unità e tempo e del tempo stesso. Conoscibilità. — Se l’uno non partecipa però come assoluta unità a nessun essere e perciò non è, di esso, dice Parmenide proseguendo il suo discorso, non è possibile nè un nome nè una definizione, nè scienza, nè opinione, nè sensazione (142 A). Noi abbiamo visto che l’uno non può essere pensato e che, conseguentemente, non può, in quanto unità assoluta, partecipare all’essere. La conclusione di Parmenide è dunque una prova della nostra interpretazione. Ma Parmenide dice assai di più e che, cioè, dell’uno non ci sarà nemmeno sensazione e opinione. L’affermazione di Parmenide si spiega in quanto, nella seconda ipotesi, si affermerà dell’uno come esistente ciò che qui viene negato. Parmenide conclude chiedendo se è possibile che sia così dell’uno (142 A). Noi sappiamo che l’uno non si può nominare e Parmenide lo nomina. Quando si parlava dell’unità come assoluta unità, non si parlava di un essere che poteva avere il nome di uno, ma di qualche cosa che, come abbiamo visto, aveva un valore assolutamente superiore. Una volta giustificata l’unità come superesistente Parmenide ripensa a ciò a cui si può dare il nome di uno e per questo, staccandosi dai risultati della prima ipotesi, con la sua domanda ci introduce alla seconda, in cui l’unità potrà chiamarsi unità. LA SECONDA IPOTESI. Il passaggio dalla prima alla seconda ipotesi. — Come abbiamo notato nella República il passaggio dalla posizione in cui si stabilisce la superesistenza dell’unità, alla posizione in cui si afferma la molteplicità ideale, come qui nella seconda ipotesi del Parmenide, è reso solo possibile dal concetto di non essere. Nella sua domanda (può essere così dell’uno?) Parmenide pensava già ad un uno che non era quello considerato dalla prima ipotesi. Nella seconda l’uno potrà avere tutte le attribuzioni perchè non sarà l’uno della prima. L’uno che esiste non è dunque l’uno come unità assoluta. Osservazioni sul concetto di non essere nel Parmenide. — Che significato ha qui il concetto di non essere? Nella República abbiamo visto che il non essere può essere considerato come male, come errore, come distruzione. Evidentemente nel nostro caso il concetto di non essere viene ad assumere un altro significato che è quello che assumeva nella República quando non si presentava come errore, ma come un passaggio da una posizione all’altra. Per spiegarci queste due diverse maniere di concepire il non essere prendiamo il Sofista. In questo dialogo si dimostra, come sappiamo, che il non essere in un certo senso è (cfr. principalmente 241 D. E.). In tutti i generi ciò che è altro da essi fa sì che ciascun genere sia altro dall’essere e, cioè, non essere (256 E). In questo senso tutti i generi potranno non essere ed in ogni idea ci sarà una quantità definita di essere e una quantità infinita di non essere (cit. 256 E). Per quante volte sono gli altri per tante volte l’essere non è: quest’ultimo infatti non è gli altri ma sempre sè medesimo (257 A). Gli altri, alla loro volta, nella loro infinita molteplicità, non sono per tante volte per quante l’essere si afferma come tale (cit. 257 A). Precisamente questo metodo viene seguito nel Parmenide. Anche nella prima ipotesi l’uno si determinava come non essere per quante volte si negava come molteplicità, spazialità e così via. Se l’uno poi si affermava come unità non superesistente, ma esistente, immediatamente scompariva l’essere degli altri. In conclusione il Sofista afferma che, quando parliamo in questo modo dell’essere, non parliamo di qualcosa che è contrario all’essere ma di qualcosa che è altro dall’essere (457 B). Il non essere permette così la molteplicità delle idee ed è a causa del non essere che si parla di una pluralità di arti e di scienze (257 D). La natura di ciò che è altro si spezza nel medesimo modo con cui si divide la scienza (257 C). In questo modo il non essere è un genere come gli altri generi che si distribuisce su tutti gli esseri (260 B). Da questo punto di vista il risultato di ogni ipotesi del Parmenide è altro da quelli di tutte le altre. Questa alterità si verifica in quanto la prima ipotesi si differenzia dalla seconda, questa dalla terza, mantenendo in sè la differenziazione dalla prima, e quindi, la prima, si differenzia anche dalla terza, e così avviene per tutte le altre ipotesi. Prendendo così qualsiasi ipotesi isolata del Parmenide essa è sè stessa in quanto è sè stessa, e le altre rappresentano ciò che non è l’ipotesi considerata. C’è dunque nel Parmenide un non essere di ciascuna ipotesi di fronte a tutte le altre. Le altre però non saranno presenti quando si discute un’ipotesi isolata; non saranno presenti, per esempio, tutte quelle che vengono dopo la seconda, quando si discute la seconda. La distinzione avviene dun que tra ipotesi per ragioni di discussione, cioè per ragioni dialettiche. La dialettica discendente del Parmenide distingue sempre più l’unità da ciò che non è unità e, da questa distinzione, procede verso la deduzione della molteplicità. Man mano che le differenziazioni aumentano la molteplicità accentua il suo carattere immanentistico finché si nega del tutto. La molteplicità diventa, si può dire, sempre meno ciò che è l’uno della prima ipotesi, e poiché l’uno è ivi positività, la molteplicità diventa sempre più non essere. Via via che si procede, date le necessità del metodo discendente, aumenta sempre più il carattere negativo delle ipotesi, finché, ad un certo momento, la quinta ipotesi riassumerà in sè una quantità di non essere tale da bastare non solo per differenziarsi, ma anche per opporsi alla positività della prima ipotesi. Nella quinta ipotesi infatti il mondo della doxa si presenterà come opposizione alla perfezione del l’unità della prima ipotesi. Dalla quinta ipotesi in avanti il non essere aumenterà sempre più e, oltre che a determinarsi come altro dall’essere, si determinerà anche come opposto all’essere. C’è quindi nel Parmenide una distinzione generale tra i due gruppi di ipotesi; le prime quattro riguardano l’essere e le ultime cinque riguardano il non essere. Conseguentemente ci saranno due posizioni del non essere, distinte, ma una legata all’altra. La prima è la posizione per cui una ipotesi si distingue da tutte le altre e cioè dalla precendente e questa posizione è quella di tutte le ipotesi fino alla quarta, la seconda è la posizione di tutte le ipotesi che seguono, compresa la quinta, posizione per cui ognuna di esse si distingue dalla precedente, ma anche si oppone ad un’altra ipotesi. Precisamente la quinta si oppone alla prima, la sesta alla seconda, la settima alla terza, l’ottava alla quarta. La nona ipotesi ha una posizione particolare che esamineremo, come, da un altro punto di vista, ha una posizione particolare anche la quinta. Possiamo concludere che i due concetti del non essere che troviamo nel Parmenide si presentano uno come alterità, l’altro come alterità e opposizione. Le ipotesi in cui si determina, insieme ad una diversificazione anche un’opposizione, sono quelle già viste nella Repubblica come assolutamente negative. Ci si può rendere conto della verità di quanto si è detto esaminando semplicemente la posizione iniziale di ciascuna ipotesi come risulta dal seguente schema : Ipotesi sull’essere. IIIIIIIV — — — — Superesistenza dell’uno. Esistenza dell’uno. Relatività dell’uno. Instantaneità dell’uno. Creazione. Gli altri in rapporto all’esistenza relativa dell’uno. Essere assoluto. Non essere comerità. alteIpotesi sul mondo della doxa (Essere e non essere). V — Gli altri di fronte alla positività dell’uno. Mondo della doxa (opposizione alla I ipotesi). Non essere come alterità e opposizione. Ipotesi sul non essere. VIVIIVil i — — — Non esistenza relativa dell’uno (opposizione alla seconda ipotesi). Non essere come distruzione (opposizione alla terza ipotesi). Non esistenza relativa dell’uno, in rapporto agli altri (opposizione alla quarta ipotesi). Non essere come alterità e opposizione. Coincidenza del non essere con l’essere superesistente. XI — Inesistenza dell’uno e degli altri. Non essere assoluto. Mondo ideale e idealità dell’ esperienza. — Parmenide ritorna, dopo la fine della discussione sull’uno come unità, al punto da cui era partito, « per vedere se un nuovo esame darà dei risultati diversi » (142 B). Parmenide non nega la prima ipotesi ed il suo resultato, cioè la superesistenza dell’unità. Egli riprende l’uno concepito come esistente e pone i termini di una nuova ipotesi: se l’uno è. Qui la copula ha un valore non di uguaglianza ma il solito valore per cui afferma l’essere di un soggetto (142 C). Questo soggetto però, cioè l’uno, ha assunto, dopo la discussione sulla sua superesistenza, un valore preciso per cui è impossibile determinarlo come l’oggetto del pensiero, come un pensato. In questo modo la copula « è », ogni volta che affermerà dell’unità un predicato, negherà la sua superesistenza, e dirà, in questo senso, che non è, precisamente come è stato .fatto nella prima ipotesi. In questo modo le due ipotesi ci dicono proprio la stessa cosa in due posizioni logiche diverse: nella prima è per la superesistenza dell’uno che esiste il molteplice, nella seconda invece il molteplice esiste per l’esistenza dell’uno. Nella prima l’esistenza della molteplicità era garantita dall’unità e dalla permanenza di questa unità in ogni molteplice, nella seconda è garantita perchè l’unità diventa oggetto di pensiero, realtà stessa della conoscenza. Questa realtà della conoscenza viene determinata in quanto l’unità, invece di distinguersi da ogni genere, si identifica con esso e ne fonda così l’idealità. In questo modo si dice che l’unità è tutto quello che non è quando si pone come superesistente. Conseguentemente essa si deve negare come soggetto e porsi come oggetto. Nella seconda ipotesi è però solo l’unità come superesistente che diventa oggetto di conoscenza e che, data la relazione tra pensiero e unità superontologica, è. In quanto l’idea del bene viene conosciuta e pensata noi conosciamo tutta la realtà che dall’idea del bene è resa possibile, conosciamo cioè tutto quello che nella realtà ha un valore positivo e cioè ideale. Quando nella Repubblica si costruisce uno Stato quale è reso possibile dall’idea del bene, si costruisce l’idea dello Stato. In conclusione tutto ciò che viene determinato dalla seconda ipotesi ha un’esistenza come idea e quindi la seconda ipotesi rappresenta la posizione dialettica discendente in cui si giustifica e si determina l’esistenza delle idee, di quel mondo ideale che già è stato visto nella Repubblica, come nel Fedone e nel Cratilo. Un mondo delle idee è perciò una molteplicità di idee e non una molteplicità caotica, ma una molteplicità organizzata, l’idealità stessa di tutto ciò che è e, in altre parole, tutto ciò che è in quanto ideale. Quando l’unità viene pensata il pensato è tutto ciò che nel mondo viene reso esistente dall’uno come super esistente, cioè tutto ciò che è positività, sia come idea che resterà sempre idea, sia come idea che potrà esprimersi anche sensibilmente, o come idea che esisterà anche solo come immagine, ma come immagine positiva, cioè come immagine vera. Tutto ciò che nella realtà per Platone può essere visto come positività, ha un valore ideale. Anche il fango, come ben voleva Parmenide, avrà la sua idea ed anche il fango quindi potrà avere il suo valore positivo. Come si è visto nella Repubblica tutto il molteplice è organizzatale, tutto ciò che esiste può avere la sua funzione e, in questo senso, tutto ciò che è reale può avere un valore razionale come avviene nello Stato perfetto. Da questo punto di vista Natorp ha per noi ragione quando vede nella discussione del Parmenide la formazione di una teoria dell’esperienza ‘). Il mondo empirico è dedotto dall’unità prima come mondo positivo cioè ideale, quindi come idealità, e in seguito, man mano che si procede verso il non essere, anche come negatività. D’altra parte se ci si limita alla seconda ipotesi ha ragione anche Burnet per cui la di i) NATORP: Op. cit. Pag. 222 e segg. 242 e segg. scussione riguarda solamente le idee e non il mondo sensibile ‘). Svolgimento della discussione. — Se l’uno esiste, dice Parmenide, cioè se noi attribuiamo l’essere all’uno che è, e l’uno all’essere che è uno, è necessario che l’oggetto della nostra ipotesi, cioè l’uno che esiste, sia un tutto e precisamente « l’uno che è », del quale tutto sono parti l’uno e l’essere (142 D). Ciascuna di queste parti è la parte di un tutto e perciò l’uno sarà un tutto che ha parti (cit. 142 D). Ecco come l’unità in quanto esistente può essere molteplice senza negarsi come unità: mentre l’unità assoluta non può essere l’unione di parti, l’uno come esistente invece lo può. L’unità e l’essere sono quindi due parti dell’unità stessa in quanto esistente. Ora l’unità non è ammissibile, in questo caso, senza l’essere e l’essere senza l’unità. Così in ciascuna delle parti, cioè sia nell’essere che nell’unità, ci sarà una nuova dualità tra essere ed uno. « Qualunque parte ci dia essa contiene sempre queste due parti: l’uno sempre comprende l’essere, e l’essere l’uno; in modo che è necessario che, poiché è sempre doppio, non sia mai uno » (142 E 143 A). È proprio perchè l’unità non è raggiunta che la dualità si ripeterà sempre, quindi l’uno, in quanto esistente, è multiplo all’infinito (143 A). / numeri ideali. — Sarebbe difficile non vedere qui la deduzione, dall’unità dell’idea, della diade indefinita. Questo ci prova che l’unità in quanto esistente e pensata è il mondo ideale nella sua molteplicità. Bisogna tener presente che i numeri ideali non sono numeri materiali, per-quanto permettano l’esistenza di questi, ma sono delle vere e proprie sostanze come tutte le idee2). Siccome, la diade, per 1) BURNET: Greek Philosophy. London, 1932. Pag. 260. 2) ROBIN : La théorie plat, des idées et des nombres. – Paris, 1908, pag. 267 e segg. – La pensée grecque. Paris, 1932 pag. 253 e segg. Platone, non fa parte della serie dei numeri e nel Parme nide non si parla del due che per Platone è il primo nu mero, ma si comincerà a dedurre i numeri (143 A) comin ciando dal tre 1), è sicuro che in questa ipotesi, come nella prima, Platone non ci parla di realtà materiali quando par la di numeri, della figura, del movimento e di tutto il resto, ma ci parla di idee. Le idee numeri permettono all’unità in quanto esistente di frazionarsi all’infinito. « Se esiste il numero, esisterà la pluralità e l’infinita molteplicità degli esseri » (144 A). Tutta la pluralità esistente solo in questo senso può partecipare all’essere in modo che nulla di ciò che esiste ne sia privo (144 B). Così l’unità potrà trovarsi « in ciascuna parte dell’essere » e non mancare nè alla più piccola nè alla più grande (144 C). Non solo ma, chiarisce Parmenide, l’essere « non è diviso in maggior numero di quanto non lo sia l’uno », « le sue parti sono in numero uguale a quelle dell’uno » (144 D E). Così si conclude che la molteplicità dev’essere nel seno stesso dell’uno (cit. 144 E). Si comprende ora perchè l’uno può essere in tutti i molteplici senza cessare di essere uno e perchè i dialoghi platonici hanno sempre affermato che la molteplicità è tale perchè in essa c’è l’unità. Limite e figura. — Se le parti sono comprese in un tutto, continua Parmenide, l’uno sarà limitato in quanto è un tutto (144 E). Ciò che comprende delle parti è un limite, un limite crea delle distinzioni: l’uno avrà quindi un principio, un mezzo ed un fine. Ora il mezzo è ugualmente distante tra il principio ed il fine e l’uno potrà, in questo modo, partecipare ad una certa forma (145 AB) . In questi passi l’unità ci appare, da superiore ad ogni limitazione quale era nella prima ipotesi, come un limite, anzi 1) ROBIN: La thèorie cit. pag. 255. come ciò che limita e dà l’essenza alle figure. Se nei passi precedenti si parlava delle idee numeri qui si vuol parlare di tutte le idee che danno una forma alla realtà. Tutto ciò che nel mondo ha una figura ha un’idea e quest’idea fa parte del secondo gruppo di idee che la dialettica discendente deduce dall’unità in quanto esistente. Ci risulta dunque un mondo ideale composto di idee numeriche, in cui l’unità agisce come una limitazione, come « peras » contrapposto all’ « apeiron » producendo le figure e le forme. Idealità dello spazio. — Questo mondo ideale costituito come sopra si è detto, non può esistere se non in uno spazio: si pone quindi necessariamente il problema dell’idealità dello spazio. Se l’uno, pur rimanendo tale, può essere limitato e formare delle figure, necessariamente deve essere in qualche luogo e quindi anche in sè (145 B CD) . « In quanto l’uno è un tutto esso è in altro, ma in quanto si compone di tutte le parti, esso è in sè medesimo, in modo che l’uno è necessariamente in sè stesso e in altri » (145 D). Qui « altri » significa tutto ciò che non è uno in quanto idea, cioè tutti gli altri generi, come nel seguito della discussione di questa ipotesi. Lo spazio ha un valore ideale nel senso che si pone non come illimitato (apeiron) ma nel senso che esso è tutto sè medesimo, cioè realizza tutta la spazialità possibile. In altre parole per intendere questo concetto potremmo dire che nello spazio ideale l’infinito non c’è più in quanto tutto quello che è spazio è realizzato. Se noi avessimo presente il mondo sensibile in tutta la sua spazialità, in ogni sua parte, che è infinita (infinitamente moltiplicabile) troveremmo tutto lo spazio. Movimento e riposo delle idee. — Dalla spazialità si passa necessariamente al movimento. Può sembrare strano che Platone ammetta un movimento nel mondo delle idee: ma si pensi che qui è tutta la realtà come ideale che si deduce e cioè tutta la realtà in quanto positività: ci deve essere necessariamente anche un movimento ideale se ci sono dei movimenti perfetti. « È necessario dunque che l’uno, il quale è sempre in sè stesso e negli altri sia sempre in riposo e in moto » (146 A). Oltre le idee che stabiliscono lo spazio sono dunque dedotte anche quelle che stabiliscono un movimento nello spazio, ma un movimento ideale e quindi, come tale, diverso dal movimento reale del quale non si potrebbe dire che si muove mentre è in riposo. Differenza e identità. — Le relazioni sopra notate implicano però una differenza tra l’unità e gli altri generi, ora come può l’unità essere differente da ciò che deriva logicamente da essa medesima in quanto esistente, come abbiam visto derivare i numeri, la forma, lo spazio e il movimento? Bisogna dunque che anche la differenza e l’identità tra questi generi abbiano un valore ideale. Nel mondo ideale identità e differenza non devono essere contrarie l’una dall’altra come avviene per gli esseri materiali. « Se la differenza, dice Parmenide, non sarà mai nell’identità essa non sarà mai niente di ciò che esiste » (146 E). Per essere in ciò che ha una realtà bisogna quindi che la differenza sia nell’interno stesso dell’identità. Perchè ci sia cioè una differenziazione reale tra gli esseri, bisogna che questa differenziazione stabilisca nello stesso tempo la loro unità, che abbia cioè un valore positivo in quanto è una differenziazione che unisce nell’uno come idea del bene. Solo in questo senso l’uno può essere differente dagli altri e da sè medesimo ed identico agli altri ed a sè medesimo (147 B). La differenza sarebbe altrimenti in ciò che non è, in un mondo che è opposto a quello ideale e che si diffe renzia non in un cosmos ma in un caos. Somiglianza e dissomiglianza. — Nello stesso modo la dissomiglianza ideale sarà una rassomiglianza in ciò che è uno di tutti i generi e cioè nella loro essenza, nell’unità (147 A e segg.). La dissomiglianza che non fosse nello stesso tempo somiglianza sarebbe un’imitazione e cioè, come per il caso della differenza e come già abbiamo visto nella prima parte del dialogo, potrebbe avvenire solo in ciò che non è, in ciò che si corrompe e diventa negativo. Contatto. — Nello stesso modo l’unità « ha contatto e non ha contatto con gli altri e con sè medesima » (149 D). Ha contatto con sè stessa in quanto resta unità, ma anche non ha contatto con sè stessa, nel senso che ha contatto con gli altri, ma, nello stesso tempo non ha contatto con gli altri e quindi il contatto ha un valore ideale perchè solo di un contatto ideale sono possibili tutte le affermazioni suddette prese insieme e solo per un contatto ideale esse possono essere vere. C’è dunque nel mondo ideale una aderenza assoluta e perfetta di tutto ciò che è molteplice e unico ed ha forma e si muove perfettamente nello spazio, come differente ed identico nello stesso tempo, dissimile ma simile nella dissomiglianza. Uguaglianza e non uguaglianza. — Per non corrompere la sua idealità questo mondo ideale non dovrà avere parti più grandi e parti più piccole. La piccolezza, come la somiglianza, non può prodursi in ciò che è, in quanto piccolezza e negatività essa appartiene all’opposto di ciò che è e cioè al non essere. Così la grandezza non può essere in ciò che è perchè questo sarebbe più grande di lei (150 B C). Gli altri non contenendo grandezza e piccolezza, non saranno nè più piccoli nè più grandi dell’uno e così sarà per quest’ultimo (150 D). In questo modo l’uno sarà uguale a sè stesso e agli altri (150 E). Sarà però contenuto dagli altri, come nello stesso tempo li conterrà in sè, ed in questo senso, sarà poi più piccolo e più grande degli altri come, rimanendo uguale in questa relazione, sarà più piccolo e più grande di sè medesimo (151 B). Dal punto di vista della misura l’uno sarà dunque « numericamente eguale, maggiore e minore di sè e degli altri » (151 E). È l’idealità del piccolo e del grande che qui viene dedotta. Non si dimentichi che il mondo di cui si parla non ha altri generi all’infuori di quelli di cui sopra è stato detto e che è quindi sempre attraverso le relazioni di essi che si sviluppano nuove relazioni ideali: in questo modo il congiungersi ed il differenziarsi di un genere dall’altro rappresentano tutta la realtà ideale. Il tempo. — Nel mondo ideale perfetto che fin qui è stato dedotto manca il concetto di tempo ideale. Abbiamo visto già nella prima ipotesi come i ragionamenti di Platone sul tempo hanno un valore solo in quanto sono applicati all’uno, hanno un valore cioè in quanto sono applicati ad un tempo ideale. Solo in queste infatti può l’unità essere e divenire più giovane e più vecchia di sè medesima e degli altri (151 E). In questo tempo, che è eternità, e che pure resta tempo, l’uno ideale e tutto il mondo ideale esistono e così si arriva fino all’ultima conseguenza dell’ammissione dell’esistenza dell’unità. L’essere è un partecipare all’essere del presente, l’era ed il sarà un partecipare all’essere del passato e del futuro (152 A). Il mondo ideale, in tutte le relazioni fin qui considerate è sempre tutto sè stesso e diviene pur restando unità (154 A). L’eternità di Platone è un’eternità in cui si svolge un divenire in modo che ambedue i concetti assumono un valore assolutamente ideale. Si deve qui necessariamente concludere il contrario di quello che si è concluso con la prima ipotesi e cioè che l’uno era, è, sarà, diveniva, diviene e diventerà (155 D). Di esso ci sarà una scienza, un’opinione ed una sensazione, sarà possibile definirlo e dargli un nome, potrà essere nominato ed espresso (155 E). /7 mondo delle idee. — Dovremmo dunque, con il resultato della seconda ipotesi, avere di fronte a noi tutte le idee nella deduzione che di esse viene compiuta dall’unità. In tutta la sua opera Platone ha sempre parlato delle idee attraverso i problemi della conoscenza. È attraverso la maniera di conoscere che le idee si rivelano. Il metodo ascendente conduce all’idea del bene, dell’unità in quanto realtà superesistente che non può essere oggetto di pensiero: abbiamo dunque una prima e massima idea. Sappiamo di essa che è positività assoluta. Il metodo ascendente sale a lei partendo dal mondo delle ombre ed elevandosi sempre più: non riesce a determinarla ed a darne una definizione. Essa appare dunque sotto diversi aspetti, come bellezza, simmetria e verità, così come dice Platone nel Filobo (64 A e segg.). Non esistono dunque le idee del bene, del bello e del vero, se non in quanto sono una positività, e se non in quanto sono l’unità stessa in tutta la sua perfezione, che, se è assolutamente positiva, essa non può essere bella, simmetrica, buona e giusta. Queste sue caratteristiche noi le possiamo scorgere quando consideriamo la sua azione sul mondo ideale, il quale appunto nella positività si organizza in una molteplicità armonica : nei numeri ideali, nelle figure ideali, nello spazio e nel movimento ideali, nella differenza, nella somiglianza, nel contatto e nell’uguaglianza ideali e quindi nell’esistenza e nel divenire di un tempo ideale. In questo modo e secondo queste categorie viene dedotta tutta la realtà ideale. Le idee su cui si è mosso il metodo discen dente, e cioè l’unità assolutamente positiva e i numeri ideali con tutte le altre, sono idee che permettono l’organizzarsi ideale di tutto un mondo il quale diventa conoscibile, perchè dell’uno si può dire che è e che è pensato, proprio in quanto è il tutto, come nello stesso tempo si può nominare e dire che è bello, buono, vero e giusto. I numeri ideali e le altre idee sono conoscibili in quanto deducibili, come si è fatto, col metodo della scienza empirica, nei numeri empirici e nelle altre leggi che regolano l’armonia del mondo, leggi stu diate dalla matematica e dall’astronomia in modo partico lare, e perciò queste scienze, afferma la Repubblica, sono utilissime per indirizzare verso la conoscenza del mondo ideale. Di tutto ciò che è positivo ci deve poi essere un’idea e perciò tutto quello che è reso possibile dal mondo ideale dedotto per mezzo delle idee numeri e delle altre, deve esistere come idea. Ci saranno dunque idee di tutte le cose poiché tutte le cose possono essere positive. Ci saranno cioè tutte quelle idee che si possono conoscere non solo attraverso il metodo ascendente, il metodo discendente e la scienza empirica, ma anche attraverso la doxa, il metodo diairetico, l’opinione in quanto opinione giusta. Così tutte le cose del mondo della doxa avranno un’idea perchè dell’unità in quanto esistente è possibile anche un’opinione, come ben ha detto Parmenide. Non solo, ma del mondo ideale è possibile anche una sensazione, anche la sensazione può quindi essere vera, se unificata dall’unità, ed anche gli oggetti di cui è possibile avere una sensazione potranno essere positivi, anche i peli ed il fango, se visti nella loro funzione, nella loro idealità naturale. Perciò anche delle cose sensibili ci sarà un’idea. Nel Parmenide troviamo dunque una gerarchia di idee, di cui la prima contiene la massima positività, e le altre sono via via inferiori, pur partecipando tutte dell’essenza unitaria, proprio in quanto idee, ed essendo perciò tutte perfette. La seconda ipotesi ci ha dedotto, dall’unità come esistente, tutto quel mondo delle idee di cui tanto si parla nell’opera platonica. Lo troviamo nel Parmenide e solo nel Parmenide svolto in tutta la sua complessa organicità. LA TERZA IPOTESI. La posizione negativa dell’uno. — Il mondo ideale come viene pensato nella seconda ipotesi è tutta la realtà, nulla è fuori di esso. Tutto quello che esiste per gli altri, e qui « altri » significa, come vuole Natorp, il mondo reale, esiste anche per l’unità (155 E). Ma nella seconda ipotesi rimaneva, implicito il risultato della prima, era cioè l’unità supereessente che, in quanto pensata, ci dava il mondo delle idee. Prendiamo ora, dice Parmenide, il resultato della seconda ipotesi e consideriamolo in relazione a quello della prima che vi era implicito. Per la seconda ipotesi l’uno sarà uno e molteplice, per la prima non sarà nè uno nè molteplice, sarà cioè superiore all’esistenza. Ora, poiché essere, come abbiamo visto, significa sopratutto essere nel tempo ed è dalla partecipazione al tempo che si deduce la partecipazione all’essere, ci sarà necessariamente un momento in cui l’uno partecipa al tempo e un momento in cui l’uno non partecipa al tempo e, conseguentemente, un momento in cui l’uno è e un altro in cui l’uno non è. Non sarà possibile per l’unità partecipare all’essere che in due momenti distinti. Ci sarà dunque un tempo in cui l’unità è ed esiste come idealità e un tempo in cui non esiste come tale (155 E – 156 A). Si ricordi ora che l’uno della prima ipotesi era uno in quanto non partecipava a nessun essere delle idee e che, se di esso si diceva che non è, ciò significava e significa che non è il mondo ideale. D’altra parte era solo presupponendo questo non essere dell’unità che essa si poteva poi pensare come esistente. Il mondo ideale della seconda ipotesi è ideale in quanto è positività, cioè in quanto è presente in esso l’uno della prima. Ora Parmenide, dopo aver concluso che il mondo ideale esiste in quanto esiste in un tempo ideale, si chiede: come sarà possibile la partecipazione dell’unità a questo essere? Si è già visto che l’unità è in questo essere, appunto perchè il tempo non ha un valore empirico e se ha un valore ideale, è perchè in esso l’unità resta unità. Qui Parmenide divide dunque le due posizioni della prima e della seconda ipotesi e le pone una di fronte all’altra: l’unità di cui si parla ritorna assoluto non essere e, di fronte ad esso, si pone l’unità stessa ma in quanto pensata, cioè in quanto essere. La divisione tra i due mondi, già riuniti nella seconda ipotesi, è dunque solo possibile se il resultato di questa seconda ipotesi viene staccato nettamente dal resultato della prima che viene, a sua volta, presa come assolutamente isolata. La nuova posizione produce così un rovesciamento di termini. Accade che l’unità si trova di fronte ad un mondo perfetto che è stato possibile ed è possibile solo perchè l’unità si è posta come assoluta, ad un mondo perfetto però che ora si stacca da lei, in quanto può essere tutto ciò che lei non può essere. Si può in un certo senso mitologizzare il ragionamento per renderlo più chiaro. S’immagini un Dio come perfezione assoluta. Questo Dio crea un mondo perfetto e può crearlo solo in quanto si era perciò distinto già prima di crearlo dal mondo che poi creerà. Ora se, dopo la creazione, questo Dio si staccasse dal mondo che ha creato e ritornasse nella posizione primitiva, e facesse cioè ciò che fa Parmenide col suo ragionamento quando considera le due ipotesi separatamente, si troverebbe di fronte ad una realtà che si è straniata dalla sua unità, perfetta però come il suo creatore e quindi qualcosa di più del suo creatore, perchè mentre il creatore ritornando nella sua posizione non esiste, essa esiste in un tempo ideale. Allora il non essere del creatore non è più superesistenza ma piuttosto diventa un non essere di fronte a ciò che è. Il creatore non si trova più davanti alla sua creazione e nemmeno davanti a sè stesso. E se la sua creazione è tutta la realtà in quanto perfetta, il creatore diventerà non essere assoluto. Questa posizione ne gativa, in tutta la sua assolutezza, dell’unità, Parmenide la ritroverà fatalmente alla fine di tutta la sua deduzione, e cioè nella nona ipotesi. Nella quarta ipotesi l’unità sarà supposta di fronte agli altri, ma sarà l’unità in quanto esistente e cioè l’unità della seconda ipotesi. Nella quinta ipotesi l’unità sarà ancora posta di fronte agli altri, ma qui si intenderà l’unità come assoluta positività, l’unità risultata dalla prima ipotesi quando la seconda non era ancora dedotta. L’unità della quinta ipotesi non è, ma non è in quanto è positività, in quanto è il creatore. Ora Parmenide pone ancora una volta l’unità di fronte agli altri e cioè di fronte al mondo. E la pone come non essere. Come si deve intendere questo non essere se non il contrario assoluto della positività e cioè la negatività assoluta? Nella nona ipotesi gli altri sono considerati come il mondo: se l’uno sarà negatività, si dice, il mondo scomparirà nel nulla. E che cos’è la scomparsa del mondo se non il salire verso ciò che non è il mondo, verso l’idea? Non ha sempre detto Socrate che la vera realtà non è quella dei sensi? La vita del filosofo, come abbiamo visto nel Fedone, non è che un esercizio della morte, così nel Fedone l’idea era considerata superiore alla vita e solo con la morte raggiungibile. La vera musica è la filosofia, dice Socrate, ma la vera filosofia è un imparare a morire e l’assoluta e perfetta armonia si può ritrovare solo nella morte. Deduzione alternata delle ipotesi. — Il mondo perfetto della prima ipotesi è dunque il nulla assoluto, quando il creatore, dopo aver creato il mondo ideale, si stacca nuovamente da esso. Tutte le ipotesi, come sappiamo, hanno un’ipotesi contraria che rappresenta la loro negazione, e cioè il loro non essere. Ora potrebbe avere l’essere perfetto che ha creato il mondo ideale un termine negativo che gli si contrappone? Necessariamente questo ultimo grado nella scala dell’essere, questo nulla assoluto della nona ipotesi si dovrà identificare con l’unità perfetta della prima in quanto si è staccata dal mondo ideale che ha creato. Il nulla perfetto non può esistere perchè, come sappiamo, il non essere non è che un contrapposto dell’essere. Quando l’essere perfetto non è, non può avere un non essere che gli si contrappone, e quindi il nulla perfetto coinciderà col- l’assoluto bene. L’unità assoluta che ha creato il mondo delle idee, quando, dopo la sua creazione, viene nuovamente divisa, equivale al nulla assoluto della nona ipotesi. Ma anche il mondo ideale della seconda ipotesi subirà un mutamento quando di fronte a sè troverà il nulla. Esso non sarà più un mondo ideale perchè c’è qualcosa che non è che gli si contrappone: quello stesso essere che l’ha creato. Ed allora il mondo ideale si riaffermerà di fronte a questo nulla assoluto e se il suo creatore è diventato il nulla e la morte, questo mondo ideale diventerà la vita. La sua partecipazione all’essere avrà quindi un nuovo significato : « prendere parte all’essere non è forse quello che tu chiami nascere? )> — chiede Parmenide — « ed abbandonare l’essere
non è forse morire? ». « L’uno dunque assumendo e perdendo
l’essere nasce e muore » (156 A B). L’uno che muore
sarà l’uno della prima ipotesi nella sua nuova posizione,
cioè quella della nona ipotesi, l’uno che nasce sarà l’uno
della seconda ipotesi in una nuova posizione in cui il mondo
delle idee diventa mondo della realtà e cioè la posizione
della quarta ipotesi. L’unità si è quindi nuovamente spezzata
in due parti di cui una rappresenta il nulla e l’altra
la realtà ideale divenuta reale. C’è un mondo reale da una
parte in cui il tempo non ha più un valore ideale, ma è
diventato tempo reale; e, dall’altra, c’è il nulla della nona
ipotesi.
Per comprendere questo nulla nel suo pieno significato
è necessario avere presenti in qualche modo tutte le ipotesi
di Parmenide. Se il mondo delle idee è diventato realtà,
tutti i generi che in esso avevano valore ideale hanno assunto
un valore reale. E prima di tutti gli altri la molteplicità
ideale diventerà reale, i numeri ideali diventeranno
l’esperienza numerica della realtà. Siamo sempre nella quarta
ipotesi e cioè nella seconda diventata quarta. Ora questa
quarta ipotesi, appunto perchè è una trasformazione della
seconda, ci porterà ad una nuova posizione dell’unità come
esistente della seconda ipotesi ed anzi si determinerà in funzione
di questa nuova posizione ed in relazione ad essa. La
quarta ipotesi rappresenta il mondo reale e cioè gli altri di
fronte all’uno come esistente. Per questa ragione Parmenide
la porrà nei seguenti termini: se l’uno è (è nel senso noto
della seconda ipotesi) che cosa sono gli altri? E gli altri saranno
il mondo reale in quanto positivo. Ricordiamo ora di
che cosa è avvenuto quando alla fine della discussione sulla
seconda ipotesi si sono divise le due prime ipotesi l’ima dall’altra.
L’unità della prima, mitologicamente il creatore, si è
trovata di fronte ad un mondo perfetto che aveva acquistato
più realtà dello stesso creatore. Davanti a questa realtà la
prima ipotesi si trasformò nel nulla e cioè nella nona. Ora
la seconda ipotesi si è nuovamente trasformata e si è trasformata
da idea del mondo a mondo reale. Di fronte a
questo mondo reale l’unità della prima ipotesi si dovrà porre
in una nuova relazione e così, come la quarta ipotesi ci è
risultata da una nuova posizione della seconda, la quinta risulterà
da una nuova posizione della prima e come, più
precisamente, la quarta risultava dalla relazione dell’uno
in quanto ideale con gli altri, la quinta sarà il resultato dell’uno
in quanto unità superessente con gli altri. Necessariamente
allora, se il mondo reale, di fronte alla posizione della
seconda ipotesi e cioè al mondo ideale, poteva identificarsi
con esso, qui non si può più identificare con l’unità perfetta
e perciò di fronte a questa esso si presenterà come molteplicità
negativa, come mondo della doxa che può essere vero
ma può anche essere falso. Per questa ragione la quinta ipotesi
si enuncerà in questo modo: se l’uno è uno, distaccato
assolutamente dagli altri, questi che cosa saranno?
In questo modo davanti al mondo della, doxa l’uno ha
riacquistato la sua purezza unitaria e si è posto nuovamente
di fronte all’uno come esistente, il quale si è trasformato nel
mondo reale della quarta ipotesi. Il mondo della seconda
ipotesi assumerà così ancora un nuovo aspetto a causa del
nuovo resultato e cioè della quinta ipotesi. Il mondo ideale
troverà necessariamente in sè medesimo qualcosa di negativo
se l’unità come esistente, che pur contiene, ha reso possibile
un mondo della doxa. Questo si porrà contro il mondo delle
idee e le idee troveranno nel loro seno qualcosa che non sarà,
qualcosa che è il loro opposto e la loro negazione. Perciò
risulterà una nuova ipotesi, la sesta, in cui verrà dimostrato
che l’uno in quanto esistente e cioè il mondo ideale, ha
in se un suo contrario e quindi non è. Ne verrà di conseguenza
che le idee potranno corrompersi e negarsi, ed in
questa corruzione non potranno più trasformarsi nel mondo
reale, come dimostra l’ipotesi settima. E così, necessariamente,
il mondo reale della quarta ipotesi troverà un suo
non essere ed un suo contrario e comincerà a dirigersi verso
quella negazione di sè medesimo che conduce al nulla. L’ottava
ipotesi ci spiegherà così il corrompersi del mondo
reale, un corrompersi che, se arriva al nulla perfetto, ritorna
con la nona ipotesi nella prima e cioè all’assoluta positività
che, a sua volta, di fronte al mondo reale della
quarta ipotesi, come abbiamo visto, si pone come nulla
perfetto.
/7 continuo passaggio dalla prima alla seconda ipotesi.
— Nelle relazioni sopra considerate tra le varie ipotesi si
può notare un passaggio continuo dalla posizione della prima
e quella della seconda ipotesi. Una volta negata l’unità
assoluta ed affermata la sua esistenza, il pensiero e la
realtà non si possono più arrestare e devono necessariamente
giungere fino in fondo e porre tutte le altre ipotesi.
In questo senso aveva ben ragione il Natorp quando affermava
che già nella prima ipotesi era contenuta tutta una
teoria dell’esperienza. Ora si potrà mai arrestare questo
passaggio tra l’unità assoluta e le idee? Giunta alla fine
delle sue reazioni l’unità si trova nuovamente come nulla
a coincidere con sè stessa e cioè con sè stessa come positività,
non potendo l’assoluta positività, come abbiamo visto,
contenere in sè il suo contrario. Ma questa posizione è
quella della prima ipotesi che conduce fatalmente alla seconda
e quindi a tutte le altre. Una volta affermata l’unità
creatrice e una volta pensata l’unità creata, l’idea del bene
ed il mondo delle idee, una volta divisi poi queste due posizioni,
come fa Parmenide nella terza ipotesi, esse si do
vranno nuovamente ricongiungere. Questa ricongiunzione
non sarà però immobile e statica, ma sarà eterna, poiché
sempre l’unità reagirà alla nuova posizione della moltepli
🙂
cità che è stata da lei creata. Natorp aveva ben visto che
la terza ipotesi era una mediazione tra la prima e la seconda
come, del resto, Fouillée 2), che esprime il passaggio
tra la prima e la seconda ipotesi e la relazione con la terza
dicendo che la prima si pone come tesi, la seconda come
antitesi e la terza come sintesi. Anche per Hartmann 3) le
due tesi si pongono di fronte in questo senso. Lo Hartmann
vede giustamente che il problema centrale del dialogo è
quello della relazione tra idea e mondo reale per cui da
una parte si pone una concezione delle idee che possa conciliarsi
con la realtà, e dall’altra una concezione di questa
tale che essa possa partecipare alle idee. Per Hartmann la
partecipazione avviene per mezzo della terza ipotesi e cioè
nell’incontro tra il movimento e il riposo, nel concetto dell’istantaneità
i). Per mezzo di questa « metabolè » tutte le
idee pure passano all’esistenza così come noi abbiamo cercato
di far vedere 5). Se l’idea esce dalla sua fissità, essa si
pone in una relazione infinita con il mondo del pensiero, in
modo che poi, a poco a poco, relazione per relazione, si
svolge dall’idea il mondo dell’esistenza concreta. Anche il
6)
Wahl non ci sembra tanto lontano da una interpretazione
come la nostra, se egli può paragonare, come giustamente
fa, la realtà della terza ipotesi con l’intuizione del « Keraunòs
» eracliteo che governa il mondo. Il Wahl vede nella
terza ipotesi un eco delle più profonde dottrine di Efeso:
1) N ATORP: Op. cit. Pag. 260.
2) F OUILLÉE: La philosophie de Platon. Paris 1888. Vol. I,
Pag. 264 e segg.
3) N. H ARTMANN: Piatos Logik des Seins. Giessen. 1909
Pag. 332 e segg.
4) N. H ARTMANN: Op. cit. Pag. 355-358.
5) N. H ARTMANN: Op. cit. Pag. 360 e segg.
6) W AHL: Op. cit. Pagg. 170-171.
in questo modo egli sembra accettare le interpretazioni
kantiane, per cui la terza ipotesi si potrebbe considerare
come (( il passaggio continuo dalla prima alla seconda ipo
tesi e dalla seconda alla prima » e cioè proprio quello che
noi abbiamo cercato di far vedere.
Kirkegaard osserva, a proposito del Parmenide, che
l)
l’istante « è il non essere nella categoria del tempo » e
diventa « la tipica categoria di passaggio (metabolé) » tra
l’uno e il molteplice e tra tutti gli opposti 🙂 per cui è possibile
attribuire « il suo senso all’eternità, eternità ed istante
divenendo i termini estremi di una contraddizione » 3),
contraddizione che fonda per noi la realtà trascendentale
della terza ipotesi che trascende appunto nella sua medietà
ogni termine contradditorio.
« Uno dunque e molteplice — dice Parmenide — nascente
e soggetto alla morte, forse che la sua nascita come
uno non è la sua morte come molteplice, e la sua nascita
come molteplice non è la sua morte come uno »? (156 B).
L’unità nasce come unità ma quando, come molteplice,
muore, quando il mondo molteplice è sceso in tutte le sue
differenziazioni dialettiche fino al nulla. Questo nulla, come
sappiamo, non può restare in sè stesso, perchè coincide
con la positività assoluta e quindi si muove e crea la seconda
ipotesi da cui successivamente si stacca. Dopo questo
suo nuovo distacco l’uno, che come molteplice è morto,
si trova, in virtù di tutto il giro dialettico che ha compiuto
interamente, in una posizione nuova per cui si può dire che
nasce quando il molteplice, che è di fronte a lui, si nega e
muore. Ma questa morte, proprio perchè è determinata
dalla nascita dell’uno, è una morte che rappresenta la vita
stessa del molteplice: infatti l’unità, a sua volta, morirà,
quando creerà un mondo perfetto, perchè distaccandosi da
1) S. K IRKEGAARD: Le concept de l’angoisse. Paris, 1935,
pag. 121.
2) S. K IRKEGAARD: Op. cil. pag. 122.
3) S. K IRKEGAARD: Op. cit. pag. 123.
esso, si troverà ancora nel nulla, ed allora nascerà come
molteplice della sua morte come unità.
Non si dimentichi che è principalmente sull’argomento
dell’« antapodosis » che Socrate basava, nel Fedone, la sua
convinzione sulla immortalità dell’anima. Mitologizzando il
ragionamento si potrebbe dire che il Dio creatore non può
creare una volta tanto, ma è costretto, quando ha creato, a
morire e a rinascere continuamente e a ricrearsi perciò in
ogni istante. « Quando l’unità si muove e poi si immobilizza
— dice Parmenide — e quando essendo immobile poi si
muove; ciò, certamente, non lo può fare che in un momento
in cui non è in nessun tempo ». L’uno non potrà senza mutarsi
passare in due stati diversi. « Ma non c’è però nessun
tempo in cui un medesimo essere, possa, nel medesimo tempo
non essere in movimento nè immobile ». « Eppure se deve
mutare si deve pur mutare in qualche modo ». « Quand’è
dunque che esso muta la sua posizione? » « Certamente
non è quando è nel tempo ». « Non è dunque in una strana
posizione che bisognerà dire che è quando esso muta? (156
C D) (( In quale posizione? » — Chiede il giovane Aristotele
—. « Nell’istantaneo » (cxaifnes) — risponde Parmenide
—. « Questo è infatti il vero significato dell’istantaneo:
esso è il punto di partenza di due diversi cambiamenti
». « Questa strana natura dell’istantaneo, posta nell’intervallo
del movimento e dell’immobilità, fuori di ogni
tempo, è giustamente il punto d’arrivo e il punto di partenza
per quello del mobile che passa al riposo come per
quello dell’immobile che passa al movimento » (156 E).
Al di sopra delle due correnti eterne siamo perciò in una
posizione di correlatività assoluta, trascendentale rispetto
al movimento ed alla stasi, al divenire e all’eternità, all’unità
e alla molteplicità. « Quando sta per passare dall’uno
al molteplice e dal molteplice all’uno, non è nè unità nè
molteplicità e non si divide nè si riunisce » (157 A). « Analogamente
nel suo passaggio dal simile al dissimile, essa
non è nè simile nè dissimile, nè assimilazione nè disintegra
zinne. Che dal piccolo vada al grande ed all’eguale o inversamente,
essa non sarà, in questo tempo, nè piccola,
nè grande, nè uguale, nè crescente nè decrescente, nè in
atto di uguagliarsi » (157 B).
Il senso della legge trascendentale. — Se dunque è possibile
ritrovare nel pensiero platonico il concetto di una
legge trascendentale applicando ad esso le esperienze dello
sviluppo del pensiero filosofico occidentale — e ciò è inevitabile
se il nostro Platone deve essere il Platone vivo nelle
aporie del nostro pensiero —• quella legge non la si trova
negando il senso ontologico dell’idea. Vedremo in seguito,
a proposito del Sofista, il possibile accordo dell’ontologismo
con un vero idealismo. Qui si vuol notare che tutta la
complessa problematica della antinomia dell’uno e del molteplice,
ritrovata nei dialoghi precedenti il Parmenide ed
espressosi nel Simposio come creazione, si è risolta nella
terza ipotesi in cui la dialettica alternata dell’essere e del
non essere ha dedotto dalla correlazione dell’uno e del molteplice
tutti i possibili punti di vista da cui il pensiero deve
considerare il reale.
Le due grandi correnti dell’ideale e del reale, del pensiero
e dell’esistente, della sostanza pensante e della sostanza
estesa, dell’eternità del tempo e del divenire empirico,
non si pongono in una immobile e statica opposizione,
ma si trascendono nel loro continuo correlativizzarsi l’una
all’altra, nell’inesauribile dinamicità che le pone continuamente
e continuamente le unifica in quell’atto pensante in
cui veramente si esprime, come lotta tra il nulla ed il tutto,
la tensione vivente del pensiero. Poiché solo così l’attività
teoretica può vivere la sua vita profonda ed esprimersi come
anima di tutte le cose in movimento eterno su sè stessa
(Fedro 245 C), e non « rimanersene là, solenne e sacra »
ma privata così della stessa intelligenza (Sofista 249 A).
Il pensiero — dirà più tardi Aristotele nel famoso passo
(Met. XI, 7) che chiude l’Enciclopedia di Hegel — pensa
sè stesso accogliendo in sè il suo pensato; l’idea, eterna in
sè e per sè, si attua e si produce Dinamismo trascendentale
dunque che qui si esprime nella correlatività dei termini
essere e non essere, correlatività che nelle sue possibili
posizioni pone il senso delle varie ipotesi come i necessari
movimenti dialettici che il pensiero continuamente percorre
nel suo cammino. Sensi dell’essere — quelli delle varie
ipotesi — che non sono dati dommaticamente ma posti
dal pensiero come sue necessarie determinazioni, posti come
i « pensati » dalla legge trascendentale e quindi come la
vera razionalità del mondo. Perchè il Dio trascendente della
prima ipotesi non è il sogno irrazionale dell’esperienza mistica,
ma l’unità che il pensiero deve necessariamente pensare
nell’opporre l’uno parmenideo alla molteplicità del
mondo; il mondo delle idee non è il fissarsi dommatico dei
concetti raggiunti dall’induzione, ma il costituirsi del molteplice
nell’armonia ideale; perchè il mondo della realtà
empirica, lo stesso mondo fisico, di cui si parlerà nelle ipotesi
seguenti, non è il mondo che dommaticamente viene
accettato dalla sensazione ma un senso dell’essere posto
dal pensiero e costituito da una necessaria correlazione di
questo.
Così si risolvono le difficoltà della prima parte del dialogo,
sviluppando in legge trascendentale l’esercizio dialettico
a cui l’Eleate invitava il giovane Socrate. Non la teoria
delle idee cade nella discussione di Parmenide ma ogni
sua possibile interpretazione dogmatica.
In questa terza ipotesi converge dunque il senso del
platonismo. Per essa si giustifica quella metafisica dell’apprendere
che Stenzel ha così bene posto in luce a proposito
del Menone 2), in cui tutti gli opposti, « sapere e non sapere,
immortalità e mortalità » trapassano l’uno nell’altro ed attuano
« il concetto della vera vita dello spirito » 3). Per
ir) HEGEL: Enciclopedia III Bari, 1923, Pag. 512.
2) STENZEL: Platone educatore. Bari, 1936, Pag. 90 e segg.
3) STENZEL: Op. cit. Pag. 170.
tanto non bisogna confondere questa metafisica del conoscere
che domina in tutta la maieutica socratica con la dialettica
del Parmenide. La maieutica è essenzialmente metodo
che spinge il discente a superare ogni parziale sapere
dommatico, la dialettica discendente tende invece a ricollegare
logicamente quei vari momenti del sapere, che il metodo
ha considerato parziali, per presentarli come necessari
sensi della realtà pensati dalla correlatività trascendentale.
Il metodo maieutico, guidato dalla stessa legge, potrebbe
meglio dirsi una fenomenologia del conoscere mentre
la dialettica è piuttosto una logica dell’essere. Là dove
la maieutica agisce tutto viene superato, dove si esplica la
dialettica del Parmenide tutto si ripone al suo giusto posto.
Perciò bisognava cercare nei dialoghi precedenti il Parmenide
il disporsi dialettico di quei sensi dell’essere che,
da un punto di vista puramente socratico, vengono spesso
negati. Questa ricerca di una dialettica ascendente positiva
è proprio quella che da noi è stata compiuta in quei dialoghi
in cui il tono maieutico negativo si sovrappone spesso
all’ascesa dialettica dei gradi dell’essere. Questa confusione
tra metodo e filosofia dell’essere, tra fenomenologia del conoscere
e teoria dell’essere, tra la negazione socratica necessaria
a guidare il pensiero ad un punto essenzialmente
antidogmatico e la correlatività essere e non essere in cui
si esplica la vita positiva della ragione; questa confusione
dunque, doveva sparire una volta compiuta la discussione
del Parmenide, ed a Platone doveva presentarsi nella sua
vera luce il senso del metodo socratico. Non si dimentichi
che se noi, per abitudine, chiamiamo maieutico il metodo
dei dialoghi precedenti il Parmenide, tuttavia è solo nel Tee
teto che Platone parla per la prima volta di una maieutica
socratica e di essa svolge l’intera teoria, che sarà appunto,
come vedremo, la teoria di una fenomenologia del conoscere.
Non si rischia di esagerare troppo dunque affermando
che il metodo di studio da noi usato, il quale prenderà in
considerazione il problema del metodo, che pur si attua fin
dai primi dialoghi, solo dopo la discussione del Parmenide,
e cioè dopo aver condotto le parziali posizioni dialettiche di
quelli all’unità del nostro dialogo, procede in accordo col
movimento del pensiero di Platone.
La terza ipotesi non è solo dunque la legge della conoscenza
del reale e cioè la correlatività che pone le varie
ipotesi del Parmenide, ma si rivelerà altresì, e lo vedremo
nel Teeteto, come la legge del pensiero che dalle sue primitive
posizioni dommatiche tende via via a conquistarsi la
propria libertà: in questo modo la dialettica ascendente si
presenterà come un superare continuo quei varii sensi dell’essere
in cui il pensiero si muove, ponendo in luce l’impossibilità
per il pensiero di fissarsi in uno solo di essi,
dogmaticcizzando così in una sola direzione la dinamicità
del suo movimento, in una sola ipotesi, l’incontrarsi eterno
di tutte in questa terza ipotesi che, in quanto tutte le trascende,
si pone altresì come il loro centro.
Platone svilupperà questo concetto della centralità come
mediazione tra gli opposti. La stessa teoria dell’amore
assume tutto il suo valore proprio da questo punto di vista
l), dove l’amore crea nel bello conducendo il non essere
all’esistenza. Non insistiamo su questo risolversi della legge
trascendentale nel concetto di creazione già considerato a
proposito del Simposio. Si ricordi che il mondo empirico o
il mondo reale verso cui ora ci portano le ipotesi del Parmenide
trova logicamente posto dopo quetsa terza ipotesi,
dopo cioè che i due opposti idea e fusis, spirito e materia,
pensiero ed estensione, si sono fusi nella legge che li media
e li unifica nella sua istantaneità, nella sua trascendenza
all’eternità e al divenire del tempo, per cui veramente si
può dire che il pensiero è il creatore del mondo.
1) S TENZEL: Op. cit. Pagg. 133, 151, 170, 174.
LA QUARTA IPOTESI.
Il mondo del reale ed il metodo diairetico. — Parmenide
ritorna ora, come sappiamo, alla seconda ipotesi e
la considera di fronte al mondo creato per mezzo della
terza ipotesi, e cioè di fronte agli altri. Se questi sono altri
dall’uno, non possono essere l’unità (157 B). Però questi
altri, se sono tali, lo sono in quanto sono parti di un
tutto e qui perciò l’unità diventa l’unificazione dei molteplici
reali in una realtà unica (157 C). « La parte non
sarà, dunque, una parte della pluralità nè di tutti i suoi
componenti, ma di una certa idea unica, che noi chiamiamo
tutto, il quale forma un’unità perfetta, ed è di questa che
la parte sarà parte » (157 E). In questo modo se gli altri
hanno parti, partecipano pure al tutto ed all’uno. È chiaro
che qui si spiega in che modo la molteplicità reale possa
partecipare all’unità. Ma si noti che quest’unità è un’idea,
non solò*” in quanto idea, ma in quanto partecipante alla
realizzazione e che gli altri sono altrettante idee che hanno
una realtà. La partecipazione dunque con il mondo ideale
in quanto tale, e cioè con la seconda ipotesi, non è qui considerata,
perchè questa avviene nel momento della creazione
ed è pensata dal pensiero come creatore, cioè dal pensiero
nella sua posizione filosofica pura. È chiaro che non si
può spiegare totalmente la realtà se non si mette in relazione
una realtà particolare con tutta la realtà ideale e quindi
anche con tutta la realtà particolare. Necessariamente
dunque la partecipazione di cui qui si parla non permetterà
una conoscenza di carattere filosofico, ma una conoscenza
della realtà in come tale che si ottiene, prima di tutto, in
quanto si scorge in ogni molteplicità di idee l’unità di
un’unica idea.
Parmenide prosegue nelle sue deduzioni e nota che,
per partecipare all’uno, bisogna essere qualcosa di differente
dall’uno, ora, in questo modo, riaffermatasi l’unità
come unità, tanto il tutto come le parti dovranno partecipare
ad essa. Così l’unità e la molteplicità antecedentemente
trovate si porranno come una nuova molteplicità racchiusa
dall’unità (158 B). Sviluppando il suo ragionamento Parmenide
prende le due posizioni trovate e le mette di fronte.
In questo modo l’unità rimarrà sempre estranea alla molteplicità,
perchè quando si identifica con questa, nasce una
nuova unità ed allora ci sarà « una moltitudine di cose in
cui non si trova l’uno » (158 C). « Considerando sempre
così in maniera assoluta la natura estranea all’idea, tutto
ciò che vi scopriremo non sarà sempre infinitamente molteplice?
» (cit. 158 C).
Le relazioni tra altri e molteplicità, qui stabilite da
Parmenide, sono le relazioni possibili tra le idee in quanto
reali. D’altra parte bisogna notare che queste relazioni è
stato possibile determinarle solo pensando all’unità come
esistente della seconda ipotesi. Questa unità in quanto tale
rimarrà sempre idea, pensato, o meglio essere come pensato.
L’unità si pone qui come unificatrice in quanto è affermata
la sua esistenza, in quanto si dice che è. Si sale dunque
dal mondo reale, quando si determinano in esso le sue
relazioni logiche, al mondo ideale, con cui si prende contatto
mediante l’idea dell’essere come unità. Anche qui il
pensiero può pensare il reale solo in quanto non perde il
contatto con la sua posizione filosofica precedentemente
stabilita. Quando si dice: il letto è, in questo « è » c’è la
sintesi di tutto il metodo ascendente della dialettica filosofica
che è arrivato a porsi, prima come unità, poi come pensato
e quindi come essere. Tenendo conto che con la quarta
ipotesi siamo nel mondo della realtà, possiamo dire che in
essa l’unità ideale non si realizza, ma è presente continuamente
tutte le volte che la realtà viene conosciuta e quindi
pensata. Così le idee del bello, del buono e del vero, non si
realizzeranno ma saranno sempre presenti in quanto permetteranno,
o meglio saranno la garanzia di ogni giudizio.
Per Platone dire « è » significa dire « è buono », ed « è »
anche tutte quelle altre determinazioni che costituiscono la
positività dell’uno. Siamo qui di fronte ad uno dei principi
fondamentali del pensiero platonico : non si può conoscere la
realtà se non si conocse la sua positività e il reale si conosce
solo quando si conosce il bene. Naturalmente si parlerà
dell’idea del bene, ma, se se ne potrà parlare, è per il suo
essere ontologico a cui ci avvicina il mito dell’anamnesis.
Quelle determinazioni positive non sono che l’idea dell’unità
la quale non si può conoscere in questo mondo, ma che
si è conosciuta nell’altro. Qui la riconosciamo quandomolteplici ci danno l’occasione di ricordarla. La positività
è sempre presente in ogni giudizio, come se noi ci ricordassimo
di lei e non in quanto noi la pensiamo, ed è logico,
perchè in quanto il pensiero pensa un oggetto non si conosce
come pensante, ma si adegua all’oggetto e solo quando
dice « è », si pone in continua relazione con il mondo reale
e, conseguentemente, ogni giudizio sarà perciò un giudizio
esistenziale.
Noi abbiamo detto che la realtà si conosce per mezzo
del metodo diairetico: ora si vede chiaramente perchè abbiamo
sostenuto che anche nel metodo diairetico c’è una
dialettica ascendente. È proprio questa che fa sì che anche
la conoscenza empirica sia pensiero e che rende possibile
dire di ogni reale « è quello che è ». Così nel Sofista lo
Straniero Eleate quando userà il metodo diairetico affermerà
continuamente di ogni idea trovata « è », in contrapposto
a « non è )). Questo « non è » significa non essere
quello che si è e cioè l’altro e non il medesimo, nel senso
che sarà chiaramente spiegato dal Sofista.
Le relazioni trovate da Parmenide nei passi antecedentemente
esaminati sono poi, come si può vedere facilmente,
basate sullo stesso principio su cui si basa ogni ragionamento
e cioè sulla contrapposizione tra la prima e la seconda
ipotesi, tra l’unità e la molteplicità, e quindi sulla legge
trascendentale. Ora le relazioni di cui stiamo parlando sono,
per noi, le stesse su cui si muove il metodo diairetico.
Ciò significa che anche la conoscenza empirica della realtà
è basata, logicamente, sulla stessa legge su cui si muove
tutto il reale.
Troviamo dunque, concludendo, nella quarta ipotesi,
la determinazione della realtà in quanto conoscibile dal
metodo diairetico ed in quanto perciò realtà del mondo,
della fusis ‘). Ci resta da vedere la corrispondenza tra le
relazioni trovate da Parmenide e le leggi che regolano il metodo
discendente della conoscenza diairetica. Se si prendono
i passi sopracitati si potrà vedere che Parmenide arriva a
quattro conclusioni differenti:
I. — Gli altri partecipano all’unità ma sono da essa
differenti; questa dunque unifica gli altri che restano differenti
l’uno dall’altro (157 B C).
II. — La parte è parte non di una pluralità ma di
un’idea unica: la parte fa dunque parte di un’idea che resta
unica pur avendo parti (157 E).
III. — Gli altri sono una molteplicità racchiusa dall’unità
(158 B).
IV. — Gli altri sono una molteplicità infinita (158 C).
Si prenda ora il passo del Sofista 253 D, che ha dato
tanto da fare agli studiosi “). Lo Stenzel lo spiega dimostrando
che il metodo diairetico si basa essenzialmente su di esso.
Noi lo spieghiamo mettendolo in relazione con i passi del
Parmenide in questione: in questo senso, tenendo conto
di tutto quello che si è notato sul metodo diairetico, possiamo
accordare la nostra interpretazione con quella dello Stenzel.
Nel passo del Sofista 253 D troviamo quattro posizioni
di cui la prima coincide con la prima dei passi del Parmenide,
la terza con la seconda, la seconda con la terza, e la
quarta con la quarta. Traduco il passo, che è di difficile
1) S TENZEL: Studien. cit. Pag. 81-82, dove si dimostra che la
diairesis si orienta verso gli oggetti esistenti in natura.
2) Si veda la nota su Stenzel nel nostro capitolo dedicato
al Fedro.
interpretazione, accettando il testo accettato dallo Stenzel:
« Dunque colui che è capace di far ciò (di esercitare la dialettica),
è abbastanza accorto per notare: I.) un’unica idea,
divisa in ogni parte, attraverso molte, di cui ciascuna resta
una separatamente; II.) molte idee, differenti l’una dall’altra,
racchiuse dal di fuori da una sola idea; III.) un’unica
idea che resta unica pur entrando in una pluralità di idee,
ed infine IV.) una molteplicità di idee divise l’una dall’altra
» ‘).
Diaìresis limite e somiglianza. — Procedendo nella discussione
Parmenide dovrebbe esaminare il mondo della
realtà da tutti i punti di vista da cui ha esaminato il mondo
delle idee. Egli si limita però a discutere la posizione degli
altri rispetto al limite e all’illimitato e la loro posizione di
fronte alla somiglianza ed alla dissomiglianza, perchè queste
posizioni, supponiamo, contribuiscono a spiegare come
sia possibile la conocsenza della realtà per mezzo della diaìresis.
In quanto molteplicità mancante dell’unità gli altri
sono illimitati e quindi infiniti. Quella che Stenzel chiama
l’idea atomo Parmenide ci dimostra che non è possibile se
non in una mediazione tra l’unità e la molteplicità. Se si
sceglie, mentalmente, una piccola parte del motleplice, si
potrà sempre, proprio perchè la realtà si è concepita in una
molteplicità infinita, proseguire la divisione. Infatti l’idea
che così abbiamo isolato dalle altre, « non avendo alcuna
parte all’uno, sarà ancora necessariamente molteplicità »
(158 C). È chiaro che qui si allude direttamente al metodo
diairetico e precisamente al processo dialettico per cui si
cerca attraverso una molteplicità un’idea. Parmenide dice
che la ricerca di per sè stessa potrebbe essere infinita, dato
che un’idea è in infinita relazione con le altre. Considerata
1) STENZEL: Studien, Cit. Pag. 63. Ritorneremo su questo
passo a proposito del Sofista.
isolatamente dall’unità di un’idea la molteplicità non ha
limiti, e quindi il metodo diairetico non riuscirebbe mai
a trovare l’idea che cerca in una molteplicità. Però una posizione
di questo genere è, presa isolatamente, assurda,
infatti, dice Parmenide, « in quanto ciascuna parte diviene
una parte, essa viene limitata dalle altre e dal tutto, come
il tutto, a sua volta è limitato dalle parti » (158 D). Avviene
così che la diairesis, dividendo idea da idea, pone un limite
in ciò che per sua natura è illimitato, poiché le parti dovranno
necessariamente man mano che. si formano per
divisione, formarsi nell’interno di un’unità che rende possibile
la divisione stessa. Riportiamo lo stesso esempio già
usato nella nostra discussione sul Fedro citando ciò che si
è già detto: « se si tratta di trovare l’idea del pescatore di
lenza, ci troveremo di fronte a questo problema; se esiste
l’idea della caccia (cfr. Sof. 219 E e segg.) esistono altre
due idee, e cioè quella della caccia al genere animato e
quella della caccia al genere inanimato; accettata la prima
e trovata un’unità saremo obbligati a dividere ancora la
caccia al genere animato in caccia agli animali pedigradi
e in caccia ai nuotatori; accettata la seconda dovremo dividere
ancora. Ma si noti bene, con quale criterio si sceglie
la caccia ai nuotatori e con quella agli animali pedigradi?
Perchè si tiene presente un’unità già precedentemente stabilita
quando si pose la ricerca come ricerca di un pescatore.
È quindi un’unità che rende possibile la divisione, altrimenti
noi non sapremmo se procedere da una parte oppure
dall’altra e cioè non sapremmo più dividere. Se si divide
si divide in quanto si compie l’azione su un’idea unica.
E si noti che man mano che si risale dall’idea trovata al
punto di partenza i generi diminuiscono in comprensione
ed aumentano in estensione per cui, prima della “caccia, ci
troveremo di fronte all’idea di cattura, la quale è più estesa
perchè ci può essere cattura per caccia e cattura per
lotta. Così di seguito, finché arriveremo all’idea di arte che
è quello che è ». Per trovarla si suppone compiuta una
ricerca diairetica. Se però si procedesse ancora in avanti
ci troveremmo nella necessità di cercare l’idea dell’essere
e qui saremmo in piena ricerca filosofica. In questo modo
il metodo diairetico raggiunge il metodo filosofico
Parmenide esprime ciò che si è spiegato in questo modo
: « gli altri dall’uno, sia nel tutto che nelle parti, vengono
ad essere così illimitati e limitati » (158 D). In quanto
gli altri sono limitati e illimitati, dice ancora Parmenide, essi
sono simili e dissimili a sè medesimi e l’uno rispetto all’altro
(158 E – 159 A). Si noti che i concetti di somiglianza e di
dissomiglianza sono qui in una posizione completamente
nuova. Le idee a cui corrisponde una realtà sono simili e
dissimili nel senso che sono unificabili in una « sumplokè
eidòn ». Un’idea è simile ad un’altra in quanto può, come
questa, essere compresa quale specie di un genere superiore.
Il mondo reale che attraverso le idee si conosce, in
quanto è molteplice ed uno, limitato ed illimitato e simile
e dissimile, si troverà poi, conseguentemente, in una opposizione
di fronte a tutte le idee di questo genere in quanto
queste assumono una realtà. Perciò sarà possibile alle idee
in quanto reali di partecipare a tutte « le opposte affezioni
escogitabili » (159 B). Nella realtà il movimento, per esempio,
ed il tempo assumeranno valori nuovi, che sono quelli
appunto presenti nel mondo reale come tale e come tale
pensato. Il tempo sarà infinito eppure finito e così sarà
dello spazio. Sarebbe facile applicare il ragionamento a
tutte le idee e perciò Parmenide termina la sua discussione
sulla quarta ipotesi.
1) Così, dallo stesso punto di vista, la diairesis si riconcilia,
per lo stesso Stenzel, con quella che lo studioso tedesco aveva
chiamato prima maniera di Platone e divisa da quella seguente
alla Repubblica. Si ricordi la critica da noi compiuta a proposito
del Fedro, a questa divisione. Stenzel stesso nota a pag. 84: « a
questo punto, alla premessa fondamentale di tutto il nostro lavoro
(cioè la divisione del pensiero platonico in due periodi) bisogna
aggiungere di proposito il seguente fatto: appare qui che
Platone non ha mai abbandonato la sua posizione socratica ».
LA QUINTA IPOTESI.
Nelle false luci del crepuscolo il mondo della realtà si
vede e non si vede e se può essere riconosciuto come reale
può anche svanire nell’ombra. Allora non si può più ritrovare
l’unità nei molteplici e cioè conoscere diaireticamente
gli oggetti, perchè senza l’unità, non è possibile,
come sappiamo, la divisione. Ora l’unità era nella sua massima
estensione l’essere stesso come esistente. Nella nuova
posizione della quinta ipotesi l’essere si porrà dunque come
diviso dal mondo, come assoluto e perfetto.
Tutte le volte che si è fissato lo sguardo sulla perfezione
divina il mondo reale è sempre diventato una valle
di lacrime. Così sarà proprio la perfezione assoluta quella
che permetterà l’errore. Il mondo che la quinta ipotesi ci
presenta è il mondo della doxa, non nella sua negatività
assoluta, ma nella sua posizione intermedia. Esso può essere
organizzabile ed allora è vero, può essere fantasia ed
opinione, ed allora potrà essere vero ma anche falso. In
questo mondo, dice Parmenide, l’uno e gli altri non sono
mai insieme perchè l’unità in quanto assoluta non può avere
parti (159 C). « L’uno non sarà dunque gli altri nè per il
suo tutto, nè per le sue parti » (cit. 159 C) e così gli altri
non potranno partecipare all’uno (159 D). Essi non sono
così unificabili ma, appunto per questo, non sono una vera
molteplicità (cit. 159 D). Come tali non saranno nè simili
nè dissimili, nè mobili nè immobili (159 E-160 A). Non potranno
nemmeno nascere e morire (160 A). Si noti qui come
viene sottolineata la impossibilità del mondo imperfetto della
doxa di partecipare alla creazione che avviene solo nel
perfetto e cioè con la presenza dell’unità. Questa, presa nel
suo insieme, nelle cinque ipotesi considerate, si è rivelata
come unità e come non unità, sempre in equilibrio instabile
tra la prima e la seconda ipotesi. L’unione delle prime due
ipotesi con la terza e la quarta e la loro interdipendenza vie
ne sottolineata da Parmenide in un passo di grande importanza
perchè in esso si chiarisce il concetto di « altri » quale
è usato nel Parmenide, in maniera inequivocabile. Gli altri
delle prime due ipotesi erano, come sappiamo, l’unità in
quanto pensata o non pensata, nelle ultime due gli altri sono
il mondo reale. Perciò Parmenide concluderà: « così l’uno
se è, sia di fronte a sè medesimo, sia di fronte agli altri, è
tutto e nel medesimo tempo non è uno » (160 B). Non si
dimentichi in ogni modo che gli altri della seconda ipotesi,
in quanto idee, erano potenzialmente gli altri del mondo
reale.
Con la conclusione citata di Parmenide la quinta ipotesi
ci introduce verso un nuovo campo, quello del non essere.
Ed è logico, se essa rappresenta il mondo della doxa,
che è e che non è. In quanto è esso diventa opinione, sensazione
e fantasia vera e forma delle idee conoscibili dal
metodo diairetico, in quanto non è si dirige sempre più
verso il non essere.
LA SESTA IPOTESI.
L’errore ed il non essere delle idee. — Siamo dunque
entrati, attraverso la quinta ipotesi, nel problema del non
essere. Si è detto che se la molteplicità rimane tale e non
viene unificata essa diventa inconoscibile ed irreale. Il metodo
diairetico non può più quindi esplicare la sua funzione
conoscitiva. Ma come può il metodo diairetico in
quanto tale essere impossibile? Esso si basa su una realtà
ideale, quindi dovrebbe sempre avere un valore positivo,
e poiché rende veri gli oggetti della doxa che divengono
idee trovate per mezzo della divisione, anche la doxa se
è doxa e se, come si vede, è in comunicazione con il
mondo ideale, deve essere sempre vera, in quanto viene
resa tale dal logos Il Teeteto porrà con chiarezza pro-
i) S TENZEL: Op. cit. Pag. 73-74.
prio questo problema: come si può formare un’opinione
falsa? (cfr. Teet. 187 D e segg.). Sapere quello che non si
sa e non sapere quello che si sa sono cose impossibili (187 B).
Come si è visto essendo la doxa in comunicazione con la
diairesis, il problema riguarda anche quest’ultima. Ma il
metodo diairetico noi sappiamo che è possibile solo in quanto
c’è in esso una congiunzione ascendente con l’essere. È
logico quindi che Socrate nel Teeteto prosegua in questo
modo : « bisognerà forse non dirigere la nostra ricerca da
questo punto di vista, ma, invece di badare all’opposizione
tra sapere e non sapere tener conto invece di quella dell’essere
e del non essere? » (T88 C D). Però si dice più innanzi
che « giudicare falso è diverso dal giudicare una cosa che
non è » (189 B) perchè « chi giudica ciò che non è non giudica
affatto » (189 A). Ora sono impliciti qui due problemi:
il primo, che il giudizio in quanto giudizio non
può essere che vero, come abbiamo visto, perchè per Platone
non è possibile conoscere che ciò che ha un valore positivo.
Il secondo è che è necessario che l’opinione falsa si
generi con un atto mentale che non è il giudicare, e che
non è quindi nemmeno doxa o rappresentazione. Il richiamo
al non essere ha un valore concreto nel senso che il problema
dell’errore non si può risolvere, come sappiamo dal
Sofista, se non risolvendo il problema del non essere. Risolvere
quest’ultimo problema significa riconoscere in qualche
modo che il non essere è. Conseguentemente l’essere positivo
ed ideale in quanto esistente può avere in sè un elemento
negativo che è altro da esso e che è ad esso contrario.
Perciò Parmenide dovrà ritornare sulla seconda ipotesi
e dimostrare che in essa è possibile un non essere, che il
non essere può cioè avere un’esistenza in quanto opposizione
all’essere. Se nel mondo ideale c’è un elemento negativo
allora esso non sarà più ideale e cioè positivo, non
sarà allora più possibile la creazione, e quindi alle idee non
corrisponderà più una realtà. Questo significa precisamente
che il metodo diairetico può non essere valido e che l’errore
è possibile. Stenzel dice molto giustamente : « un solo errore
nella parte giusta della divisione, uno scambio dell’
« 011 » col « mé 011 )), rende il logos errato ed apporta al
concetto ricercato falsi predicati, aggiunge cioè all’oggetto
un « altro » predicato, quello appunto che non è »1). Il
metodo diairetico può quindi errare e non essere cioè più
un metodo, in quanto nella divisione è possibile uno scambio
tra l’essere e il non essere. Ora noi sappiamo il valore
che ha questo essere come idea superiore a cui tutto il processo
di divisione è legato. Esso è l’essere del mondo ideale
in quanto esistente. Il metodo diairetico perciò non fa che
ricercare nell’unità e nella molteplicità ideali unite, come si
sa, nel pensato, quella determinata idea di cui ha bisogno.
Per far questo sceglie le vie che servono per stabilire le relazioni
tra le idee e le relazioni di queste con l’essere. Se il
metodo diairetico è possibile, è dunque possibile in quanto
c’è una reale connessione tra le idee esistenti ontologicamente
come pensate. Se ad un certo punto si scambia l’essere
col non essere, questo può essere possibile solo se tra
le idee ontologicamente esistenti sono possibili delle relazioni
false, se cioè invece di porsi esse come altri in unione
con l’uno si pongono come altri in opposizione con l’uno.
Svolgimento della discussione. — Parmenide ricomincia
la discussione facendo notare che altro è dire che l’uno non
è, altro è dire che il non uno non è. Per non uno s’intende
qui il molteplice inteso come gli altri, cioè come il mondo
sensibile. Parmenide vuol far notare che la discussione della
sesta ipotesi non riguarda gli altri, e cioè il mondo reale,
ma riguarda l’uno in quanto esistente. La formula « se l’uno
non è » intende perciò con la sua negazione non negare gli
altri ma negare l’unità quale era stata posta nella seconda
ipotesi (160 C D). Subito dopo a Parmenide interessa notare
che, in questa sua posizione, l’uno in quanto non è, è
i) S TENZEL: Op. cit. Pag. 74.
conoscibile, appunto perchè viene considerato come opposto
alla seconda ipotesi (cit. 160 D). Bisogna perchè l’uno
in quanto non essere sia conoscibile, osservare la sua negatività
in ciò che è già stato osservato come conoscibile e come
positivo. Perciò sarà, se è conoscibile, anche differente
dagli altri e gli altri saranno differenti da lui (160 E). Però
il concetto di differenza non si applica qui agli altri ma
all’uno stesso nel suo interno. In questo interno l’unità
partecipa, in quanto non è, a ciò di cui essa si determina
come differente. « Non si potrebbe parlare nè dell’uno nè
degli altri dall’uno e non ci sarebbe niente di lui nè in rapporto
a lui c non si potrebbe nemmeno dire che è qualche
cosa )> se precisamente non partecipasse nè a questo qualche
cosa, nè, conseguentemente ed in tale modo, a tutti gli altri
(cit. 160 E). Perciò per l’uno « è impossibile essere, perchè
come si sa, non è. Ma una pluralità di partecipazioni gli è
possibile anzi gli è necessaria al contrario, dal momento
che l’uno che non è deve essere ben lui e non è un altro »
(161 A).
Così il non essere delle idee viene reso possibile nell’interno
delle idee stesse della seconda ipotesi e nell’interno
dell’unità medesima che in quell’ipotesi si affermava
come esistente. Il non essere può partecipare della molteplicità
che nasce dal suo stesso porsi come tale. Nello stesso
modo le idee, che sono unità, possono non essere unità,
in quanto non partecipano all’uno e nemmeno tra di loro.
Ora rimarrà pur sempre fra loro una relazione e questa relazione
è quella stabilita dal non essere. Per intendere meglio
la questione si pensi ad un processo mentale di divisione
che, per cercare il pescatore di lenza, quando ha diviso
la caccia in caccia agli animali pedigradi ed in caccia
ai nuotatori, invece di procedere dalla parte giusta, proceda
dalla sbagliata e finisca per dire che il pescatore di lenza è
un cacciatore di uccelli e non di pesci. Se la conclusione è
errata, lo è perchè invece di procedere da una parte, si è
proceduto da un’altra; il metodo di per sè stesso è giusto,
tanto è vero che se si cercasse per esempio il cacciatore di
allodole andrebbe benissimo. Ora, se è sbagliato, questo
avviene perchè dell’unità che si cerca si dice che non è
quando invece è oppure il contrario, e perciò si moltiplica
in una molteplicità che non è più in relazione con l’unità,
ma che è in una relazione assurda stabilita dal non essere
dell’unità, e dal non essere della molteplicità.
Come si è visto nella quarta ipotesi il problema della
diairesis interessa anche il concetto di somiglianza. Per
questo Parmenide parla di somiglianza e non somiglianza
fra le idee ed afferma che ci dovrà essere dissomiglianza
nell’unità in sè medesima e, appunto per questo, anche gli
altri saranno dissomiglianti. È naturale che chi afferma che
il pescatore di lenza è un cacciatore di uccelli unisce cose
che non si rassomigliano e cioè comprende sotto uno stesso
genere delle specie che non vi devono essere comprese.
Analogamente accadrà per ciò che riguarda il problema
dell’uguaglianza e del suo contrario: quando nel mondo
delle idee si stabiliranno delle relazioni negative o sbagliate,
un dato molteplice potrà essere grande o piccolo in quanto
si perde la sua relazione con il tutto. Perciò l’unità non esistente
dovrà, in quanto nel suo seno si stabilisce una molteplicità
negativa, partecipare all’uguaglianza, considerata
come mediatrice tra il piccolo e il grande, ed infine alla piccolezza
ed alla grandezza (161 D E). Da ciò che fin qui si
è considerato risulta per Parmenide il principio già da noi
notato e che ora viene affermato esplicitamente: l’unità che
non è dovrà cioè essere, questo essere si dovrà però comprendere
solo come è stato chiarito antecedente (162 A).
Parmenide anzi insiste sulla necessità del non essere di affermarsi
come opposto all’essere, e non solo riguardo al
non essere, ma proprio perchè solo in quanto da ciò che
è positivo si distingue il suo contrario la positività può essere
positività. « È partecipando all’essere dell’essere essente
ed al non essere dell’essere non essente che ciò che è
potrà essere pienamente. Così ciò che non dovrà partecipare
IÓO
al non essere dell’essere non essente, come all’essere dell’essere
non essente, se si vuole che ciò che non è realizzi, da
parte sua, la completezza del suo non essere » (162 A B).
Troviamo per ultimo un altro problema di una certa
importanza. Il mondo reale di cui si è finora parlato, appunto
perchè è reale, è in un certo senso immobile o meglio
non c’è in esso che quella mobilità di valore ideale che c’è
anche nelle idee. In quanto conoscibile ciò che è reale è costante
: è in quanto errore e male che il mondo diviene. Ora
anche questo divenire dovrà trovare spiegazione nel mondo
ideale come non essere. Lo stesso essere del non essere non
è possibile, nelle condizioni sopra esaminate, senza che si
verifichi un mutamento. Il non uno partecipa a due stati
diversi, quello per cui afferma il suo non essere in quanto
partecipa al non essere dell’essere non essente, l’altro per
cui afferma il suo essere partecipando all’essere che è. Qui
l’uno è e non è nel senso che si muove fra l’essere e il non
essere per affermare la sua entità. Il divenire viene giustificato
nel seno stesso del mondo ideale in quanto negativo:
« l’uno che non è si è rivelato come mosso poiché esso passa
dall’essere al non essere » (162 C). Però in quanto non è
dovrà essere anche immobile, perchè per muoversi bisogna
muoversi in qualche luogo (162 E), cosa che non può fare
non esistendo. L’uno che non è è dunque immobile e mosso.
La sua immobilità ci vien data dal suo essere in quanto
non uno, dal suo permanere come entità negativa. Nello
stesso modo l’unità si altererà e non si altererà. La conclusione
di tutta la trattazione è poi la seguente : « in quanto
si altera l’uno che non è nasce e perisce, in quanto non si
altera non nasce nè perisce » (163 B). Quest’ultima affermazione
sembrerebbe strana trattandosi di un mondo ideale.
Ma si noti che si tratta della negatività delle idee e che
questa negatività deve spiegare tutto ciò che di negativo
accade nel mondo reale. Non si tratta del nascere o divenire
come un perdere o un assumere l’essere, ma di un nascere
e di un divenire che avvengono in quanto l’essere non
c’è. Se il mondo del divenire nasce e muore come tale, questo
suo stato non lo si potrà spiegare se anche nel mondo
ideale, in quanto negativo, non avviene ciò che avviene nel
mondo sensibile. Così come si spiega l’errore si spiega il
nascere e il morire del mondo sensibile. Si vede già qui la
necessità di una nuova posizione. Come la seconda ipotesi
introduceva alla terza, così la negazione della seconda ipotesi
introduce alla negazione della terza, negazione in cui
si dimostrerà l’impossibilità della creazione. La terza ipotesi
si trovava tra un mondo ideale positivo e un mondo
reale positivo. La settima si troverà fra un mondo ideale
negativo e un mondo reale negativo, e, come nella terza era
possibile la creazione, qui avverrà logicamente il contrario.
Perciò la settima ipotesi non spiega il nascere e il morire
in quanto negatività ma determina il contrario della creazione.
Nel mondo empirico in quanto negativo avviene un
passaggio tra la vita e la morte che non è nè distruzione nè
creazione; è un nascere e un perire disorganizzato che è possibile,
come sappiamo anche dal Fedone, in quanto ciò
che è molteplice non sempre rimane unito alla sua essenza
ma, mutando il genere di cui è specie muta anche la sua
esistenza, dato il rapporto tra pensiero e realtà. Così del
mondo ideale in quanto negativo, in quanto contrapposto
a ciò che è idealità positiva, si dovrà dire necessariamente
che nasce e diviene, se ciò accade nel mondo empirico in
quanto disorganizzato. Si noti inoltre che il divenire è spiegato
con l’alterarsi del non essere. Se il mondo diviene è per
l’alterarsi dei rapporti negativi fra le idee, perchè cioè
un’idea prima si afferma, per esempio, come specie di un
genere che non è il suo, e poi come specie di un altro genere
che ancora non è il suo. Qui l’essere del non essere
non rimane nella stessa posizione ma, col mutare della posizione
errata e quindi di tutto un complesso di relazioni
errate, muta sè stesso in quanto nega in diverse relazioni
quella in cui si trovava precedentemente. Questo alterarsi
del non essere avverrà però insieme e a causa dell’esistenza
del non essere stesso, per cui si potrà dire che il non uno
può alterarsi, ma mantiene la sua entità negativa attraverso
le alterazioni e, in questo senso, non nasce e non perisce.
LA SETTIMA IPOTESI.
Nel seno stesso del mondo ideale ci può essere, in
quanto c’è qualcosa che gli si oppone, tutto il non essere
possibile, così come c’era nella seconda ipotesi tutto l’essere
possibile. Quando l’unità dal mondo perfetto delle
idee si staccava, si poneva come negatività assoluta e perfetta,
ed era questa sua negatività assoluta che permetteva
la nuova posizione dell’unità e la creazione del mondo.
Ma ora il mondo delle idee lo abbiamo visto nell’opposto
di sè medesimo e non nella sua perfezione. Di fronte
ad esso l’unità non potrà più essere e non essere come
avveniva nella terza ipotesi. Il nulla perfetto si determina
solo di fronte all’essere perfetto: l’unità come positività
assoluta si determina solo di fronte al mondo delle
idee come perfezione esistente. Ma qui ci troviamo davanti
alla non esistenza del mondo ideale. Ed allora, necessariamente,
la nuova posizione dell’unità sarà non una negatività
perfetta ed assoluta, ma una negatività che si determina
come opposta alla posizione che essa stessa aveva
assunto nella terza ipotesi. Sarà non essere ma non il non
essere che permette la soppressione del male, ma il non essere
che afferma il male di fronte al bene. Se nel seno della
realtà c’è un’istante creatore, ad esso si può contrapporre
la distruzione e cioè il non essere della creazione. Questa
non avverrà e l’unità non sarà in nessun senso, non avrà e
non potrà avere nessuna determinazione. È il non essere
delle idee che l’unità dovrebbe affermare insieme alla sua
non esistenza davanti a questo non essere. Il creatore non
sente più il creato come una realtà che ha un’esistenza più
reale della sua, perchè ora il mondo delle idee non esiste.
Allora il creatore non reagirà, non si porrà come perfezione
e nulla assoluti, ma rimarrà nella sua superiorità all’esistenza,
nel suo non essere della prima ipotesi, quando si determinò
come negatività di fronte a tutte le idee. Mancherà
il passaggio dalla prima alla seconda ipotesi, passaggio che
abbiamo visto eternamente presente nell’istante creatore e
che, nelle varie posizioni dei due termini creatore e creazione
perfetta, conteneva nel suo seno tutta la realtà. Ma
qui il passaggio non ci sarà più e non ci sarà più per conseguenza
la deduzione del reale dall’unità. Questa ritornerà
una divinità superiore all’esistenza e una divinità non creatrice.
Allora nemmeno la sua realtà potrà affermarsi e cioè
nemmeno la sua perfezione assoluta che è possibile solo in
quanto essa si contrappone ad un mondo creato. Questo
Dio, se vuole affermare sè stesso, non può non creare: se
vuole affermare la sua assoluta perfezione dovrà muoversi
tra sè e la sua creazione ed arrivare fatalmente alla negazione
di sè e cioè al male ed alla distruzione. Non creerà.
Perciò il mondo delle idee non esisterà e non esisterà la
vita. Nello stesso modo, se ha creato, dovrà anche distruggere.
Deve passare necessariamente per questa settima ipotesi
e scontare fino in fondo le conseguenze della sua creazione
e quindi della sua perfezione. Non passando per la distruzione
non arriverà mai alla negazione di quel mondo
che ha creato e che si deve negare continuamente per poter
continuamente risorgere.
Questa volta dicendo che l’uno non è Parmenide lo afferma
dunque in senso assoluto. Così ciò che non è « non
sarà essere nè potrà partecipare all’essere in nessun modo
» (162 C). Perciò « poiché nascere e perire non è che
perdere o assumere l’essere », come si è affermato parallelamente
nella seconda ipotesi, l’uno non nascerà e non perirà
(162 D). Non si altererà e non avrà movimento e nemmeno
potrà essere immobile (162 E), così come non potrà
creare il mondo reale e perciò Parmenide chiarisce che gli
altri non possono avere con l’uno nessuna relazione (164 A).
Si noti che degli altri come generi altri dall’uno si è già
parlato e che qui si vuole intendere il mondo reale. « L’uno,
conclude Parmenide, così concepito, non avrà nessuna determinazione
sotto nessun rapporto » (164 B).
L’OTTAVA IPOTESI.
« Se l’uno non è che cosa saranno gli altri? » (164 B).
Dopo la settima ipotesi, in cui si è affermata la posizione
distruttiva come opposta all’unità creatrice, Parmenide si
chiede: se non ci sarà la creazione che cosa saranno gli
altri? Quest’ipotesi è l’ipotesi opposta alla quarta. Naturalmente
non bisogna perdere di vista che essa presuppone
tutte le altre e che perciò si presenta come l’ultimo
gradino della discesa. La realtà del mondo si è affermata
prima come reale, poi come reale ed irreale, ora dopo
la sesta e la settima ipotesi, essa dovrà essere soggetta a
quella distruzione ed a quel non essere di cui l’ipotesi precedenti
hanno dimostrato la possibilità. In questo modo il
mondo reale sarà come il non essere del mondo ideale. Non
solo la doxa qui sarà errore, come è stato giustamente dimostrato
ma necessariamente anche la realtà del mondo
reale diverrà irrealtà. Si dovrebbe dire che il mondo diventa
l’oggetto del metodo diairetico in quanto illimitato ed assurdo.
Questo mondo però, si ricordi bene, non ha un’esistenza
reale, perchè, come sappiamo, esiste solo ciò che ha
un’idea: il resto è non essere. Allora la doxa ed il metodo
diairetico errati si riveleranno proprio per quello che sono e
cioè come conoscenza di una realtà inesistente. Gli altri, dice
Parmenide, saranno una molteplicità empirica, come
l’oggetto di una ricerca diairetica che non abbia nè principio
nè fine e che non sia quindi nè ricollegata con il con
cetto generale di essa, nè si concluda in un’idea atomo
(165 B). Il molteplice si determina come altro da sè stesso
attraverso molteplicità su molteplicità, dato che l’unità non
esiste (164 C). Ci saranno non delle unità, ma dei complessi
illimitati di molteplicità e di questi « se anche si
prende quello che può sembrare il più piccolo, avviene come
di un sogno quando si dorme, il quale, mentre sembrava
uno diviene multiplo e mentre sembrava piccolissimo
diventa grandissimo a causa delle suddivisioni che esso subisce
» (164 D). Il mondo reale dunque, quando si corrompe
a causa del non essere delle idee, non esiste più. La
sua realtà è come quella dei sogni e vivono come in un sogno
coloro che credono alla realtà di un mondo in cui dominano
l’errore ed il male. I complessi di cose molteplici illimitati
e disorganizzati sembreranno a questi filodoxi delle
unità vere e proprie, crederanno di vedere in essi un’armonia
numerica, e tutto ciò che è possibile solo di un mondo
reale in cui tutto è organizzato secondo l’idea del bene, crederanno
di vederlo anche in questo mondo che esiste solo
nella loro illusione (164 E-165 A e D).
Il mondo ingannevole di cui qui si parla, che rassomiglia
nello stesso tempo alla realtà nel precritismo ed alla
rappresentazione di Schopenhauer, dovrà necessariamente
<( dividersi e sfasciarsi in polvere, perchè ogni volta verrà
assunto un complesos privo di unità » (165 B). Solo a chi
lo guarderà da lontano esso potrà sembrare vero, ma quando
« lo si esamini da vicino e con occhio acuto, ciascuna
unità non può non sembrare multipla all’infinito, perchè
essa è priva dell’uno » (165 C).
LA NONA IPOTESI.
Se si scende dall’unità perfetta noi sappiamo che si
arriva fino in fondo: al nulla. Ed è solo così che è possibile
ritornare eternamente a creare nella perfezione. Par
menide ora ha il nulla davanti a sè: il mondo delle ombre
scomparirà e ritornerà nuovamente la luce. Negli altri,
nel mondo, non essendoci più l’unità, nemmeno come
negazione dell’idea, non ci sarà più nulla, nemmeno
le ombre, nemmeno il male. Se l’uno non è in senso
assoluto e totale, gli altri non potranno essere nè come unità
nè come molteplicità. Se l’unità è il nulla perfetto anche il
mondo nega sè stesso (166 A B). Parmenide ‘ alla fine del
dialogo riassume la ricerca : « tanto se l’uno è, quanto se
non è, esso stesso e gli altri nei rapporti che hanno con sè
e nei rapporti reciproci, sono assolutamente tutto e non
sono, sembrano essere tutto e non sembrano ». Questo
schematico riassunto è anche un’avvertenza: il lettore non
rimanga all’ultima ipotesi ma le abbia sempre presenti tutte
insieme, perchè se prese tutte insieme le ipotesi sono i termini
in cui si muove la legge trascendentale e, in questo
senso, il Parmenide ci offre, come abbiamo tante volte affermato,
la visione totale della razionalità del reale. Totale
e quindi anche il non essere troverà, come abbiamo visto,
la sua funzione e la sua necessità.
PARTE TERZA
IL TEETETO
Dialettica ascendente e fenomenologia del conoscere. —
Dopo il Parmenide a Platone si dovevano presentare serie
difficoltà sopratutto per ciò che riguardava il metodo socratico
nei rapporti colla discussione di quel dialogo. Il resultato
del Parmenide era in breve questo: l’unità come
unità non è pensabile che in rapporto alla molteplicità. Analogamente
l’organizzazione unitaria di un mondo ideale è
sempre correlativa alla negazione di questa organizzazione:
l’essere è, in altre parole, sempre correlativo al non essere.
Noi abbiamo visto che il problema dell’unità e della
molteplicità è presente in tutti i dialoghi platonici, ma il
metodo socratico, la dialettica di Socrate, in che rapporto
è con il principio fondamentale del Parmenide per cui l’essere
è sempre correlativo al non essere? Al lettore di Platone
non dovevano sembrare troppo chiari i rapporti sistematici
tra i dialoghi fino alla Repubblica e i problemi del
Parmenide, come sembrano chiari a noi che abbiamo tentato
di ricostruirli; d’altra parte il problema muta ora
aspetto per porsi in una nuova forma. Socrate seguiva nella
sua dialettica il principio di correlazione tra essere e non
essere? Ora, se nei dialoghi anteriori al Parmenide il problema
dell’unità e del molteplice non mancava, non è certo
facile vedere in essi il metodo socratico come applicazione
di quel principio. Perciò a Platone si impone un nuovo la
voro. Con esso si dovrà esaminare in che modo la dialettica
socratica è accordabile col Parmenide e in che modo quindi
il metodo socratico di ricerca è dominato dal principio di
correlatività tra essere e non essere. Il problema è dunque,
fondamentalmente, un problema di metodo. Ma si ricordi
che il metodo dialettico nel pensiero platonico si può osservare
da diversi punti di vista. Esso si presenta come « metodo
filosofico » e come « metodo dialettico-formale » o meglio
metodo diairetico, e, nelle sue due distinzioni, si divide
ancora in due movimenti: ascendente e discendente. Il movimento
discendente del metodo filosofico lo si è visto in
atto nel Parmenide in cui si discese dall’unità a cui aveva
condotto l’ascesa dialettica della Repubblica. Ora in quell’ascesa
dialettica che funzione aveva il principio socratico
per cui sapere è sapere di non sapere? In altre parole se il
pensiero raggiunge l’unità e quindi la sua posizione assoluta
fino a che punto ciò è dovuto alla dialettica socratica?
D’altra parte il principio socratico del sapere che non si sa
in che relazione è con il Parmenide?
Platone risponderà alle precedenti domande dimostrando
che il principio socratico è un’applicazione del principio
correlativo tra essere e non essere. Socrate, con il suo metodo,
spingeva il suo interlocutore alla negazione di ogni
sapere parziale e proprio questa negazione apriva la via alla
conquista del sapere assoluto, vale a dire alla conquista di
quell’unità che poi, nel Parmenide, si dimostrerà correlativa
alla molteplicità. Platone doveva perciò tornare indietro e
rivedere le posizioni socratiche dal nuovo punto di vista che
gli si era chiarito dopo il Parmenide. Con ciò noi ci possiamo
rendere conto della funzione del Teeteto nell’insieme del
pensiero platonico: esso tende a dimostrare che Socrate ha
sempre seguito gli insegnamenti dell’Eleate. Platone userà
qui un trucco letterario già preparato nello stesso Parme
1) DIÈS: Parmenide, cit. Pag. XII-XIII.
iride. Socrate nel Parmenide è ancora giovane, è all’inizio
della sua carriera filosofica. Diés ha dimostrato che Platone
desidera che il Teeteto sia letto appunto dopo il Parmenide
‘). Nel Teeteto infatti Socrate ricorda di essersi incontrato,
quando era ancora nel fiore dell’età, con Parmenide
il cui pensiero gli apparve di sublime profondità (Teet.
183 C). Socrate incontrò Teeteto poco prima di morire e ne
ammirò la felice natura (142 D), egli conobbe dunque Teeteto
per poco tempo, forse per quel tanto in cui avvennero
il dialogo omonimo ed i due seguenti, il Sofista e il Politico.
Poiché, come si è detto, Socrate poco dopo morì, è chiaro
che Platone vuol farci credere che i dialoghi suddetti precedettero
il Fedone, l’Eutifrone, l’Apologia e il Critone. Ora
poiché nel Teeteto Socrate è già vecchio e nel Parmenide è
giovane, ciò che si vuol far credere è che tra il Parmenide
il Teeteto, e quindi tra il Parmenide e i dialoghi metafisici,
che sicuramente seguono il Teeteto a cui Platone ha avuto
somma cura di riattaccarli, si sono svolti tutti gli altri
dialoghi.
La finzione ha lo scopo già notato: si vuole che il lettore
pensi che Socrate ha sempre tenuto presente la discussione
avuta nella sua giovinezza con Parmenide. Conseguentemente
il Teeteto ci presenterà il vero metodo socratico,
quale doveva essere agli occhi di Platone e poiché,
come ben dice Diés, Platone non ha un passato dogmatico
da rigettare il metodo del Teeteto si accorderà, o sarà
fatto il tentativo di questo accordo, con il vecchio metodo
socratico.
La domanda a cui si deve rispondere diventa così la
seguente: quale sarà la funzione della personalità di Socrate?
In Socrate, nota Diés, « si è incarnata la filosofia
stessa » 2). Ma ora il principio che a Platone appare fon
1) Dies: Op. cit. Pag. XVI.
2) DIES: Op. cit. id.
damentale è la correlazione dell’essere con il non essere:
nel Teeteto sarà proprio questo principio che giustificherà
il metodo di Socrate, determinandosi come principio di sapere
e non sapere.
Socrate si pone, nella sua funzione critica, come incarnazione
della dotta ignoranza. Egli porta in sè il sapere
assoluto e critica quindi ogni posizione relativa del sapere
affermata da Teeteto. Ogni posizione di Teeteto è un momento
relativo del sapere che viene criticato e negato di
fronte al sapere assoluto. Perciò il sapere di Teeteto « non
è » di fronte all’essere del sapere di Socrate. La funzione
di quest’ultimo è quella di trascendere ogni affermazione
parziale di Teeteto per spingere Teeteto ad un vero sapere.
Si può dire perciò che Socrate rappresenta il principio trascendentale
del metodo e che Teeteto pone i varii momenti
del sapere che sono « fenomenologici », secondo la posizione
hegeliana della Fenomenologia, rispetto al sapere assoluto
a cui Socrate tende.
Il metodo ascendente si rivela così come « fenomenologia
del conoscere » diretta da un principio trascendentale
in cui si esprime la correlatività tra essere e non essere co~
me correlatività tra sapere e non sapere. Il Parmenide permette
in questo modo a Platone di rendersi totalmente conto
e di sviluppare fino in fondo il metodo dialettico di Socrate.
Però non si deve credere che tale metodo, da Platone
sviluppato nella sua totalità, è un metodo nuovo. Se il fatto
per cui Platone pone tutti i suoi dialoghi tra Parmenide e
Teeteto è una finzione, questa finzione indica però che il
metodo socratico deve essere compreso e valutato dal punto
di vista del Teeteto e quindi da quello del Parmenide, senza
perciò che esso venga negato. Il metodo del Teeteto non
è affatto inconciliabile con la teoria della reminiscenza ed
esso si ricollega direttamente alle aporie del Menone. Lo
schiavo del Menone « si ricorda » solo quando si accorge
che crede di sapere ciò che non sa e quando Socrate lo ha
condotto a quel particolare sentimento di imbarazzo in cui
si esprime l’aporia 1). « La ricerca in comune in un dialogo
ben condotto è un fattore capitale della reminiscenza:
null’altro può condurre questa fino ai suoi ultimi effetti ».
Nel Teeteto « la reminiscenza è presentata come il fondamento
della maieutica » ‘).
Inoltre come la nuova posizione che abbiamo chiamato
fenomenologica non è inconciliabile con il metodo socratico
dei primi dialoghi così essa non distrugge i resultati
della dialettica ascendente quale da noi è stata vista nella
Repubblica. I varii sensi dell’essere che la Repubblica raggiunge
e che poi si ripresentano nel Parmenide non vengono
in nessun modo negati per il fatto che con chiarezza si vede
il procedere ascendente del pensiero attraverso di essi: ciò
che si nega è semplicemente il fatto che uno qualsiasi di
essi possa sostituirsi alla totalità del conoscere che è appunto
la totalità delle posizioni in cui si può porre l’uno di
fronte al molteplice e viceversa. Ciò significa, in altre parole,
che la tradizionale teoria delle idee è sempre valida
nel Teeteto, come nel Sofista e negli altri dialoghi, ed anzi
le nuove posizioni non si spiegano se non alla luce di quella,
così come essa è apparsa nelle ipotesi del Parmenide,
perchè senza quelle ipotesi non si spiegherebbero le relazioni
fra le idee e il famoso problema della partecipazione.
Il valore ontologico delle idee non viene da Platone mai
ripudiato: le idee sono e saranno sempre enti o essenze,
solo il nostro kantismo ci fa credere che una tale posizione
sia inconciliabile con un movimento ascendente di tono fenomenologico.
Ma, si noti bene, che Platone sia arrivato a
porsi un problema che, tradotto nel nostro linguaggio, diventa
il problema del trascendentale, non vuol dire che le
idee debbano essere esse stesse leggi e ridursi, negandosi il
loro senso ontologico, alla legge stessa del conoscere, così
1) L. R OBIN: Platon, Paris 1935, Pag. 71.
2) L. R OBIN: Op. cit. Pag. 72.
come vuole Natorp. La trascendentalità del conoscere non
distrugge il mondo delle idee.
La maieutica. — Teodoro fa notare a Socrate che Teeteto
gli assomiglia (144 A), sia per il naso camuso, sia per
gli occhi in fuori: perciò non è bello. Socrate, parlando a
Teeteto di questa rassomiglianza e scherzando sul suo stesso
metodo, dice che non bisogna credere a Teodoro il quale,
non essendo pittore, non può giudicare di rassomiglianze
visive: Socrate ricercherà piuttosto rassomiglianze interiori
e perciò interrogherà Teeteto.
Socrate doveva assomigliare da giovane a Teeteto e
avrebbe potuto quindi fare gli stessi errori che Teeteto farà
nel corso del dialogo, errori che non permettono una risposta,
che senza essere aderente ai problemi immediati del
Teeteto i quali hanno un valore aporético, poteva essere
data da Socrate sia in una visione generale che noi possiamo
o tentiamo di ricostruire, sia proprio col riconoscimento che
le aporie in cui il Teeteto si svolge hanno un valore proprio
come tali e sono la necessaria espressione, dati i termini in
cui la discussione si muove, delle necessità del pensiero e
perciò la stessa espressione della « kinesis » del pensiero.
Come si esprimerà dunque l’interiore rassomiglianza fra
Socrate e Teeteto?
Socrate sa andare oltre le aporie e concepisce quindi
il loro valore, Teeteto resta nelle aporie e quindi conclude
necessariamente in modo negativo. In rapporto a questo
sapere che è un non sapere, a questa scienza che da un
certo lato è una non scienza, appunto perchè sul piano
della discussione è negativa in quanto tale la pone il suo
principio trascendentale, Socrate si distingue immediatamente
da Teeteto dato che Teeteto non supera trascendentalmente
le sue posizioni, ma solo le accetta o le nega.
Socrate sottolinea all’inizio del dialogo la distinzione
su accennata. Egli domanda al giovane interlocutore: « apprendere
non è divenire più saggio intorno a ciò che si ap
prende? » (145 E). Teeteto risponde affermativamente, ma
non sa che Socrate non accetta, in quanto posta così dogmaticamente,
la sua risposta, come invece noi sappiamo. Teeteto
si pone quindi fino dall’inizio della discussione in una
posizione falsa in quanto dogmatica. Si diventa più saggio
dunque intorno ad una cosa in quanto si apprende positivamente
in rapporto ad essa. Si tratta quindi della « sofia »,
ma essa è veramente « episteme »? Teeteto ne è convinto,
ma Socrate naturalmente non la pensa così e resta perplesso
sulla possibile identificazione della sofia con l’epistemo, in
quanto, se è intesa la sofìa positivamente la scienza si basa
invece su un sapere negativo. Quindi Socrate dovrà chiedere
a Teeteto che cosa è la scienza e, possibilmente, dimostrargli
che essa non è semplicemente sofia nel senso positivo inteso
da Teeteto. La domanda presuppone naturalmente già un
superamento della primitiva posizione di Teeteto che, questa
volta, risponde che la scienza è l’insieme di tutte le
discipline da cui si apprende. Di fronte a questa sintesi dogmatica
Socrate pone l’esigenza di un fondamento semplice
ed unitario della scienza (146 D). Socrate non chiede nè
l’oggetto della scienza, nè quante scienze ci siano, ma che
cosa è la scienza in sè (146 E). Si tratta di un principio e
non di dati e proprio di quel principio che, in quanto trascendentale,
farebbe comprendere a Teeteto che la scienza
è anche un non sapere. Teeteto comprende ciò che Socrate
vuol dire, egli anzi s’è spesso sforzato di raggiungere una
definizione della scienza (148 E) e offre ora un esempio di
carattere matematico, esempio che dovrebbe chiarire il metodo
della ricerca. Per sapere che cosa è una potenza bisogna
infatti non descrivere e nominare le potenze ma trovare
la legge per cui un numero si costituisce come potenza
(148 B), ma Teeteto non è in grado di applicare lo stesso
processo all’indagine sul sapere, per quanto sia convinto
che il metodo da usarsi debba essere lo stesso. Perciò Socrate
ha ben ragione di far approfondire a Teeteto il concetto
del sapere come non sapere, il fatto cioè che non sa
pere applicare il metodo che pure Teeteto conosce è indizio
di pienezza e non di mancanza. Infatti se Teeteto « non
sa » è proprio perchè « sa » che la ricerca deve compiersi
secondo un metodo già a lui noto che però non sa usare in
quanto, questa volta, non è in grado di formulare il problema
con la stessa chiarezza con cui aveva formulato il
problema della legge delle potenze. Ora che cos’è questa
formulazione chiara del problema della scienza se non lo
stesso sviluppo della ricerca? La legge che Teeteto cerca è
cercata dogmaticamente in quanto egli non sa che non è
formulabile prima di aver posto l’intera problematica del
conoscere, anzi noi sappiamo dal Parmenide che essa è
la stessa problematica dell’unità a cui rimandano tutti
parziali punti di vista.
Socrate dovrà dunque chiarire il significato della sua
maieutica rispetto a ciò che si è detto. Ci si rivolge, con
tutta probabilità, ad un pubblico che conosceva bene la
distanza reale che c’era tra il Parmenide ed i primi dialo
ghi socratici e di fronte al quale poteva essere utile riaf
fermare il metodo socratico, tanto più che esso sembrava
non essere stato usato nel Parmenide. La maieutica assu
me nel Teeteto un’importanza considerevole: la discussio
ne sulla scienza è posta al suo inizio in rapporto al metodo
maieutico che viene poi ricordato alla fine del dialogo. La
spiegazione sulla maieutica tende fondamentalmente a due
scopi; prima di tutto essa giustifica le conclusioni negative
del dialogo, mettendo in rilievo il suo significato aporético
e cioè il fatto che il principio maieutico agisce rispetto alle
ricerche particolari e dogmatiche come principio trascen
dentale e quindi nega via via le varie posizioni in cui Tee
teto si arresta; in secondo luogo, come si è già visto, si tende
a presentare la figura di Socrate, così come ci è familiare
attraverso ai dialoghi socratici, come l’incarnazione del prin
cipio trascendentale stesso. Non è in potere di Socrate di
creare ma di aiutare a creare. Ed egli, proprio come le le
vatrici, può aiutare la creazione proprio perchè è impo
tente a creare egli stesso (150 C). Un Dio gli proibisce la
creazione, perchè, notava acutamente Kirkegaard, « tra
gli uomini la maieutica è tutto ciò che è possibile, la creazione
resta la funzione della divinità » È proprio questo
atteggiamento negativo di Socrate che fa nascere il sapere
nei suoi interlocutori che, da principio, « sembrano,
e qualcuno proprio del tutto, non sapere un bel niente »
(150 D). Discutendo con Socrate essi scoprono invece in
sè medesimi il loro sapere. Perciò si è detto che Socrate
assume nel dialogo la funzione del principio trascendentale
ed è costretto quindi a negare ogni posizione, ma è appunto
solo così che i problemi si scoprono e nasce la scienza
in tutta la sua problematica.
Ancora nel Teeteto si ritorna a difendere Socrate contro
(( i più » che vedono in lui solo una causa di disordine
e un dissolvitore di ogni sano principio morale e sociale.
È significativo che proprio nel Teeteto ciò venga ricordato:
evidentemente il Parmenide offre un approfondimento
della personalità di Socrate e del suo metodo alla
luce della trascendentalità del conoscere. I più non sanno
appunto questo e cioè che Socrate pratica la stessa arte
di sua madre Fenarete e dicono che egli è « bizzarro »,
che non fa che creare delle perplessità nello spirito degli
uomini (tous anthropous aporein 149 A), ma ciò che fondamentalmente
non sanno è che il sapere si crea proprio
in questo « aporein ».
Il Teeteto, che è apparso il dialogo più negativo di
Platone, tende invece a giustificare tutti i dialoghi negativi
in quanto invita il lettore a comprenderli in rapporto
alla maieutica e in rapporto al principio trascendentale che
in essa si muove. Il giovane Teeteto è proprio l’esempio
di un Socrate che non ha coscienza del valore della maieutica
e che conclude negativamente senza accorgersi del va
1) K IRKEGAARD: Riens philosophiques. Paris, 1937, Pag. 59.
lore positivo della sua discussione, di ciò che dalla stessa
discussione necessariamente nasce. Se Socrate nei dialoghi
platonici viene concepito come l’incarnazione della legge
trascendentale è logico che tutti prendano luce nel metodo
di ricerca che li muove e li guida.
La libertà del sensibile. — Spinto da Socrate Teeteto
si decide per la sua prima definizione della scienza: colui
che sa, sente (aisthanetai) ciò che sa, perciò la scienza è
sensazione, l’episteme è aisthesis. Teeteto pone un’equivalenza,
essendo dato che quando si sa si hanno delle sensazioni,
la scienza consiste in queste sensazioni. L’errore e la
verità della ua affermazione sono fin da ora rivelabili. Non
è vero che in ogni caso si sa quando si sente, ma si può anche
sapere senza che al nostro sapere corrisponda direttamente
una sensazione: il sapere è perciò più vasto della
sfera del sensibile. D’altra parte è evidente che il sapere
è anche sensazione. Ora, esaminando il sapere come sensibile,
è possibile notare in esso la mancanza di identità tra
l’universalità che viene posta dalla tendenza teoretica e il
suo reale contenuto come sensibile? In altre parole c’è nel
sapere equivalente alle sensazioni una contraddizione interna
che chiede di essere superata? E, conseguentemente,
un’aporia che spinge ad un processo dialettico e perciò
al superamento del sapere dogmatico che viene offerto
dalle sensazioni? È chiaro che se l’analisi delle sensazioni
dimostra che il loro sapere non corrisponde all’esigenza
di necessità e di universalità che esige il pensiero bisogna
concludere che le sensazioni non danno la scienza. Si vorrà
perciò concludere che le sensazioni non sono, nel loro
ambito, un sapere? Proprio in quanto il loro contenuto
non viene più considerato dogmaticamente il loro sapere
viene giustificato come relativo. Con ciò si chiarisce il lato
positivo della funzione negativa di Socrate. Ciò che Socrate
nega è che la sensazione sia tutto il pensiero, che essa esaurisca
il pensiero e che in essa si esprima dunque totalmen
te il principio del conoscere. La sensazione perciò deve valere
come sensazione e non altro, ma non si può fondare
il valore della sensazione se nello stésso tempo non si chiarisce
che la scienza esige il superamento del contenuto sensibile.
Questa esigenza di superamento è proprio quella che
fa sì che i contenuti delle sensazioni ci appaiano relativi
proprio perchè è di ogni sensazione l’essere relativa. Nello
stesso tempo il principio trascendentale che è stato qui applicato
chiarisce il proprio metodo: dall’esame stesso del
sensibile si deduce che il sapere risulta dal riconoscere che
la sensazione non è il sapere, il caso particolare della sensazione
è indice del metodo generale socratico: il vero principio
del conoscere è appunto la legge che permette di fissare
ad ogni conoscenza particolare il suo limite ponendo
in luce così che il conoscere non si esaurisce in nessun sapere
particolare ma è la legge universale che fonda e limita
tutte le forme del sapere. È notevole perciò che Socrate trasporti
immediatamente la difìnizione di Teeteto sul campo
relativistico e ponga l’equivalenza della formula di Teeteto
con quella di Protagora : « l’uomo è la misura di tutte le
cose » (152 A).
La sensazione appare (fainetai) dunque diversa in ogni
diverso soggetto. Poiché questo apparire è l’essere sentita
(aisthanesthai), il sentire una sensazione significa riconoscerla
come apparenza (fantasia). In quanto sensazione
essa è infallibile e, in questo senso, è scienza (cfr. Cratilo
386 A). L’essere si risolve così nell’essere della fantasia e
cioè nell’apparenza. « Nulla è uno in sé e per sè, non c’è
nulla che si possa nominare e qualificare con giustezza: se
tu lo chiami grande potrà apparire anche piccolo » e così
di seguito (152 D). È nella traslazione, nel movimento e
nel continuo fondersi di ogni cosa che si forma il divenire
di ciò che noi crediamo essere, credenza errata poiché, secondo
la nota formula eraclitea, nulla è ma tutto diviene.
Lo stesso essere e lo stesso divenire sono apparenze prodotte
dalla kinesis. Il movimento viene considerato come
vita e come sanità: esso è il bene, sia per l’anima come
per il corpo, mentre tutto il contrario è la stasi. Questo
elogio del movimento secondo Stenzel è una chiara anticipazione
del Sofista dove la kinesis delle idee sembra diventare
il presupposto della loro conoscibilità. A fondamento
di questa posizione gnoseologica qui Socrate si richiama addirittura
all’eterno movimento del cosmos, un richiamo questo,
nota sempre lo Stenzel, del tutto estraneo alle opere
socratiche Giustamente lo Stenzel riconosce che il problema
del Teeteto è di far posto alla sensazione ed alla
doxa : il vero tema del dialogo è appunto di vedere in che
senso ci può essere una scienza degli oggetti del divenire “)
e perciò di studiare i rapporti tra doxa ed episteme, come
si vedrà più innanzi. Sempre secondo lo Stenzel, « Platone,
quando scrisse il Teeteto, aveva già chiaramente presente,
nelle sue linee essenziali, il concetto di scienza che troviamo
nel Parmenide e nel Sofista » 3). Per Stenzel ciò significa
naturalmente che la teoria gnoseologica presente nel Teeteto
è già completamente liberata dalle relazioni coli’idea
del bene e quindi dalla visione generale, orientata in senso
etico, che domina la prima parte del pensiero platonico
fino alla Repubblica. Nel Teeteto si espongono sotto il
punto di vista socratico, determinato dalla stessa presenza
di Socrate nel dialogo, i problemi che saranno poi risolti
nel Sofista dallo Straniero Eleate ‘). Socrate non poteva
naturalmente risolvere, cosa che anche noi affermiamo,
tenendo presente però tutto ciò che si è detto sul metodo
maieutico. Ma noi non crediamo che il problema della doxa
determini un interesse filosofico che escluda l’interpretazione
trascendentalistica del’principio del conoscere dominante
in Platone: il problema della doxa è appunto posto in rap
1) S TENZEL: Studien cit. Pag. 35-36.
2) S TENZEL: Op. cit. Pag. 37.
3) S TENZEL: Op. cit. Pag. 38.
4) S TENZEL: Op. cit. id.
porto alle necessità trascendentali del pensiero, necessità che
si determinano, di fronte al sapere dogmatico, negativamente,
e che vengono espresse colla massima forza dalla
personalità di Socrate.
Alla tesi del movimento, come del resto si farà poi nel
Sofista, viene riconosciuto un valore così come alla tesi dell’immobilità;
ambedue sono aspetti della problematica dell’uno
e del molteplice ed attuano la non superabile correlazione
tra uno e molteplice. Ora la sensazione si giustifica
appunto come il momento dell’assoluta molteplicità e del
movimento continuo, senza perciò che venga riconosciuto
l’esaurirsi in essa della scienza che nel suo seno, proprio
perchè trascende e pone ogni posizione particolare, accoglie
tutte le varie posizioni poste dalla problematica del Parmenide.
Le accoglie limitandole e ponendo in luce la loro relatività
che rimanda continuamente a ciò che le trascende
e cioè ad un punto di vista universale.
La tesi del movimento trasporta immediatamente Socrate
nel campo dell’assoluto relativismo del sensibile e non
solo del sensibile in quanto oggetto ma del soggetto stesso
delle sensazioni. L’oggetto come sensazione non si pone in
relazione con un soggetto: la sensazione è libera da questa
stessa relazione, essa pone il soggetto e l’oggetto in rapporto
alla sua assoluta instabilità e li trasporta sul suo piano che
è appunto assolutamente relativo. Una considerazione di
questo genere è della massima importanza per il conoscere:
in essa viene infatti superato ogni realismo dogmatico sia
in rapporto all’oggetto che in rapporto al soggetto. Il piano
delle sensazioni si rivela dunque in una sua specifica autonomia,
anteriore alla stessa distinzione di soggettivo e di
oggettivo. Evidentemente il sensibile non può costituire la
scienza, ma, non meno evidentemente, presenta un piano
del conoscere in tutta la sua purezza. L’aspetto che questo
relativismo prende nella sua più profonda espressione, in
quella degli « iniziati » dice Socrate, arriva a distinguere
il reale in due forme in cui la dualità si ripete all’infinito.
« II’ tutto è movimento e nient’altro che movimento e questo
riveste due forme, ambedue di carattere infinito, che
hanno potenza l’una di agire e l’altra di patire » (156 B).
Dal loro avvicinarsi e dalla frizione dell’una e dell’altra nascono
due serie parallele: il sensibile e la sensazione che si
pongono.sempre insieme. L’oggetto diventa qui il sensibile
posto in questa correlazione e perde perciò il suo aspetto
dogmatico. Il soggetto, da parte sua, perde il suo carattere
fisso, in quanto diventa pura sensazione ed è pura sensazione:
occhio, per esempio, ed occhio che vede, quando si
incontra, nel movimento, con qualcosa di visivo che si pone
in rapporto di paziente all’azione dell’occhio. E ciò che è
visivo non è astrattamente il visibile. L’oggetto non è bianchezza
ma un fiore bianco o una pietra bianca, e tutto ciò
che arriva a colorarsi di quel colore (156 E). D’altra parte
nemmeno il rapporto agente e paziente è fisso: ma è correlativo
e ciò che è agente può porsi come paziente e viceversa.
Perciò conclude Socrate: « essere è un termine che bisogna
del tutto sopprimere » (157 A); cioè non si può attribuire
l’essere alla sfera del sensibile e non si può di esso dire
in alcun caso, questo è, quello è. Naturalmente è logico
che Socrate parli qui di essere come esigenza unitaria, la
stessa che ha posto davanti a. Teeteto all’inizio del dialogo,
quando, di fronte all’unione dogmatica della molteplicità
delle scienze, poneva la necessità di una scienza semplice
e unitaria. Non bisogna dimenticare che questa esigenza
domina tutto il dialogo e che è di fronte all’essere di questa
scienza che si nega l’essere delle particolari forme del conoscere.
È proprio questo concetto unitario che permette la
critica ed è in rapporto ad esso che Socrate afferma l’assoluta
molteplicità del sensibile liberando Teeteto dalla credenza
nel valore reale delle sensazioni. Queste non sono
realtà, la loro caratteristica è quella di essere una fantasia,
perciò, prese come sensazioni, il loro piano è lo stesso piano
dei sogni e delle allucinazioni. Rimanendo nel puro sensibile
non si può affermare l’essere in quanto questo si risolve
interamente nel percipi. La domanda che si fa Socrate nel
passo (158 C) è di netto carattere berkeleyano : a che cosa
risponderemo a chi volesse sapere se nel momento attuale
noi dormiamo e sogniamo tutto ciò che noi pensiamo, o se
invece, svegli, è in un dialogo vero che stiamo discorrendo?
». E come il coscienzialismo di Berkeley pone in risalto,
di fronte al realismo di Locke, l’assoluta problematicità
del conoscere, così qui è il realismo che viene superato in
rapporto all’esigenza di unità immanente nel pensiero stesso
e cioè in Socrate, che fa valere qui, in quest’esigenza, il
principio trascendentale che muove la discussione.
L’equivalenza posta tra sogno e realtà fa risaltare ancor
più il carattere assolutamente fenomenico di ogni dato
sensibile nella sua relazione col movimento universale:
ogni legge che non sia il movimento è estranea alla sfera
del sensibile come tale; ad una simile posizione conduce direttamente
la critica di Hume al concetto di causa e di sostanza
ed apre perciò la via ad una posizione critica, la
quale non è già, nel suo vero significato, una negazione del
piano dell’esperienza, ma una comprensione di questo piano
che riduce l’esperienza a puro fenomeno. Non c’è qui
d’altra parte nessuna tendenza a porre una « cosa in sè » nè
di vedere il sensibile in regole e connessioni che ne limitino
la libertà e la spontaneità. Il sensibile è il mondo come puro
momento intuitivo, antecedente al conoscere dell’intelletto
e antecedente ad ogni distinzione di soggetto e di oggetto.
Da questo punto di vista la determinazione di un piano
del sensibile come indipendente è un’esigenza che si è spesso
fatta viva nella filosofia moderna, specialmente nel neorealismo
americano e perfino, in un certo senso, nelle correnti
della fenomenologia tedesca, come esigenza dell’assoluta
libertà del momento intuitivo del conoscere. Ciò non
vuol dire, naturalmente, che Platone resti in questa posizione
di rivendicazione della libertà del sensibile. La stessa
sensibilità si rivela su piani che l’organizzano e la unificano
secondo certe direzioni: sarà questo il problema della tra
sposizione di ciò che è pura fantasia su un piano di conoscenza
in cui i varii elementi sensibili vengono organizzati
secondo varie forme unitarie che si collegano poi ad una
intera sistematica del conoscere. È appunto questo ulteriore
momento di conoscenza, che unifica intuizione ed intelletto,
che ci verrà nel Sofista presentato come metodo diairetico
e quindi come conoscenza formale del sensibile e vedremo
come e in che senso la necessità della diairesis viene presentata
anche qui nel Teeteto.
Non bisogna d’altra parte pensare che Platone intellettualizzi
il sensibile: nei passi precedenti si pone anzi,
come si è visto, la sua piena autonomia. La diairesis organizza
semplicemente in rapporto all’oggetto che sta divìdendo,
ed anche ammessa una universale organizzazione
dei resultati della diairesis, gli atomi idee, la sfera del sensibile
resta sempre più vasta e non si esaurisce mai come
contenuto della diairesis che la circoscrive solo formalmente.
Se gli atomi idee sono, sono appunto in quanto contrapposti
ai sensibili. In altre parole se il sapere come scienza
è più vasto del sensibile, il sensibile è più vasto come « irrazionale
» del razionale e non è mai completamente razionalizzabile:
in questo senso esso è veramente un compito
posto al pensiero, mentre la sua vastità, ponendosi in tutta
la sua infinitezza, garantisce come limite il movimento stesso
di divisione della diairesis. La sensibilità ha dunque un suo
essere, che è l’essere della sua fantasia, il sensibile come
tale, indipendente da ogni altro attributo; si dovrebbe dire,
se fosse possibile, la sensibilità in quanto sensibilità a priori.
Questo piano in cui la sensibilità si pone come assoluta
molteplicità coincide con il mondo della doxa quale viene
costituita sulla struttura della quinta ipotesi del Parmenide,
dove la doxa non è ancora distinta come vera o falsa, ma
è vista indipendentemente dalla sua assunzione nel metodo
diairetico. Come nel Parmenide la quinta ipotesi si determina
di fronte all’unità, qui il mondo della sensibilità si
pone correlativamente all’unità che Socrate fa valere come
esigenza assoluta nel corso del dialogo. La legge trascendentale
di correlazione è qui in atto e deduce da sè il momento
del molteplice. Questo momento in cui il molteplice
si pone corrisponde nello stesso tempo al quarto momento
in cui si svolge il metodo diairetico e che abbiamo ritrovato
nella quarta ipotesi del Parmenide corrispondente a
sua volta in modo preciso, come si è visto, alla quarta distinzione
del famoso passo del Sofista (253 D) con cui dunque
il corrispondente passo del Parmenide (158 C) è in
stretta relazione. In seguito il problema del Teeteto si svolgerà
secondo le direzioni rese possibili e necessarie dalla
posizione della sesta ipotesi. Il mondo del sensibile che da
una parte può apparire come reale, così come appare nella
quarta ipotesi del Parmenide permettendo quindi una conoscenza
di sè e perciò una scienza del sensibile, dall’altra
potrà, alla luce del pensiero, rivelarsi come errore e presentarsi
quindi come si era presentato nella sesta ipotesi
del Parmenide.
La prima critica di Socrate a Teeteto. — Abbiamo visto
il risultato positivo che si deve trarre dalla prima analisi
che compie Socrate della definizione di Teeteto. Resultato
positivo implicito poiché Socrate non ha fatto che svolgere,
di ciò che Teeteto ha detto, l’aspetto di verità e cioè
il concetto della libertà del sensibile. Ma Socrate ritorna all’aspetto
negativo della definizione di Teeteto, aspetto negativo
che si rivela nel suo dogmatismo per cui si conclude
che la scienza è sensazione. In questo senso la definizione
non può non venire criticata.
La critica di Socrate non si svolge però in senso diretto,
ma egli la sviluppa in quattro parti distinte e regolarmente
separate dai rispettivi intermezzi. In ognuno di questi
momenti della sua critica Socrate procede in due direzioni:
da un lato critica l’equivalenza di Teeteto tra sensazione
e scienza, dall’altro approfondisce il piano del sensibile,
approfondendo il suo aspetto aporético e ponendo
quindi la necessità di superarlo e unificarlo in una scienza
della sensibilità.
La prima critica è compiuta, volutamente, con una
certa superficialità, usando argomenti popolari ed eristici.
Perchè, dice Socrate, Protagora non ha posto a misura di
tutte le cose il porco o il cinocefalo? Non sarebbe stato lo
stesso? Nella difesa di Protagora che Socrate farà pronunciare
a lui stesso un simile argomento viene giustamente
giudicato grossolano da Protagora e quindi dallo stesso Platone.
Ma nonostante ciò, ha il suo lato di vero: Protagora,
come tutti i sofisti, non sembra rendersi conto della dignità
dell’uomo in quanto ricercatore del vero, o almeno da questo
punto di vista viene considerato. La sua teoria pur ponendo
l’uomo a centro del mondo si conclude con il solito
pragmatismo. L’argomento, qui rigettato, sarà ripreso con
più chiarezza e senza alcuna grossolanità, proprio dopo
l’apologia di Protagora. Non più profondi sono gli altri argomenti
che Socrate qui usa per la sua critica : è da notare
principalmente che Protagora viene confutato, nel modo
che solo a prima vista sembra più serio, ponendo innanzi
il fenomeno della memoria. Colui che ricorda di aver visto
e non vede sa o non sa? Se scienza e sensazione sono identiche
quando io chiudo gli occhi e mi ricordo di ciò che ho
visto so e non so nello stesso tempo (164 B). L’argomento
fondamentale che nella critica Socrate usa è questo: la
scienza non è sensazione perchè se così fosse si potrebbe
sapere e non sapere nel medesimo tempo (165 B). Ma allora
che cosa rimane della già posta libertà del sensibile raggiunta
proprio per il principio per cui si sa e non si sa quando
si sa di non sapere? Socrate stesso, come abbiamo visto,
ha iniziato il dialogo con l’equivalenza mai accettata da
Teeteto tra sapere e non sapere, equivalenza che giustifica
sia la problematica del conoscere, sia il suo principio trascendentale.
Se qui Socrate confutasse Protagora con un
simile sistema comprometterebbe il suo stesso principio e
ciò che già si è rivelato come positivo nella sua ricerca, vale
a dire quel tanto di verità che è contenuto nella posizione
di Protagora non più interpretata dogmaticamente. Si comprende
allora qual’è la funzione di questa prima critica superficiale:
essa fa vedere come non si deve confutare Protagora
e permette a Socrate di far entrare in scena l’accusato
stesso a difendere ciò che c’è di vero nella sua teoria
e anche, come si vedrà, ciò che non c’è di vero per Socrate
che si rende possibile in questo modo una più stringente e
più profonda critica.
La poca disposizione da parte del lettore, sempre affascinato
dall’aspetto ultraterreno dell’idealismo platonico, a
comprendere una rivendicazione della relatività del sensibile
da parte di Platone, giustifica ampiamente questo primo
falso attacco di Socrate che, dal punto di vista artistico
è pienamente riuscito e raggiunge nella discussione totalmente
il suo scopo. Socrate farà dire a Protagora contro
sè stesso : « se tu parli qui di porci e di cinocefali vuol dire
che il porco sei proprio tu ». E Protagora termina la sua
apologia invitando Socrate a servirsi con più onestà della
discussione dialettica, altrimenti, egli nota con una ironia
non precisamente innocente, a cui si risponderà nella difesa
del filosofo dai saggi della realtà pratica e che apparirà tanto
più viva in quanto alla fine del dialogo Socrate si dirigerà
verso il Portico del Re dove troverà Meleto; altrimenti coloro
che vengono confutati invece di prendersela con sè
stessi e di riconoscere che hanno sbagliato se la prenderanno
necessariamente con il loro confutatore.
È chiara dunque la ragione per cui Socrate interrompe
il suo primo attacco critico riconoscendone la volgare superficialità:
« mi sembra che abbiamo fatto come un gallo di
cattiva razza, affrettandoci, ben prima di essere vincitori,
ad abbandonare la lotta ed a gridare vittoria ». Ed ancora
più chiara è la ragione dell’apologia di Protagora. In essa
possiamo distinguere due parti: una positiva, in quanto
riafferma con energia il valore del sensibile, ed una negativa
che dalla precedente affermazione svolge un pragmati
sino logico ed etico che sarà poi criticato da Socrate. Protagora
afferma infatti decisamente il principio per cui si
può sapere e non sapere. A Socrate esso è servito per affermare
l’assoluta relatività del sensibile: proprio questo è il
lato di verità che si cela sotto il relativismo protagoreo. Se
Protagora può affermare che non esiste un soggetto che ha
memoria e che sa e che permane di fronte al variare degli
oggetti; se Protagora riafferma che, visto sul piano del sensibile,
il soggetto non è che una sensazione anch’essa continuamente
mutevole come tutte le sensazioni, è perchè,
senza saperlo, ha sottoposto il sensibile ad una critica che
ne ha confutato il carattere dogmatico. La memoria come
fatto mnemonico è infatti un fatto tra i fatti e non potrà
garantire mai, come tale, il conoscere. Era dunque Socrate,
che nella sua falsa critica superficiale, peccava di realismo.
Ciò che si riafferma, ancora una volta, è il piano della molteplicità
e assoluta relatività, determinazione possibile solo
di fronte all’esigenza di unità che Socrate mantiene sempre
viva. Come ben sappiamo l’esigenza di unità pone continuamente
il molteplice di fronte a sè, come il molteplice
d’altra parte rimanda sempre all’unità e la legge trascendentale
si attua proprio in questa sua non superabile correlazione.
Protagora comincia a sbagliare quando pretende
di superare il suo relativismo nel senso di voler dedurre
da esso ciò che non è possibile dedurre: è, sotto un altro
aspetto, l’errore che commette Teeteto quando identifica
scienza e sensazione. La saggezza consiste per Protagora nel
saper mutare e far mutare le sensazioni e nel saper sostituire
a sensazioni che sembrano cattive, sensazioni che sembrano
buone. Se un cibo è amaro per chi è malato e dolce per chi
è sano, non si tratterà certo di ricercare che cosa siano la
dolcezza e l’amaro, ma di provocare l’inversione della sensazione
per il malato e proprio questo è il compito del medico
che provoca quell’inversione con la medicina, mentre,
nel campo morale, il sofista la ottiene con i suoi discorsi
(167 A). Ciò è naturalmente possibile in quanto le sensazioni
— i8g —
come tali sono sempre vere, data la loro assoluta relatività,
e una vale l’altra ed è sostituibile all’altra. Le sensazioni
non sono più o meno vere, ma solo hanno, in certi rapporti,
più o meno valore. Il buon oratore fa in modo che alla città
sembri giusto ciò che per lei è utile ed ingiusto ciò che le è
dannoso (167 C).
Con ciò Protagora è andato al di là del suo relativismo
che ha trasformato in un vero e proprio pragmatismo. Vero
è ciò che è più utile e sembra tale. Da una parte si svolge
dalla posizione relativistica una scienza, dall’altra se ne derivano
i principii di una rettorica. Il Fedro ha già dimostrato,
di fronte a Lisia, di cui la posizione non è lontana da
quella che qui assume Protagora in rapporto alla rettorica,
come dai problemi di questa si passi necessariamente al
problema della diairesis. Non si porrà qui necessariamente
per Socrate il problema di come è possibile una conoscenza
del sensibile e di come è possibile superare, ben altrimenti
di come fa Protagora, il relativo delle sensazioni? Il problema
è tanto più urgente in quanto Protagora basa sul relativismo
tutto un sistema e se non sembra commettere l’errore
di dogmatizzare tutto il sensibile, compie però quello
di ridurre tutto a relativo. Si tratta quindi di limitare questa
arbitraria estensione dimostrando che la sfera del sensibile
si lascia organizzare secondo una legge, che l’opinione
si lascia distinguere in vera e falsa dal pensiero, che quest’ultimo
infine raccoglie e disciplina i contenuti sensibili
rendendo così possibile il giudizio sul loro essere e sulla loro
verità. Se non si vuole che il relativismo assoluto dei sensibili
invada la sfera del pensiero e se si pone d’altra parte
l’esigenza di superare il piano della sensibilità, bisogna assolutamente
esaminare in che modo ed in che senso il sensibile
è penetrabile da parte del pensiero, poiché solo questo
potrà dirci in che caso una sensazione è vera e falsa,
dato che tale criterio non è ritrovabile sul piano delle sensazioni.
Ciò significa che è necessario distinguere una doxa
vera da una doxa falsa, distinzione che solo alla luce del
— igo —
pensiero sarà possibile se la doxa come tale è sempre vera,
conclusione che permette a Protagora l’arbitraria estensione
del suo relativismo. L’esigenza di una diairesis è qui chiaramente
posta ma non è detto perciò che Platone rinunzi
alla sua visione della vita orientata in senso etico. La diairesis
non è che un momento della generale teoria delle idee,
questa permane sempre viva ed anzi si allarga. Perciò anche
nel Teeteto l’opposizione tra Socrate ed i più, tra Socrate
e la rettorica sofistica, tra l’esigenza ideale di Platone e
il pragmatismo degli uomini della caverna, rimane completamente
viva ed essa è posta con la stessa crudezza con cui
ci appare nell’Apologia e nel Fedone. È proprio questa
esigenza che giustifica il ritratto del filosofo contrapposto ai
sapienti della pratica.
La conquista del vero procede di pari passo con la distinzione
tra ciò che è saggezza sofistica e saggezza filosofica,
tra il « sofista » e il « filosofo » a cui doveva essere dedicato
un dialogo che poi, non si sa perchè, non è più stato
scritto. Ognuno vede come il contrasto tra sofistica e filosofia
corra lungo tutto il pensiero platonico e come la
continuità del motivo della distinzione tra Socrate ed i suoi
accusatori si fonda con la ricerca del vero e con il completo
dispiegamento della teoria delle idee come la si ritrova nel
Sofista e nel Filebo. L’unità ideale tra i dialoghi metafisici
ed i dialoghi socratici viene così, anche da questo punto di
vista, riconfermata, in quanto in ambedue i gruppi di dialoghi
si rivela la stessa fondamentale esigenza e la stessa
fondamentale equazione: la ricerca della verità coincide
con la sempre maggiore determinazione di ciò che alla verità
si oppone, cioè il non essere del sofista.
Sembra quindi inutile discutere se lo scopo principale
del Teeteto sia la raffigurazione del filosofo di fronte ai pratici
della scienza o la ricerca del modo che renda possibile
una conoscenza del molteplice e della sensibilità. I due scopi
sono paralleli e si fondono l’uno nell’altro.
— I9i —
La seconda critica. — Da ciò che si è detto a proposito
del contenuto dell’apologia di Protagora apparirà chiaramente
in che direzione si svolgerà la nuova critica di Socrate.
Infatti da un lato essa dovrà criticare la doxa in quanto
si crede possibile di derivare da essa qualcosa di vero e di
fondare su di essa, e solo su di essa, la scienza che ha invece
esigenze a cui la doxa non può soddisfare; dall’altro
essa dovrà contrapporre alla saggezza di Protagora la saggezza
più alta e più nobile del filosofo ed è precisamente
qui che trova il suo posto la disgressione di Socrate su tale
argomento. Ciò che sembra a ciascuno, secondo Protagora,
così è come a lui sembra. La conseguenza che da questa
affermazione si può dedurre non sarà mai che un’opinione
sia vera rispetto ad altre che sono false, ma piuttosto che
tutte le opinioni sono vere. L’opinione che è vera per me è
falsa per una quantità enorme di altri uomini. La verità
di Protagora non esiste dunque che per lui. Supponendo
che egli vi creda e che gli altri si rifiutino di credervi, per
tante volte il numero di coloro a cui non sembra vera sorpassa
il numero uno, per altrettante la sua verità sarà non
esistente piuttosto che esistente (171 A). Non solo ma poiché
tutte le opinoni sono vere, le opinioni dei più che negano
quella di Protagora saranno vere e con ciò Protagora ammette
come falsa la sua stessa opinione (171 B). Così la verità
di Protagora non sarà vera per nessuno: né per lui né
per gli altri (171 C). Del resto, dato che Protagora vuol restare
all’opinione, si potrà opporgli che effettivamente, come
egli stesso ha affermato, le opinioni non si equivalgono
e che, per esempio, nel caso di una malattia, l’opinione che
più vale sul metodo di guarirla non è certo quella del primo
venuto ma piuttosto quella del medico (171 E). Certo per
uno stato il giusto è ciò che sembra giusto, ma dato che i
saggi, come lo stesso Protagora afferma, devono fare in
modo che sembri giusto ciò che è più utile, dove troveranno
essi il criterio per giudicare di questa utilità? Protagora
viene così criticato attraverso la sua stessa esigenza di sor
passare la sua posizione relativistica. Restando sul piano
di essa la verità di Protagora non può valere universalmente,
non appena cioè si considera un’opinione come centrale
anche le opinioni contrarie a questa devono essere poste
come tali. L’esigenza di universalità spinge a superare il
relativismo sensibile ma è assolutamente irrealizzabile sul
piano di quel relativismo. Il medico che compie l’inversione
delle sensazioni supera già il piano delle sensazioni, infatti
se queste si equivalgono per che ragione invertirle? C’è
già nel medico il senso di ciò che è migliore e di ciò che è
peggiore, di ciò che è più utile e meno utile. La stessa cosa
vale per il sofista in rapporto alle leggi della sua città: se
la sua rettorica tende a far accettare una maggiore utilità
vuol dire che egli ha l’idea di questa utilità. Altrimenti la
sua rettorica può essere solo giustificata dalla volontà di
far prevalere il suo punto di vista, la sua visione dello
Stato sarebbe in realtà quella di Trasimaco. È significativo
che la posizione, di Protagora non possa venir criticata
in tutta la sua interezza se non sulle basi poste dalla
Repubblica.
L’utilità dello Stato è legata indissolubilmente con l’idea
di quello, questa è solo possibile sul piano della dialettica
filosofica della Repubblica e attraverso la sua ascesa all’idea
del bene. La disgressione di Socrate sul filosofo contrapposto
agli uomini della saggezza pratica acquista così il suo
pieno significato se si pensa che connette il Teeteto con la
Repubblica e quindi con tutti i dialoghi socratici in cui domina
l’esigenza di una dialettica ascendente. Poiché il Teeteto
mira anche a porre i fondamenti di una diairesis e
quindi di una logica formale, questo richiamo è un richiamo
alla logica filosofica senza la quale è impossibile porre
le basi della stessa diairesis e senza la quale non è superabile
totalmente, dal punto di vista generale filosofico e non
solo logico-formale, la posizione di Protagora. Tutta l’anteriore
opera di Platone è qui richiamata con l’evidente intenzione
di sottolineare la necessità di tenerla presente, spe
cialmente ora che l’interesse si dirige sopratutto verso la
conoscenza del mondo sensibile. Socrate qui non poteva riprodurre
tutte le posizioni dei dialoghi socratici appunto
perchè il suo compito è di porre il fondamento di una diairesis,
a quelli si rimanda con questa parentesi sul filosofo,
che sintetizza in una apologia del vero saggio contrapposta
all’apologia di Protagora, il contenuto generale dei dialoghi
anteriori. Se si pensa poi a ciò che si è notato sull’opposizione
tra filosofo e sofista si comprenderà ancor meglio lo
scopo di unificazione dell’interesse dei vari dialoghi a cui
tende il passo in questione. Si noti il passo seguente e si
vedrà come in esso sia vivo il tono ed il contenuto dei dialoghi
socratici: « Ci sono due modelli, o caro amico, nel
seno del reale: l’uno divino e felice, l’altro privo di Dio e
pieno di miserie. Ma essi (i più, i saggi della praticità) non
se ne accorgono affatto: la loro estrema irragionevolezza
impedisce ad essi di accorgersi che non fanno che rendersi
simili al secondo modello con le loro ingiuste azioni e che
perdono ogni rassomiglianza con il primo. La loro punizione
è la loro vita stessa vissuta secondo il modello a cui
si rendono simili. Ma noi diremo loro che, se non si liberano
dalla loro praticità, quando saranno morti, la regione
libera da ogni male non li riceverà in nessun caso e che in
questo mondo essi non frequenteranno altre compagnie se
non quelle a cui si sono resi simili, uomini bassi e vili che
solo i vili frequentano; ed in questi avvertimenti, essi,
uomini della pratica, non sapranno vedere che discorsi del
tutto insensati » (176 E – 177 A). Fedone e Repubblica formano
il tono di questo passo come degli altri dello stesso
genere sparsi in questa apologia del filosofo (cfr. 176 A B,
176 D, 175 E, 173 A B). È da notare d’altra parte il possibile
raffronto con il discorso contro i filosofi che troviamo
nel Gorgia (Gor. 482 C – 486 D). I rimproveri ed i sarcasmi
di Gorgia sono qui, quasi parallelamente, assunti come virtù
dell’uomo di pensiero. Una tale libertà nel trattare l’argomento
e un tale riconoscimento del valore positivo della
proverbiale indifferenza del filosofo verso la vita pratica
sono per Platone tanto più possibili in quanto nella Repubblica
ha più volte insistito, come sappiamo, sul dovere che
hanno i filosofi di ridiscendere nella caverna delle ombre, da
cui sono saliti, per organizzarle e dirigerle secondo verità.
L’esigenza di questa discesa si esprime, dal punto di vista
filosofico, proprio nella dialettica discendente e nell’interesse
sempre più vivo per il mondo del molteplice. Perciò è qui
possibile un atteggiamento che nella Repubblica sarebbe
apparso, sotto certi aspetti, riprovevole: cioè la non praticità
del filosofo è tanto più qui affermabile in quanto si
pongono nel dialogo i fondamenti della sua stessa praticità,
del suo interesse per la doxa, di cui si vuol vedere in qual
senso sia possibile una scienza ed in qual senso possa quindi
ricollegarsi con l’ideale etico a cui tende la dialettica della
Repubblica.
Non c’è bisogno dunque di difendersi da Gorgia, i suoi
stessi sarcasmi diventano lodi: a difendere il filosofo dall’accusa
di astrattezza è sufficiente l’interesse che il dialogo
stesso dimostra per il mondo della sensibilità.
La critica dell’arbitraria estensione della doxa viene
ripresa dopo l’apologia del filosofo in una serie di passi
che riprendono la discussione interrotta e che ripresentano
ancora più energicamente l’esigenza di universalità del pensiero
che ora sappiamo ricollegarsi con la trattazione della
Repubblica e dei dialoghi socratici. Nella Repubblica la
ricerca della giustizia era basata sul suo distinguersi da ciò
che non è giustizia. Il fatto stesso che sia possibile un corrompersi
dello Stato e che questo corrompimento sia riconoscibile
è la prova del carattere razionale dello Stato come
idea. La città cerca, con le sue leggi, di raggiungere l’utilità,
ma non sempre raggiunge il suo scopo (178 A). Non
tutte le opinioni sono dunque vere ma è possibile un’opinione
falsa. Il tema che sarà in seguito sviluppato è qui
implicito: come è possibile l’errore? La tesi protagorea secondo
cui tutto è verità non dice nello stesso tempo che
tutto è errore? E non si pone perciò come necessaria, da
parte del pensiero, una distinzione tra le sensazioni secondo
i rapporti che queste assumono di fronte al conoscere? Ap plicare
l’utile non è possibile se non si sa che cosa è l’utile,
ma non si sa che cosa è l’utile se non si può distinguere da
ciò che non è utile. La vera universalità del pensiero sta
appunto in questa distinzione per cui l’utile è accettato per
la sua verità e non per l’opinione che il retore vuole imporre.
Ad una indagine più approfondita il problema appare
anche da un altro aspetto che lo ricongiunge al punto
di vista mobilistico di Protagora. Finché si resta sul piano
del movimento non si può raggiungere una verità universale:
il punto di vista protagoreo non potrà mai diventare
scienza in quanto è costretto a restare legato al tempo
ed all’empiricità del tempo. Ora è evidente che l’utilità in
quanto si ricollega alle esigenze del mondo delle idee è indipendente
e superiore non solo in rapporto alla molteplicità
spaziale ma anche in rapporto a quella temporale. « Il
mezzo di fare accettare più universalmente ancora queste
conclusioni sarebbe che la questione abbracciasse l’intera
estensione dell’idealità in cui rientra l’utile, essa si estende
infatti anche all’avvenire » (178 A). L’estensione dell’idea
accoglie quindi il tempo in sè stessa e lo trascende nella sua
universalità. Con esempi di carattere eguale a quello dei
dialoghi socratici, Socrate sviluppa questa tesi. Il criterio
per giudicare delle cose future Protagora non può trovarlo
nella sua posizione relativistica. Il medico dovrà per esempio
sapere con più sicurezza del malato se la febbre potrà o
non potrà sopraggiungergli. Così sarà l’agricoltore che giudicherà
della futura dolcezza o amarezza del vino. Ogni
arte, come sappiamo dai dialoghi socratici, è tale in quanto
ha un valore ideale e rimanda all’idea del bene, altrimenti
resta ingiustificata la sua areté. Ma il problema che sottostà
a questa trattazione è più vasto: il pensiero non si concilia,
nella sua esigenza di universalità, con il movimento
assoluto da cui invece Protagora pretende di derivare la
scienza. Si apre così la via alla terza critica di Socrate che
riguarda appunto il movimento.
La terza critica. — Socrate richiama da un punto di
vista storico la tesi del movimento. I suoi sostenitori più
energici sono gli appartenenti alla scuola eraclitea, ma la
tesi viene ricollegata con le antiche cosmogonie come già è
stato fatto nel Cratilo. In contrapposizione ai sostenitori
del movimento viene posta la scuola di Parmenide e di Melisso.
Che cosa significa, dice Socrate, dire che tutto si
muove? Si tratta in realtà di due forme di movimento, di
alterazione e di translazione (181 A). Ciò che si muove si
muove in sè stesso e in rapporto agli altri, perciò ogni sensazione
è impossibile in quanto ogni suo contenuto è eternamente
fluttuante. Le sensazioni non potranno dunque
mai dare la scienza. L’accenno a Parmenide spinge Teeteto
a chiedere una dissertazione in proposito dei sostenitori
dell’unità ma Socrate si rifiuta dicendo che non è il caso di
richiamare l’oceano di discorsi che noi abbiamo già tentato
di attraversare e ricorda, come sappiamo, il suo antico incontro
con Parmenide e la sublime profondità del dialogo a
cui questi partecipò.
Si noti ora che la tesi del movimento viene criticata in
quanto si pretende di dedurre dal movimento la scienza,
ma che il movimento non viene criticato in sè stesso e
gli viene piuttosto contrapposta come correttivo la tesi dell’immobilità
a cui si aggiunge un diretto richiamo al Parmenide.
Il Sofista ci darà la critica della stabilità eleatica,
ma già il Parmenide aveva accettato il movimento del suo
significato positivo. La distinzione tra movimento di alterazione
e di translazione si ritrova tale e quale nella prima
ipotesi del Parmenide (138 C), dove la super essenza dell’unità
viene giudicata trascendente al movimento e al riposo.
La seconda ipotesi però ci dirà che l’uno può nello
stesso tempo e muoversi e essere in riposo: il movimento
viene qui accettato da un punto di vista ideale. Il mondo
delle idee si muove senza alterarsi, restando pur sempre sè
stesso e mantenendo la sua perfezione.
La contrapposizione stessa tra Eraclito e Parmenide
lascia supporre che la posizione di Platone è nella conciliazione
dei due punti di vista. In ogni caso la giustificazione
del movimento delle idee non significa che la scienza derivi
dalla sensazione: anzi, da questo punto di vista, il
problema del movimento era stato ripreso nel Parmenide,
nella sesta ipotesi, in cui il movimento diventerà causa dell’errore
e quindi non più positivo ma negativo.
Il movimento può dunque essere considerato da due
punti di vista: in quanto è giustificabile idealmente ed in
quanto è negativo rispetto alla scienza e quindi causa d’errore.
Il mondo ideale si muove pur restando tale, il mondo
esistente si muove e può nascere e morire, il suo movimento
può essere conosciuto in quanto movimento ideale
ma può essere causa di errore precisamente, si noti bene,
come la doxa può essere giudicata vera o falsa. Il movimento
del sensibile è assolutamente relativo, è anteriore al
significato di negativo e positivo che gli si può attribuire
da un punto di vista razionale e mai da esso si potrà derivare
una scienza senza vedere in che senso il movimento è
comprensibile come razionalità e in che senso è invece causa
d’errore. Il problema dell’errore, che in seguito sarà
chiaramente posto da Socrate, è quindi anche qui potenzialmente
presente. Socrate mantiene sempre salda la sua posizione
della relatività assoluta del sensibile che qui viene
riconfermata da un nuovo punto di vista.
La quarta critica. — L’ultima critica di Socrate alla
equivalenza posta da Teeteto tra sensazione e scienza riveste
un carattere nettamente positivo. Fin qui noi sappiamo
che il pensiero pone come assolutamente relativo il piano
del sensibile e che nello stesso tempo è costretto a superarlo
se vuol derivare da esso una conoscenza. Il sensibile
non verrà più considerato ora nella sua relatività ma
in quanto può essere organizzato dal pensiero, in quanto
l’intuizione può essere assunta come contenuto di un atto
intellettivo. È ancora il principio trascendentale del conoscere
che, come aveva posto la relatività del piano del
sensibile, così pone di fronte alla molteplicità delle sensazioni
l’esigenza di un principio unitario. Il principio trascendentale
come legge, in quanto fa valere di fronte al
momento della molteplicità l’esigenza di un sapere semplice
e unitario, deve dapprima porre il molteplice come assolutamente
relativo, come contrapposto all’unità immanente
nell’atto del conoscere, in modo che le sensazioni si
rivelino, nella assoluta relatività della doxa, come fantasia.
Ma di fronte a questa nuova molteplicità che è stata
posta dal pensiero proprio per salvaguardare la propria
purezza unitaria, si ripone l’esigenza dell’unificazione, della
sussunzione del molteplice in un atto conoscitivo che possa
in esso, secondo certe determinate regole logiche, distinguere
e valutare le connessioni secondo cui i dati sensibili
si dirigono e si raggruppano. La necessità di riporre l’esigenza
unitaria del pensiero che con la sua funzione negativa
sul molteplice crea continuamente un sapere, come già
è avvenuto a proposito della giustificazione del piano del
sensibile, riporta nella scena del dialogo il giovane Teeteto
il quale, sostituito da Teodoro, era sceso al posto di semplice
ascoltatore dopo l’apologia di Protagora. Teodoro era
l’interlocutore più adatto a cui Socrate si potesse rivolgere
per criticare e riporre nei suoi veri aspetti la tesi protagorea,
senza che un resultato veramente nuovo derivasse dalla
discussione. Da Teodoro non nasce sapere, è giustamente
Teeteto che si pone, nella sua affinità personale con Socrate,
come il termine su cui agisce il metodo maieutico
quale applicazione in atto del metodo trascendentale. Teeteto
ritorna così in scena non appena la discussione ripresenta
la necessità di creare un nuovo punto di vista possibile
proprio attraverso il continuo giuoco tra molteplicità
e unità.
L’oggetto della discussione, l’equivalenza cioè tra
scienza e sensazione, sarà riposta ancora una volta, non
più come amplificazione dei punti di vista da cui si può
accettare il suo relativismo e rifiutare la sua pretesa di valere
come conoscere, ma per vedere se attraverso lo sviluppo
della critica è possibile derivare da essa ancora un
resultato positivo. Perciò Socrate si rivolgerà a Teeteto « ed
alle sue concezioni sulla scienza » da cui tenterà « di liberarlo
per mezzo della sua arte maieutica » (184 B).
Ogni sensazione, dice Socrate, è possibile in quanto ad
essa corrisponde un organo; alla vista, per esempio, gli
occhi. Ora gli occhi che cosa sono se non il mezzo con cui
noi vediamo? Per mezzo di essi noi raggruppiamo le sensazioni
visive. Ma l’esempio degli occhi ha semplicemente
il valore di un paragone. La conclusione è che « c’è un’idea
unica, anima o come si voglia chiamarla, dove tutte le sensazioni
convergono insieme e per mezzo della quale, usando
le sensazioni come strumenti, noi percepiamo tuttisensibili » (184 D). Le sensazioni sono slegate tra loro e,
come sappiamo, assolutamente relative, la visione è data
dagli occhi, l’audizione dalle orecchie; le sensazioni sono
divise dagli organi di senso, come può allora il pensiero
conoscere qualcosa che si formi dall’insieme di più sensazioni
distinte dei relativi organi di senso? Vedere ciò che in
uno stesso dato lega le sensazioni della vista con quelle
dell’udito non sarà mai possibile se si resta sul piano del
sensibile. Da dove proviene l’unificazione? Il primo carattere
comune che il pensiero riconosce tra due sensibili è
che ambedue sono (185 A), ad ambedue è applicabile quindi
la categoria dell’essere. In questo modo viene già assunta
la sensazione sotto l’attività del conoscere di essa è ora possibile
dire ciò che non si può dire della fantasia : è o non è
(185 E). Teeteto comprende subito ciò a cui vuole arrivare
Socrate: il pensiero comprende il sensibile e riconosce il
suo essere superando la sua relatività in quanto forma il
sensibile con le categorie ideali, oltre che di essere e di non
essere, di somiglianza e di dissomiglianza, di identità e di
differenza e così di seguito (185 D). Ora quale è l’organo
che conosce queste categorie? Sono esse derivabili, in quanto
permettono il conoscere, dal sensibile, o sono a priori?
Queste categorie (koinà) non hanno come i sensi un organo
loro proprio; è l’anima che, « auté dia autés », applica le
idee comuni. Esse sono dunque a priori. La categoria prima,
quella che ha maggiore estensione è l’essere (186 A) e
la problematica della sua applicazione e dei suoi rapporti
con le idee verrà studiata, come vedremo, nel Sofista. Qui
si pretende da Teeteto semplicemente il riconoscimento che
l’essere non è un dato realistico. Perciò è il pensiero che
può affermare ciò che è o non è e solo il pensiero può attribuire
o no la categoria dell’essere.
In conclusione, dice Socrate, « uomini e bestie hanno
il potere della sensazione per ogni impressione che, attraverso
il canale del corpo, si incammina verso l’anima. Ma
ragionamenti che confrontano queste impressioni nel loro
rapporto con l’essere » appartengono all’anima e si raggiungono
attraverso l’esercizio e lo studio. La verità non
si conquista che nella sua essenza e nella sua totalità e, se
non la si raggiunge, la scienza è impossibile. Ciò non ha
un senso dogmatico ma significa che solo la ragione può
applicare la categoria dell’essere: il sensibile come tale è
al di là di questa categoria (186 C D), la scienza non va
dunque ricercata nel sensibile, ma nell’atto che pone il
sensibile, u con cui l’anima s’applica sola e direttamente
allo studio degli esseri » (187 A).
Come è facile vedere le conclusioni di Socrate sono di
decisiva importanza. Si conclude prima di tutto che le sensazioni
possono diventare il contenuto dell’atto del conoscere
che le regola secondo le sue categorie. Il ragionamento
solo può predicare l’essere confrontando le sensazioni
: questo « confrontare », qui ancora indeterminato,
diventerà più tardi il dividere del metodo diairetico. Solo il
ragionamento può inoltre valutare fino a che punto una
— 20I —
cosa è utile e si allude qui direttamente alla dialettica ascendente
del metodo filosofico che ricollega le diverse aretaì
con l’idea del bene. Il conoscere non è un dato, non accetta
passivamente il suo oggetto, ma è studio di questo
oggetto, l’esercizio dialettico a cui consigliava Parmenide,
un farsi continuo di sè e dei proprii contenuti. Perciò la
scienza non è data, nè potrà mai esserlo, in quanto come
atto conoscitivo trascende continuamente ogni suo particolare
contenuto. L’essere è la conseguenza dello studio che
l’anima compie e questo studio è la scienza come principio
trascendentale che pone via via come suo oggetto le particolari
forme del conoscere, sensazioni, categorie, unificazione
delle idee nell’unità, comprensione del sensibile attraverso
l’atto categoriale. Si rimanda quindi alla totalità
della sistematica filosofica quale si viene svolgendo dal
principio trascendentale. Perciò Teeteto non potrà mai affermare
che la scienza è questo o quello, potrà solo porre
questo o quel contenuto fenomenologico del conoscere affermando
che è scienza, in modo che Socrate sia costretto
a superarlo ed a negarlo riaffermando che non è scienza.
Sapere è proprio questo sapere e non sapere e in quanto
Teeteto svolge continuamente le sue posizioni dogmatiche
nella loro aporética, in tanto Teeteto conosce, sa, si crea il
suo sapere sotto la continua influenza della maieutica di
Socrate.
La scienza come giudizio, il metodo diairetico e il problema
dell’errore. — L’atto in cui si crea e si esprime la
scienza è dunque l’atto trascendentale che, superando sempre
il determinato contenuto che pone come sapere, supera
così continuamente sè stesso. Quest’atto, dice Teeteto, si
può determinare come il giudicare: doxazein. I limiti di
comprensione di Teeteto sono subito chiaramente posti: la
scienza è il giudizio in quanto doxazein. Ancora una volta
il conoscere viene identificato con una delle sue forme particolari,
l’atto trascendentale con una delle sue forme fe
nomenologiche. La posizione di Teeteto permetterà d’altra
parte di svolgere da essa un particolare sapere, di svolgerlo
e, naturalmente, di superarlo.
Si è spesso tentato di riconoscere in questo doxazein
del Teeteto un senso diverso dal senso che comunemente
viene attribuito al verbo da Platone. In quanto deriva da
doxa, doxazein significa avere un’opinione ed in questo
senso è stato già più volte usato il verbo nelle precedenti
pagine del Teeteto. Ora è evidente che Teeteto col suo nuovo
doxazein non intende più il verbo nel suo semplice senso
di avere una opinione. Egli risponde a Socrate il quale
aveva affermato che la scienza non si può trovare nella
sensazione « ma nell’atto, qualsiasi nome abbia, per cui
l’anima, da sola e direttamente, pragmateuetai perì ta onta
» (187 A). Teeteto non sa trovare altro nome per questa
attività dell’anima che doxazein. Esso indica dunque
per Teeteto il lavoro dell’anima quando, paragonando le
sensazioni, si forma un’opinione su di esse; questo formarsi
un’opinione è poi in relazione allo studiare ta onta. Teeteto
ha una certa idea di questa relazione poiché, come abbiamo
precedentemente visto, egli ha riconosciuto che il conoscere
si svolge attraverso le categorie. Avere un’opinione
è affermare qualcosa su un gruppo di sensazioni in rapporto
alle categorie: opinare diventa dunque giudicare. Ma
è nello stesso tempo evidente che Teeteto non va oltre il
concetto di doxa. Il modo con cui Teeteto intende il giudizio
resta legato al modo con cui egli intende la doxa. Poiché
questa è l’opinione, e come tale non è, sul piano del
pensiero, né vera né falsa, il giudizio sarà l’atto che, paragonando
le opinioni, giudica quale di esse sia vera e questo
atto è il doxazein. Il problema del criterio con cui il
pensiero divide il falso dal vero, Teeteto quando dice doxazein
non se l’è posto: esso è già dato per lui nel fatto di
opinare vero. Non c’è bisogno quindi di superare la doxa
per giudicare: il giudizio è l’applicarsi della doxa e la doxa
stessa in questo suo applicarsi è verità. Perciò egli conclu
de: scienza è l’opinione vera. Il doxazein ha dunque un
doppio significato che giustifica la sua doppia interpretazione:
esso tende a diventare giudicare, ma pone un giudizio
che non esce dalla doxa e come tale vien detto opinare.
Teeteto non vede che è la categoria dell’essere che può
permettere la distinzione tra vera e falsa doxa. Perciò Socrate
è costretto a porre il problema dell’opinione falsa e a
porlo nei seguenti termini : « in tutti i casi in cui noi parliamo
di opinione falsa, in cui noi diciamo che uno di noi
giudica falsamente e l’altro giustamente, affermiamo noi
che questa distinzione (di giusto e falso) esiste in natura? »
(187 E). Teeteto risponde affermando. Il vero e il falso
sono quindi concepiti da lui come dati e non come predicati
del giudizio. Egli non s’accorge, in altre parole, che quando
il giudizio dice è o non è applica la categoria dell’essere
a questo o a quel dato che non di per sè stesso è o non è,
perchè in quanto sensazione è sempre dato se l’opinione,
sul suo piano, è sempre vera. Così Teeteto corre il rischio
di dogmatizzare di nuovo quel piano del sensibile di cui già
aveva riconosciuta la assoluta relatività e di cui già aveva
criticato l’aspetto realistico. Di fronte a questa ricaduta Socrate
ripone immediatamente la sua posizione trascendentale.
Sembra dunque, secondo il punto di vista di Teeteto,
che la scienza sia sempre sapere, essa conosce ciò che è,
non distingue ciò che è da ciò che non è, è un prendere l’essere
dove c’è e farlo diventare conoscere, ma non è il conoscere
che pone l’essere. Perciò o si sa o non si sa: si sa
quando al sapere corrisponde ciò che c’è, già dogmaticamente
dato, non si sa, quando il dato non c’è. Ma è possibile
una sensazione senza il suo contenuto? C’è dunque una
realtà oltre il sensibile? È in essa il criterio del vero e del
falso, se in quanto essa c’è, c’è la sensazione e quindi il conoscere,
e in quanto non c’è il conoscere non può svilupparsi?
Teeteto dovrebbe rispondere affermativamente a tutte
queste domande e perciò dovrebbe concludere che conoscere
è sempre conoscere il vero e che il conoscere il falso è impossibile,
perchè dovrebbe determinarsi come conoscenza
di cose che non sono, le quali, se non sono, non possono
dar luogo a sensazioni e quindi a conoscenza. Ma se il conoscere
è sempre causato da cose che sono esso è sempre
vero: come mai allora è possibile l’errore? Come è possibile
un giudizio sbagliato? Il realismo dogmatico non potrà
mai risolvere un problema simile. L’affermazione che Socrate
è costretto a riporre (188 B) si colorisce della sua tipica
ironia: è impossibile sapere e non sapere nel medesimo
tempo? È impossibile, conferma Teeteto e deve confermarlo.
Chi può svolgere il significato completo della formula
socratica per cui sapere è sapere di non sapere? Non
è in essa che si attua l’infinito processo del conoscere che
prende coscienza di sè; non è essa stessa l’aspetto più chiaro
della legge trascendentale che sa in quanto unifica, ma
non sa in quanto eternamente ripone il problema della
molteplicità?
Il problema non è facile neppure per il pensiero moderno:
perchè la fenomenologia dell’errore si pone come
una fenomenologia della verità? E non si potrà mai risolvere
se si crede che l’errore o la verità siano dati e se,
conseguentemente, l’essere e il non essere sono concepiti come
anteriori al giudizio che invece li pone. Perciò è necessario
che prima che il giudizio si formi si riconosca il sensibile
come una sfera assolutamente indipendente dalle categorie,
di cui è impossibile dire se è o non è, se è vera o
falsa, perchè in quanto il sensibile è appunto il sensibile
non può essere che un vero sensibile. Solo l’inesauribilità
di questa sfera dell’illimitato giustifica il limitare della ragione
che altrimenti si pone come uguale a sè stessa in un
vuoto giudizio di identità. Il conoscere in quanto continuo
movimento trascendentale è un affermare e un negare, ma
proprio in quanto continuamente trascende i termini che
afferma o che nega. Ora l’errore non consiste già in ciò
che si nega, per esempio nel piano della sensibilità che il
conoscere nega per la sua esigenza di universalità e di autonomia,
o in ciò che si afferma, per esempio nello stesso piano
del sensibile affermato nella sua assoluta relatività, ma
nel non trascendere sia l’affermazione che la negazione e
nell’arrestare il movimento conoscitivo nell’una o nell’altra.
Allora si sbaglia in quanto il sensibile si presenta come assolutamente
negativo di fronte al pensiero che esige l’assoluto,
oppure quello si presenta come tutto il conoscere in
quanto scienza e allora la scienza si relativizza. L’errore
nasce non appena si assume uno dei momenti fenomenologici
della verità come tutto il sapere. Ma quando questo
momento fenomenologico viene riconosciuto come tale tutta
la fenomenologia dell’errore diventa fenomenologia della
verità come lo spiegarsi fenomenologico dello stesso principio
trascendentale.
Così posto il problema si trasforma immediatamente
in quello dell’essere e del non essere. Infatti come sapere è
anche non sapere, come nello stesso tempo che si afferma il
vero si pone il non vero, così, poiché l’essere è un predicato
del pensierose ne deve necessariamente concludere
che l’essere è anche non essere. Il problema del Sofista comincia
proprio qui. Il giudizio che dice è, visto nel suo
profondo significato, deve necessariamente anche dire non
è. Infatti, come si sa, il metodo diairetico si esprimerà proprio
in questo modo: una cosa è in quanto non è un’altra
cosa. La complessa struttura del metodo diairetico in tanto
è valida in quanto l’analisi di un dato è sempre ricollegata
al momento trascendentale del pensiero. La più piccola analisi
presuppone l’intera sistematicità della ragione per cui
l’essere e il non essere non sono dati ma continuamente
posti e negati. L’errore di un’analisi, lo scambio nel giudizio
di un è con un non è, non è possibile se non si scambia
il rapporto delle categorie stesse del pensiero e se non
si nega quindi tutta la struttura ideale della realtà. Perciò
Parmenide quando nella sesta ipotesi riporrà il problema
dell’errore, della doxa in quanto falsa, dovrà riportarsi al
l’unità ideale e riconoscere la possibilità di rapporti negativi
nel seno dello stesso mondo ideale. È lo scambio dell’essere
col non essere che causa l’errore. Ma poiché il pensiero
non dogmatizza mai l’essere o il non essere ma continuamente
li trascende ne sorge il problema che si pone il
Sofista: in che senso il non essere è?
Se io giungo a dire : la casa è un oggetto animato, dietro
a questo mio giudizio sta tutta una sistemazione falsa
del mio pensiero. Come può vedere il mondo un uomo che
giunga ad una simile affermazione? E in che cosa consisterà
la sua visione falsa del mondo? Essa deriva certamente
da un’infinità di mancate distinzioni che si riportano però
ad una fondamentale. Egli deve per forza credere che tutto
ciò che è è animato e restare fermo in questa sua credenza :
non appena un oggetto gli si presenta invece di dire che
non è in rapporto all’animato dice che è animato. Il concetto
di animato viene concepito dogmaticamente, il sapere
di quell’uomo non si supera, non si muove, e mentre di
fronte alla varietà degli esseri il pensiero si moltiplica continuamente
distinguendoli in questa sua moltiplicazione e
ponendoli appunto come esseri, egli si arresta ad uno di
questi e ad esso identifica gli altri. Ora non è che la casa
non sia o che l’animato non sia, in una visione sistematica
dell’universo non errata ambedue sono; è la visione sistematica
che, in quanto non si è sviluppata in tutta la sua
problematica, è errata e perciò fa sì che il giudizio scambi
l’essere con il non essere. L’errore è dunque sempre un
mancato moltiplicarsi del sapere e quindi una mancata
esplicazione del principio trascendentale del conoscere. Se
si abbandona l’esempio sopra portato e si pensa ad errori
più probabili e immensamente più vasti, come quello per
cui il conoscere viene identificato con uno qualsiasi dei
suoi momenti fenomenologici, si vedrà che l’errore, tanto
più quanto più ci si avvicina ai problemi della filosofia, è
proprio il farsi della verità che si pone in un suo momento
per negarsi in un momento più universale del primo, che
si esprime in una metafisica per negarla e comprenderla in
una metafisica più vasta e più ricca della prima, che infine
conosce in quanto continuamente ha coscienza di non conoscere
mai.
Dunque l’errore si giustifica in quanto è visto nella totalità
sistematica del sapere. Se si parte dal principio per
cui ciò che si sa non si può più negare e, analogamente,
ciò che non si sa non si può sapere, non si arriverà mai a
rendersi ragione dell’errore. I tentativi di capire l’errore su
questo piano saranno sempre infruttuosi. È impossibile confondere
ciò che si sa con ciò che non si sa (188 B). Considerato
il conoscere come sapere di una cosa reale l’errore è
impossibile. « Forse che — nota Socrate — non bisognerà
dirigere la nostra ricerca da questo punto di vista, ma invece
di prendere in esame l’opposizione tra sapere e non
sapere, occuparsi dell’essere e del non essere? » L’errore
sarebbe così l’affermare su qualsiasi cosa ciò che non è
(188 D). Ma sarà possibile un giudizio su ciò che non è?
Colui che giudica ciò che non è non giudica nulla (189 B)
e giudicare falsamente è diverso dal giudicare ciò che non
è. Il giudizio errato non è certo il riconoscere come un
reale che è un reale che non è, perchè è impossibile giudicare
sul nulla.
Socrate continua supponendo che errare sia scambiare
una cosa con un’altra, per esempio, dice Teeteto, il bello
con il brutto. Ma per far ciò bisogna pensare ambedue le
cose. Ora pensare è un discorso che l’anima fa con sè stessa,
indirizzandosi continuamente domande e risposte e passando
dall’affermazione alla negazione. « Quando essa si
ferma e si trova contenta della sua affermazione e non giudica
più, è questo che noi diciamo che è, in essa, il giudizio
» (190 A).
Quest’ultimo è quindi l’espressione del dialogo interiore
dell’anima: ora si può, davanti a noi medesimi, dire
che il bello è brutto? Può anche il folle affermare davanti a
sè che il bue è un cavallo e che uno è uguale a due? (190
B C). In altre parole Socrate nota che se si afferma che il
bello è brutto o si dice che il bue è un cavallo, vuol dire
che si conoscono sia il bue che il cavallo, e, conoscendoli
ambedue, come si fa a dire che l’uno è l’altro? Tanto meno
è poi ciò possibile se si conosce uno solo di essi. L’errore
non nasce mai dalla conoscenza o non conoscenza delle
cose come tali. Se io dico che il bue è un cavallo vuol dire
che non ho distinto due specie e che, per esempio, io identifico
il genere quadrupede, che considero come cavallo,
con tutte le specie che hanno quattro gambe e il mio pensiero
non è arrivato allora a distinguere nel genere quadrupede
le speci differenti. L’errore nasce dall’arrestarsi del
pensiero in un giudizio prima che il pensiero si sia completato
nel suo dialogo interiore. Ma se io arrivo a fissare,
nelle intuizioni infinite di cui è composto il mio mondo sen
sibile, il cavallo come una specie e il bue come un’altra è
logico che io non potrò mai confondere i due concetti davanti
a me stesso. Se lo faccio è perchè il mio pensiero non
è arrivato a certe distinzioni e non perchè scambio due conoscenze
che possiedo o una conoscenza che possiedo con
una che non possiedo. Certo il giudizio presuppone la infinita
libertà delle sensazioni su cui fissa, sintetizzandole,
il suo atto. Ma il suo essere o vero o falso non dipende dalle
intuizioni ma dal suo movimento interiore. Nel mio mondo
d’intuizioni io posso intuire il cavallo e il bue, posso vederli
e pur non riuscire a distinguerli se, col pensiero, non
ho distinto la specie equina da quella bovina. E se anche
vedo le loro differenze, senza il giudizio posso sempre cre
dere che siano differenze analoghe a quelle tra un cavallo
nero e uno bianco o tra un bue grande e uno piccolo.
Se l’errore è possibile è dunque nell’interno di me
stesso, nel dialogo interiore che l’anima fa con sè medesima
: esso non può essere causato dalla estrinsecazione verbale
del giudizio. Ciò che Teeteto non capisce è il fondamento
del giudizio nel pensiero e il suo ricollegarsi al principio
trascendentale: il suo giudizio è un atto dogmatico e
non un momento fenomenologico del conoscere; solo trascendendo
il giudizio si fonda il suo valore, finché si rimane
in esso e si pensa che l’atto slegato del giudicare sia sapere
non si riuscirà mai a capire la sua funzione conoscitiva e
tanto meno a giustificare il giudizio errato. Diès, per quanto
veda il problema in maniera diversa da noi, ha perfettamente
ragione osservando che « per chi pone la scienza
come superiore al giudizio vero (l’opinione vera di Teeteto),
è possibile un intermediario tra scienza e non scienza. Ma
non ce n’è più per chi riporta la scienza al giudizio vero,
solo due posizioni sono loro possibili: sapere o non sa
pere » ‘).
In conclusione Socrate conosce la sfera di validità del
giudizio solo in quanto la trascende e riconduce il giudizio
al principio trascendentale del conoscere. In ciò la conclusione
positiva della critica alla seconda definizione di Teeteto,
nel rigettare il giudizio come forma dogmatica della
scienza si esprime invece di quella critica l’aspetto negativo.
Però c’è ancora una possibile, o meglio impossibile,
spiegazione dell’errore, rimanendo nel campo della seconda
definizione di Teeteto; c’è quindi ancora una critica da
fare. Ciò che si pone in questione è la memoria e l’oblio,
conseguentemente il giudizio falso non consisterebbe « nè
nelle sensazioni, nè nel loro rapporto, nè nel pensiero, ma
nell’assunzione della sensazione da parte del pensiero »
(195 C). Socrate critica questa spiegazione notando che in
questo modo non si spiega la possibilità dell’errore in quan
to si forma nell’interno del pensiero stesso, come avviene
per esempio negli errori di numeri. Si potrebbe inoltre di
stinguere tra avere la scienza e possedere la scienza. La si
ha come ricordo, la si possiede quando si fa rivivere questo
o quel ricordo, a seconda della necessità, del giudizio. Non
si può ora scambiare un ricordo per un altro ed attuare nel
giudizio un ricordo che non corrisponde? L’errore è dun1)
A. DIÈS: Autour de Platon cit. II, Pag. 461.
que un sostituire un ricordo con un altro, un sapere con lo
stesso sapere? Ma allora è proprio il sapere che ci fa sbagliare
e la conclusione è assurda. L’introdurre un sapere
accanto a un non sapere è possibile? Essi dovrebbero essere
l’oggetto di un nuovo sapere e così all’infinito (200 B).
I problemi che Socrate pone vertono ancora su un giudizio
inteso nel piano della doxa e indicano il punto di vista
per superare tale posizione. Prima di tutto in che senso va
inteso il rapporto tra sensazione e intelletto? In che modo
il molteplice del sensibile viene assunto nel giudizio? Come
sappiamo è il giudizio che distingue tra vera e falsa doxa,
in che senso questa si pone come suo contenuto e in che
senso si compie l’adeguazione del sensibile con la forma
logica del giudizio? Come mai l’illimitato della sensazione
si limita? La sensazione assunta nel giudizio vale ancora
come sensazione? D’altra parte come può il pensiero limitare
l’illimitato? Il metodo diairetico risponde a questi problemi
che sono gli stessi che si pongono a proposito della
partecipazione tra idee cose, a cui si risponde nella seconda
parte del Parmenide. Ma qui il problema si ripone in modo
specifico in rapporto al giudizio. Ora se nel giudizio è la
copula che unisce soggetto e predicato, quale è la sua funzione?
Come sappiamo essa attribuisce l’essere alle sensazioni:
il problema si ampia dunque in quello dell’essere.
Il suo concetto deve essere tale che unisca l’infinità del
molteplice con il limite del pensiero, che ponga un rapporto
quindi tra l’unità e la molteplicità. Ora il giudizio della
diairesis raccoglie le rappresentazioni e limita nella loro
illimitatezza quelle che interessano l’oggetto della ricerca:
il sensibile allora è, in quanto il mondo delle idee, moltiplicandosi,
raggiunge il molteplice e lo giustifica nella sua
concatenazione. L’essere del sensibile non è dunque che
l’essere delle idee o meglio il mondo del sensibile limitato
in quanto ideale. Il giudizio non prende una sensazione per
farla diventare idea, ma il pensiero moltiplicando nel mondo
delle idee, raggiunge, in questa o quella direzione, l’idea
di un dato sensibile: quest’idea è l’idealità del sensibile, la
sua essenza, il suo essere. D’altra parte d’idealità di un
solo sensibile non è ammissibile che nell’idealità di tutto lo
sviluppo del pensiero sistematico: l’essere di una sensazione
si può giustificare solo in quanto ricollegabile con
l’essere delle idee. Ora poiché nel Parmenide l’essere viene
continuamente determinato come un rapporto tra unità e
molteplicità e poiché il variare del rapporto dà all’essere
sempre nuovo significato, il giudizio di cui l’essere si pone
come copula varia di significato a seconda del rapporto che
in esso assumono unità e molteplicità. Perciò nella seconda
ipotesi del Parmenide l’è ha solo il significato che assume
in un giudizio di relazione, nella dialettica ascendente l’è
nega continuamente ogni predicato che non può essere assunto
nell’identità assoluta del soggetto e nel metodo diairetico
l’è varia ancora di senso, come si è visto. La diairesis
è possibile solo in quanto il rapporto tra molteplice e
unità si è determinato in modo tale che il molteplice, nella
quarta ipotesi del Parmenide, si è costituito come il mondo
reale esistente in quanto perfetto. È in questo modo che il
giudizio si moltiplica, quindi il suo « è » equivale qui ad
« esiste ». Esistere che significa esistere in modo perfetto in
quanto l’esistenza perfetta è l’aspetto ideale del sensibile
e quindi la sua possibilità di connettersi col mondo ideale.
Il sensibile in quanto perfetto è già dedotto, quando si pronuncia
un giudizio su di esso, dal mondo ideale: la quarta
ipotesi lo ha giustificato come una necessaria posizione della
correlazione unità e molteplicità. In questo modo il giudizio
non trova nulla davanti a sè da formare, non un contenuto,
non una rappresentazione. La rappresentazione in
quanto vera è già idea, anzi è l’idea, è il pensiero che la
pone come tale e non un sensibile posto oltre il pensiero che
la pone di fronte al pensiero stesso. Il giudizio non ha nulla
fuori di sè da assumersi, tutto è dentro di lui e ciò è naturale
se effettivamente il sensibile non è un dato ma è posto
dal pensiero. Il problema dell’errore si giustifica nello stesso
modo in quanto nell’interno stesso del mondo ideale si pone
non solo l’esistere come perfetto ma anche l’esistere come
indipendente dalla perfezione e infine l’esistere come imperfetto
e negativo. L’illimitato della sensibilità è un momento
del pensiero in quanto è posto dal pensiero, il giudizio
nella sua funzione di limite è un altro momento del
pensiero che questa volta, variando la correlazione unità
molteplicità, pone il sensibile come perfezione dell’esistente.
Dato ciò che si è precedentemente osservato il ricorso
alla memoria e all’oblio perde ogni significato di fronte al
problema che è qui puramente teoretico e non può venire
risolto psicologicamente. Il passaggio da sensazione al giudizio
non sarà mai possibile se nell’interno del pensiero stesso
non si passa da una posizione ad un’altra: solo il Parmenide
giustificando il passaggio da ipotesi a ipotesi e quindi
le possibili posizioni della correlazione trascendentale
giustifica nel medesimo tempo la possibilità del giudizio.
Finché si pensa che il giudizio sia un atto unificatore di elementi
dati non lo si potrà mai capire.
Lo stesso si può dire del tentativo di giustificare l’errore
per mezzo della distinzione di avere e possedere la
scienza. Si tratta di una nuova materializzazione del processo
conoscitivo. Quando io giudico erroneamente è perchè
il mio pensiero, e in esso la correlazione unità, e molteplicità,
è mutato in quanto il mondo delle idee vi si pone in
rapporti negativi. Altrimenti come giustificare le scienze
e le non scienze che avrei, materializzate, nella coscienza?
L’argomento del terzo uomo si ripone qui come nella prima
parte del Parmenide quale chiara indicazione che per risolvere
la questione bisogna tener conto della seconda parte
del dialogo stesso.
Nonostante ciò le complicazioni che nascono da quest’ultima
critica di Socrate non sono esaurite, il senso da
attribuire alla rappresentazione in connessione con la doxa,
il problema stesso dal punto di vista psicologico che tanto
spesso si confonde con il pensiero, sono tutti aspetti che
chiedono diessere chiariti e saranno ripresi perciò da Platone.
Siamo introdotti così sen’zaltro alle questioni suscitate
dall’ultima definizione di Teeteto: «la scienza è opinione
vera accompagnata da ragione » (201 D). L’esempio che
Socrate usa e cioè gli elementi della sillaba che, essendo irrazionali,
non possono mai formare un razionale con la loro
somma, pone senz’altro in tutta chiarezza i problemi già
accennati che si risolvono solo richiamandosi al Parmenide.
Stenzel nota a proposito di quest’ultima definizione che
essa rappresenta il concetto del sapere che finora Platone
aveva sostenuto e di cui qui si compie la critica. La sua
giustificazione viene ricercata per tre vie che rimandano
tutte e tre al Sofista (pensiero espresso in parole, sintesi di
elementi in un tutto, ragione definita come differenza caratteristica).
Quando si nota che gli elementi sono inconoscibili
e le cose da essi composte si possono definire mediante
la combinazione dei nomi delle parti che le costituiscono
(201 E), si accenna senz’altro con questa sumploké
onomaton alla sumploké eidòn del Sofista. Con l’esempio
delle sillabe si tratta, come si è visto, di un’unità razionale
composta di parti irrazionali, la scienza è allora impossibile.
Ma è tale perchè Teeteto parla di una somma di elementi
(203 E) mentre la si doveva considerare, nota sempre
lo Stenzel, come un elemento nuovo. Solo l’idea divisibile
della diairesis può risolvere tutti i problemi ed è alla
diairesis che si rimanda cercando di definire la ragione per
mezzo della differenza caratteristica. Stenzel nota giustamente
che solo il Parmenide poteva permettere di risolvere
le contraddizioni di Teeteto e crede di vedere in questa
parte del dialogo una chiara critica della teoria delle idee
già criticata nel Parmenide ]). A parte questa critica all’inesistente
passato dogmatico di Platone, le osservazioni di
Stenzel sono notevolissime. Effettivamente solo la diairesis
risolve i problemi che si pone Socrate, ma se la definizione
1) S TENZEL: Op. cit. Pag. 43-44.
di Teeteto viene criticata non è perchè essa rappresenti un
pusto di vista superato. Diés ha per esempio notato che ciò
che manca a quella definizione per accordarsi al punto di
vista del Fedone e del Menone è di ssere un ragionamento
causale che si riattacchi alla definizione generale dell’essere
inteliligibile e quindi alla reminiscenza. I concetti generali
di esistenza, di identità e di eguaglianza, devono ricollegarsi
alla realtà intelligibile che loro dà senso e valore. Se
non si vede che i rapporti imperfetti del molteplice tendono
all’unità in sè non si raggiunge mai il legame che stabilisce
la doxa nè la sua giustificazione razionale ‘).
Il fatto è che Teeteto materializza ancora il suo concetto
di scienza. Siamo ora sul piano della diairesis e cioè
di una concatenazione di giudizi che deve permettere la conoscenza
del molteplice; Teeteto vede bene che è la ragione
e non la doxa che rende possibile il sapere ma concepisce
la ragione come il resultato materiale della unificazione dei
molteplici, mentre la divisione si compie solo nell’interno
delle idee. Con ciò nemmeno la differenza caratteristica si
giustifica quando, come nell’esempio di Socrate, viene materializzata.
La differenza caratteristica vale in quanto mezzo
di divisione e non è possibile ritrarla dal contenuto sensibile.
Ancora una volta solo il Parmenide può rispondere,
come nota bene lo Stenzel. Teeteto non ha ancora abbandonato
il suo concetto dogmatico di opinione a cui si viene
ad aggiungere come un altro concetto dogmatico, la ragione.
La razionalità della diairesis si giustifica solo in quanto
il Parmenide ha già giustificato la regione su cui essa deve
agire, ponendo questa in relazione ideale con il mondo delle
idee. La diairesis deve ricondurci al metodo discendente filosofico
ed al parallelo metodo ascendente e quindi a quella
regione intelligibile a cui si richiama Diés che è quanto dire,
per noi, alla legge trascendentale.
i) A. DIÈS: Op. cit. II, Pag. 467.
Il Teeteto ha così ricongiunto la dialettica ascendente,
visto come fenomenologia del conoscere, con il metodo diairetico.
Da un altro punto di vista sono dunque confermate
le fondamentali posizioni del pensiero platonico. La dialettica
filosofica, con il suo movimento ascendente, passando
per i vari sensi dell’essere conduce ad una posizione assoluta
da cui si svolge la problematica dell’uno e del molteplice,
la quale, discendendo dall’uno, giustifica tutti i vari
sensi dell’essere e quindi anche l’esistere su cui agisce il
metodo diairetico e si ricollega a sua volta con il metodo
filosofico in quanto ogni sua distinzione particolare è fondata
su una visione filosofica generale.
Quell’ascesa dall’unità da cui poi la dialettica, nel Parmenide,
scende, vista ora dopo la discussione del Parmenide
stesso, appare anch’essa regolata dalla correlazione essere
e non essere, correlazione che Socrate fa valere come
principio trascendentale di fronte al suo interlocutore che
supera, in questo modo, le varie forme imperfette o fenomenologiche
del sapere e si avvia al sapere assoluto.
Lo stesso principio trascendentale è la vita della diairesis,
che in tal modo è quindi guidata dallo stesso principio
che guida il metodo ascendente filosofico che noi già esaminammo
fino alla Repubblica e che si è rivisto qui nel
Teeteto, come lo stesso principio è quello che domina nella
discussione del Parmenide e nel processo di divisione che
si muove attraverso i vari sensi dell’essere scoperti in quel
dialogo e fissa per tutto il mondo del nostro sapere ciò che
è vero e ciò che non è vero, ciò che ha un’idea o può ricollegarsi
al mondo ideale e ciò che è invece disorganizzato
e spezzato, che non solo è rimasto oltre il giudizio, ma nel
giudizio è entrato nel momento in cui non doleva entrare,
quando il movimento di pensiero doveva ancora procedere
nel suo lavoro e si è invece arrestato.
I vecchi problemi della partecipazione e del corismos
sembrano così definitivamente risolti.
PARTE QUARTA
GLI ULTIMI DIALOGHI
CAPITOLO I.
IL SOFISTA
/7 problema degli ultimi dialoghi in rapporto al Parmenide.
— Come nel Teeteto, alla luce della discussione del
Parmenide, Platone ha ripreso il metodo socratico per delineare
una teoria del cammino che il pensiero percorre per
arrivare alla verità, così nei dialoghi metafisici e nel Timeo
egli riprende le basi fondamentali del suo sistema per raccoglierle
ed armonizzarle con i risultati del Parmenide.
Il lettore ricorderà che le nove ipotesi del Parmenide
rappresentano altrettanti piani dell’essere e che questa diversificazione
permette di risolvere il difficile problema dei
rapporti tra l’unità superessente e il mondo delle idee,
tra il mondo delle idee e il mondo delle cose e permette infine
la spiegazione della logica del metodo diairetico. Nello
stesso tempo si è vista la posizione centrale che la terza ipotesi
occupa nella discussione: essa si pone come medio tra
il mondo delle idee e il mondo creato e, riassumendo tutte
le ipotesi nell’antinomia essere e non essere, esprime la
legge trascendentale del conoscere nell’istantaneità che diventa
eternità. Il lettore d’altra parte ricorderà che le ipotesi
del Parmenide discendono dall’unità in sè perfetta ed
immobile al non essere assoluto dell’ultima ipotesi, che esse
cioè presentano tra i due opposti concetti di essere asso
luto e di non essere assoluto una gradualità di sensi dell’essere
come mediazione tra l’unità superessente e la molteplicità
dell’esistere del mondo. E poiché, come sappiamo
dalla teoria delle idee numeri lasciataci da Aristotele, l’unità
è nello stesso tempo il bene sommo, la gerarchia dei sensi
dell’essere si presenta come gerarchia di valori, come visione
finalistica ed etica del mondo, nel quale il saggio tenterà di
risalire dal nulla a quell’essere perfetto da cui pure questo
nulla è derivato.
Su queste basi Platone costruisce il suo pensiero e, per
quanto esso non si presenti in un sistema dogmatico, è visibile
in esso lo sforzo di una organizzazione sistematica, almeno
di una visione generale del mondo.
Come il Teeteto ha ripreso la teoria del metodo così il
Sofista riprenderà la teoria dell’essere. Qual’è la legge che
il conoscere attua nel suo porsi come pensiero dell’essere?
Il nuovo essere non sarà più l’essere assoluto parmenideo
come non sarà il divenire di Eraclito. Esso trascenderà queste
due posizioni, in sè dogmatiche, e si presenterà come logicamente
doveva presentarsi dopo la discussione del Parmenide
e cioè come essere correlativo tra le due opposte posizioni
di unità e molteplicità, di stasi e movimento, di medesimo
e altro. La legge del conoscere in quanto essere, che
è nello stesso tempo la vita dell’universo, sarà dunque una
legge trascendentale, in quanto si pone oltre ogni determinazione
particolare e dogmatica del conoscere, e si presenterà
quindi come correlazione pura tra gli opposti, obbligando la
pretesa del pensiero alla sua assolutezza a tener conto del
non essere che a quella assolutezza si oppone e permettendo
che l’illimitato molteplice dei concetti possa essere mediato
nell’unificazione del giudizio. In quest’ultimo le molteplici
idee che il metodo diairetico scopre potranno essere assunte
grazie alla correlatività del principio trascendentale che permette
alla molteplicità di partecipare all’unità, al medesimo
di partecipare all’altro, all’essere di partecipare al non essere,
ed a quest’ultimo di presentarsi infine non più come
mera negazione, in tal caso inconcepibile ed inesplicabile
come l’essere assoluto, ma come alterità, come non essere
che è in quanto appunto è l’altro e cioè il termine correlativo
dell’essere. Concezione questa non nuova nel pensiero platonico
e infatti chi da essa si rivolga indietro, come si è fatto
nel Teeteto a proposito del metodo, vedrà con rinnovata
chiarezza il senso oscuro di molti dialoghi, e basti ricordare
il Fedone dove già, se pur sotto un aspetto mitico e religioso,
si presentava quella correlazione tra essere e non essere,
come opposizione tra vita e morte, opposizione che
quei termini poneva come eternamente succedentisi l’uno all’altro,
e, su quella fondamentale contrapposizione, costruiva
una teoria della reminiscenza e quindi del conoscere, in
cui già il conoscere si presentava come espressione di quella
contrapposizione e quindi come prima forma di quella che
abbiamo chiamato sua legge trascendentale.
Come il problema della conoscenza e il problema dell’essere
vengono ripresi e totalmente svolti dopo il Parmenide,
così Platone riprenderà il problema della natura, della
sua genesi e della sua storia, principalmente svolgendolo
nel Timeo su basi che direttamente rimandano al Parmenide
di cui nel Timeo rivive il movimento dall’unità alla
molteplicità, dalla perfezione ideale al caos della materia.
Legato al problema della natura doveva poi ripresentarsi
il problema della politica. Il Timeo si riallaccia, se
non alla Repubblica, almeno ad una discussione che le rassomiglia
e su ciò Platone voleva attrarre l’attenzione del
lettore, in quanto il problema politico e cioè del « buon conduttore
di popoli » si fonde con il problema della storia,
in generale vista come storia dell’universo alla quale spetta
l’ultima parola, come si vede nel mito del Politico, sulla
possibilità di un buon governo e di un governo filosofico.
La storia è per Platone ben altro dalla razionalità del mondo
ed essa non è tale proprio perchè nell’universo domina
lo stesso ritmo del pensiero disteso cronologicamente nel
tempo. Essere e non essere diventano qui due movimenti
del cosmos, uno diretto verso la perfezione e l’ordine, l’altro
diretto verso la dissoluzione e la decadenza.
Sotto una nuova luce si doveva poi presentare, nel Filebo,
il problema morale o il problema dei valori, nuova
luce che, peraltro, non rinunzia ai risultati su questo problema
già raggiunti, ma li svolge sul piano di gradualità
gerarchica dell’essere del Parmenide, presentando il bene
come la mediazione attiva tra il limite e l’illimitato e il
mondo come cosmos di valori creantisi sull’opposta alterità
dell’uno e del molto, o meglio, qui, del finito e dell’infinito.
Ciò che pertanto è da tener presente è che per Platone
i problemi in questione sono spesso insolubili in quanto legati
alla natura dell’altro e del divenire a cui il pensiero
stesso partecipa. Ma non è questo che principalmente interessa:
Platone ricorre al mito solo per evitare, in problemi
che sono gli eterni problemi del pensiero umano, un
inutile e dannoso dogmatismo. Ciò che invece bisogna sottolineare
è che questi tentativi sistematici seguono tutti una
legge che solo varia in quanto varia l’oggetto a cui si applica,
che solo cioè muta i suoi termini ma non la sua essenza,
a seconda che si muove nel problema della natura
o in quello della morale, in questa cioè o in quella scienza
di quella parte del pensiero filosofico che noi chiameremo
una filosofia dello spirito. L’essenza della legge trascendentale
è stata ormai conquistata per sempre e sia che essa si
presenti come correlazione di medesimo ed altro nel Sofista,
sia che si ponga come mediazione tra il finito e l’infinito
nel Filebo, o, nel Timeo, come mediazione tra il mondo
ideale e il mondo materiale nell’anima del mondo e nell’azione
del Deniurgo, esso sarà sempre quel principio di
correlatività tra essere e non essere dal Parmenide sviluppato
e già definitivamente raggiunto.
77 sofista e il filosofo. — I personaggi del dialogo sono
Teodoro, Socrate, Teeteto e lo Straniero d’Elea che domi
na totalmente la discussione come poi farà anche nel Politico.
Si è molto discusso su questo personaggio, sia per
scoprire la scuola che esso rappresenterebbe, sia per il fatto
che con la sua presenza esso simbolizzerebbe la morte del
pensiero socratico nello sviluppo della filosofia platonica. Si
è già detto che, come A. Diés, noi non crediamo che Platone
abbia un passato dogmatico da rigettare. Ci basterà
perciò sapere che lo straniero d’Elea è un discepolo di Parmenide
e di Zenone (216 A), un parricida (241 D) rispetto
al maestro, in quanto dimostra che il non essere è, dimostrazione
già fatta, del resto, da Parmenide stesso, o meglio,
fatta compiere da Platone a Parmenide nel dialogo
che porta il suo nome. Ciò che più conta è il fatto che lo
Straniero, come dice Teodoro, è un vero filosofo. E non
piuttosto un Dio? Chiede Socrate fra il serio e lo scherzoso.
Se non un Dio un essere divino perchè tale è il titolo che
spetta ad un vero filosofo (216 C). Ma è tanto facile distinguere
il filosofo dagli altri uomini? Dal sofista, principalmente,
e dall’uomo politico? Non è facile sapere chi sono,
questi filosofi, che « dall’altezza della loro vita » guardano
con commiserazione « gli uomini di quaggiù » (216 C) e
proprio allo Straniero, dice Socrate, avrò il piacere di do
mandarlo (216 D).
Chi è il filosofo? Ecco il tema con cui il dialogo si inizia.
Tema non nuovo per noi che abbiamo già visto nel
Teeteto la contrapposizione tra il filosofo ed i saggi del
mondo a proposito della quale si è notato che la conquista
del vero procede di pari passo con la coscienza della distinzione
fra ciò che è vero e ciò che è falso, tra ciò che è
veramente filosofico e ciò che invece è sofistico. Tema che
corre nell’interno di tutto il pensiero platonico come sempre
più marcata distinzione tra Socrate ed i suoi accusatori,
tra Socrate e i sofisti o retori del suo tempo. Tema inoltre
che nel Filosofo avrebbe dovuto trovare la sua completa
esplicazione e la sua totale orchestrazione. Non si saprà
mai certo perchè questo dialogo promesso non è stato scrit
to, ma forse che il lettore non trova una risposta a questo
problema, se pensa che è appunto scoprendo che cosa è il
Sofista che si sa che cosa è la filosofia? Che è proprio con
lo spiegarsi l’errore e il non essere che si arriva alla conquista
del vero essere che tale è proprio in quanto si contrappone
al suo opposto, in quanto è sempre correlativo a
ciò che lo nega?
Socrate chiede chi è il filosofo. Lo Straniero risponde
analizzando il concetto di sofista. Ma, poiché l’analisi è
piena di difficoltà, comincerà con l’analizzare un concetto
più facile per poi applicare lo stesso metodo anche al sofista
(218 D). Ora il metodo dello Straniero è il metodo diairetico,
metodo che vale, come sappiamo, per gli oggetti del
mondo, per gli oggetti empirici. Potrà essere usato in una
ricerca filosofica? No. E proprio il Sofista, che pone le basi
del metodo diairetico, dimostra che questo metodo non è il
metodo adatto per una ricerca filosofica. Si consideri l’arte
del sofista come un’arte qualsiasi del mondo empirico, l’arte,
per esempio, del pescatore di lenza. Ora del pescatore di
lenza si potrà dare una definizione per mezzo del metodo
diairetico, non sarà possibile fare altrettanto per il sofista.
Le sei definizioni di questo personaggio sono tutte parziali e
insufficienti. Ogni problema filosofico può, se si vuole, essere
considerato come un problema di un’arte dell’esperienza.
Ma le soluzioni non saranno mai sufficienti. I concetti
di sofistica e di filosofia trascendono i problemi empirici,
non possono essere considerati sul piano di quelli.
Perciò la ricerca di un concetto filosofico del sofista sarà la
impostazione del seguente problema: in che modo il non
essere è?
Teeteto è sempre lo stesso personaggio di nostra conoscenza:
egli crede sul serio che si possa risolvere un problema
come quello del sofista nello stesso modo con cui si è
data la definizione del pescatore di lenza. L’errore è quello
stesso compiuto da Stenzel: il metodo diairetico non si sostituisce
alla cosidetta vecchia teoria delle idee ma è sem
plicemente uno dei metodi del pensiero platonico. La connessione
in cui esso si trova, nel Sofista, colla ricerca del
concetto di non essere, dimostra due cose: prima di tutto
che la diairesis non è applicabile a ciò che trascende gli oggetti
della divisione, in secondo luogo che la diairesis è retta
dalla stessa legge che regge ogni pensiero che sia veramente
tale e cioè dalla legge di correlazione tra essere e non essere.
L’ironia del Sofista, che a Diés ha fatto pensare a Rabelais
:), nasce tutta dal tendenzioso parallelismo tra il sofista,
il pescatore di lenza e il cacciatore di selvaggina giovane e
ricca, quale si rivela il sofista stesso in una delle definizioni
empiriche che di lui si danno. L’ironia del paragone è ancora
più evidente se si pensa che solo l’arte sofistica si può
porre sullo stesso piano della caccia e della pesca, cosa invece
assolutamente impossibile per l’arte filosofica. L’enigma
dell’arte sofistica è quello stesso già notato nel Fedro a
proposito del discorso di Lisia ricostruito da Socrate: Lisia
possiede una logica ma la applica dove meglio crede e dove
più gli fa comodo. Il sofista è un filosofo che usa quello
stesso metodo, perchè egli è un filosofo che può diventare
saggio del mondo empirico e in conseguenza essere paragonato
al pescatore e al cacciatore. Un filosofo quindi che non
è filosofo, che è e nello stesso tempo non è, e a causa sua
si pone perciò il problema del non essere. Problema quest’ultimo
evidentemente legato alla molteplicità del mondo
empirico ed alla sua negatività in modo tale che scoprire che
cosa è il sofista significa nello stesso tempo scoprire in che
modo la filosofia può raggiungere la conoscenza delle cose di
questo mondo attraverso il metodo diairetico.
Lo sviluppo delle posizioni del Parmenide. — Il sofista
è dunque un filosofo che scende nel mondo e che della filosofia
si serve come di un mestiere. Essere sofista significa af
i) A. DIÈS: Op. cit. II, Pag. 307.
fermare che non si cerca altro che la virtù ma « farsi pagare
in moneta sonante » (223 A), significa far commercio di
una cosa che, per sua natura, non è commerciabile (224 A
B). In queste definizioni empiriche si fa a poco a poco
avanti un’esigenza filosofica, quella stessa inerente ad una
fondazione trascendentale della diairesis. Così lo Straniero
ripete un’osservazione già a noi nota dal Parmenide e cioè
che un metodo veramente filosofico non tien conto del valore
degli oggetti che esamina (227 B cfr. Parm. 130 C, Poi.
266 D, Fil. 58 C). Questa osservazione non ha però il senso
che le si è voluto attribuire e cioè non significa affatto che
Platone rinunzi ad ogni posizione filosofica del suo pensiero
e quindi alla vecchia teoria delle idee da sostituirsi ora con
la diairesis. Se, come dice il Parmenide, ci sono idee di
tutte le cose, deve essere possibile anche la conoscenza del
mondo empirico, conoscenza che il metodo diairetico ci assicura
ponendo le idee su un piano di realtà concreta come
appunto nel Parmenide si è visto. Perfino problemi filosofici
possono essere trattati in questo senso come avviene proprio
del problema del sofista, ma, in questo caso, il sofista deve
essere considerato come un pescatore o un cacciatore e la
definizione raggiunta sarà puramente analogica senza riuscire
a penetrare nell’essenza del problema. Ad esso, come si è
detto, si arriva a poco a poco, trascendendo continuamente
le posizioni parziali della questione. Lo Straniero dopo la
quinta definizione nota che il sofista può essere considerato
anche come liberatore della nostra ignoranza, in quanto è
sempre pronto a confutare le nostre affermazioni, avvicinando
così l’arte sofistica all’arte maieutica (229 C, 230 B).
Sofista e filosofo si assomigliano come la logica di Lisia assomigliava
a quella di Socrate, come il cane assomiglia al
lupo (231 A). Già fin d’ora cercando il sofista si trova il filosofo,
e, si capisce, la ricerca di una distinzione si impone
non meno per il primo che per il secondo. Analogamente si
vedrà che il problema del non essere è non meno intimamente
legato con quello dell’essere. Comunque le definizioni
empiriche del sofista non hanno dato un resultato soddisfacente.
Esse hanno permesso però di arrivare alla conclusione,
che le supera, per cui il sofista si rivela principalmente
un contradditore in grado di contraddire in ogni caso e in
possesso di una scienza universale e totale. Egli sa tutto
perchè può far sì che sia ciò che non è. La contrapposizione
tacita di cui bisogna tener conto è tra il sofista che tutto sa
e il filosofo che sa di non sapere. Il sofista, in altre parole,
non realizza la legge trascendentale del Teeteto per cui sapere
è sapere di non sapere, ma egli approfitta di questa
legge trasformando continuamente l’essere in non essere o viceversa.
Ciò gli è possibile grazie all’imitazione, vecchio
problema che qui ritorna intimamente congiunto con il problema
dell’essere (234 B e segg.). Imitare è fingere di sapere
ciò che non si sa, è quindi non tener conto affatto del princopio
trascendentale. È sempre su questa base che per Platone
ogni rettorica ed ogni arte è, di fronte al sapere assoluto,
condannabile. Ora è evidente che se l’imitazione è possibile,
se essa riesce a trasportare sul piano dell’essere ciò
che non è, questo non è deve pur avere un senso, quello appunto
che dalla mimesis gli viene attribuito per mezzo di un
inganno. Come quest’inganno è possibile? Come mai ciò che
non è ci può venire in qualche modo presentato come essere?
(236 E) Bisogna per questo che in qualche modo il non essere
sia e perciò lo Straniero si opporrà alla tesi parmenidea
per cui il non essere è assolutamente impossibile che sia (237
A B e segg.; 241 B e segg.). Come il Parmenide dimostrava
che l’essere concepito come unità è correlativo al non essere,
così il Sofista dimostrerà che questo « è correlativo » significa
« è » e questo è significa che « non è » il non essere
assoluto ma è 1’« altro ». Ciò che non è bello non è qualcosa
di inesistente ma è l’altro dal bello : sarà l’utile, sarà il
necessario, ma sempre sarà. Così ciò che non è una seggiola
non sarà non essere ma tutto quell’essere che è altro da una
seggiola. Ci sono dunque vari esseri che solo diventano non
essere nella loro relazione. Le idee restano sempre essenze
ma nella relazione giudicativa in cui vengono assunte ognuna
di esse si determina come essenza in quanto non è tutte
le altre. L’essere e il non essere riguardano quindi non l’essenza
delle idee ma la loro relazione e la loro comunicabilità.
Esse partecipano all’essere affermato dal giudizio e si pongono
via via come unità in quanto non sono molteplicità.
Tuttavia fanno parte della molteplicità, sono non essere, pur
essendo essenze, in quanto appunto ognuna di esse si pone
correlativamente a tutte le altre. Le idee sono e non sono.
Il Parmenide aveva dimostrato che poste di fronte alla molteplicità
esse diventano unità ed escludono il molteplice come
non essere. Poste di fronte all’unità esse diventano molteplici
e affermando il loro mondo ideale negano la possibilità
di un’unità assoluta, di un essere assoluto non correlativo.
Non solo ma sviluppando tutte le possibili relazioni tra
unità e molteplicità il Parmenide concludeva che esistevano
vari piani delle essenze a seconda della posizione di correlazione
in cui erano assunte. Così era possibile sia un mondo
ideale di pure idee, sia un mondo reale in cui le idee
si concretizzavano come realtà, sia un mondo dell’opinione
vera, sia un mondo di idee in relazioni false ed erronee che
in sè ammettevano l’errore ed il non essere. Abbiamo visto
che ogni ipotesi è in quanto non è tutte le altre e cioè possiamo
dire, che ogni ipotesi è in relazione alle altre grazie
al principio trascendentale di correlatività. Grazie ad esso,
che nella terza ipotesi si afferma come creazione e si pone
come medio fra mondo ideale e mondo reale, i problemi
della partecipazione vengono risolti. Il mondo delle idee e
il mondo creato sono comunicabili proprio perchè il principio
dialettico che li pone può giustificare sia un mondo di
idee che un mondo reale. La realtà è idea perchè lo stesso
principio trascendentale di correlazione può vederla sia
come realtà che come idea e, per la stessa ragione, le idee
possono esistere, possono essere essenze. Ma, nello stesso
tempo, le idee e il reale non sono non appena vengono viste
da un altro possibile punto di vista e si fissano come ne
gatività ed errore. Queste posizioni del Parmenide non
vanno dimenticate nel Sofista. Platone sviluppa di esse la
particolare concezione di comunicabilità delle idee dimostrando
che è la posizione trascendentale del conoscere ed
il giudizio in cui questa si esprime ciò che fa sì che un’idea
sia o non sia e che, nel caso in cui le relazioni siano errate,
fa sì che il giudizio sia falso in quanto scambia un non
essere che un essere o viceversa. Come si sa nella diairesis
un solo scambio dell’è con il non è è sufficiente a produrre
l’errore. È precisamente questo scambio che il sofista continuamente
usa per il successo dei suoi discorsi. Ma quel
non essere può anche venire usato come deve essere usato
e cioè nelle relazioni giudicative per cui una cosa è in
quanto non è tutte le altre. In altre parole il semplice fatto
che il non essere è non giustifica ancora l’errore, bisogna
che, perchè esso avvenga, si scambi ciò che è con ciò che
non è o viceversa. Ora, a sua volta, tale scambio è possibile
in quanto tutto il mondo delle idee può essere posto in
relazione negative, in quanto quindi la correlazione tra
l’unità e la molteplicità non solo si può porre in modo tale
che da essa risulti il mondo reale che la diairesis conosce e
il mondo della doxa, cioè la quarta e la quinta ipotesi del
Parmenide, ma anche in modo da giustificare, come infatti
avvenne nella sesta ipotesi, il non essere delle idee, e quindi,
come nelle altre ipotesi negative, il non essere e l’errore
verso i quali sempre più ci si avvicina man mano che si
scende dall’unità.
L’errore non si deve confondere con 1’« altro », l’alterità
non è negazione, non è falsità, ma è appunto alterità.
L’errore è invece una falsa relazione tra le idee, una
falsa comunione, uno scambio tra gli altri e l’uno. Come
si è già visto nel Teeteto l’errore non è nell’oggetto del pensiero
ma nel giudizio che non si è esplicato totalmente e si
esprime quindi in false relazioni tra idee ed idee. Queste
sono alla loro volta possibili in quanto non solo il non essere
ma anche l’essere vengono dati alle idee dal giudizio in
cui esse entrano in relazione. Perciò una teoria del non
essere è nello stesso tempo una teoria dell’essere e conoscere
che cos’è l’errore significa sapere che cos’è la verità,
sapere che quest’ultima è e non è, si pone cioè non prima
del giudizio, ma nel giudizio che l’afferma, come le ipotesi
del Parmenide sono o non sono a seconda delle posizioni
dell’uno e del molteplice. Nel Sofista Platone approfondisce
questa teoria dell’essere già risultata dal Parmenide
ma, come è naturale, il Sofista non distrugge nè il
Parmenide, nè la tradizionale teoria delle idee. Il mondo
delle idee resta sempre valido con le sue solite caratteristiche,
solo si dimostra che proprio per il fatto che le idee
sono è possibile tra loro un rapporto e che sono o non sono
in rapporto alla relazione con cui vengono assunte. In ciò
la loro alterità, e non il loro non essere, perchè anche quando
diciamo « il cavallo non è un bue » ciò non significa che
non esiste l’idea del bue, e quindi tutto il mondo di idee
che non sono il cavallo, ma solo che, nella relazione giudicativa,
un’idea è in quanto non è tutte le altre. Il mondo
delle idee è saldo come non mai e ciò perchè si è dimostrato
col concetto di alterità che le idee sono anche se nel giudizio
si può dire che non sono.
Brochard aveva perciò perfettamente ragione sostenendo
che la teoria dell’essere del Sofista non è che uno sviluppo
delle posizioni del Parmenide e che solo con il primo
dialogo si spiega il secondo 1).
Ontologismo e trascendentalismo. — Poiché il resultato
fondamentale del Parmenide era stato quello di sommuovere
la concezione dogmatica dell’essere per risolverla
nella correlazione trascendentale è logico che, nel Sofista,
lo Straniero inizi la sua critica alle correnti concezioni del
i) B ROCHARD: La théorie platon. de la participation. Etudes
de phil. anc. et mod. Paris, 1912, Pag. 132 e segg.
l’essere proprio col suo parricidio e cioè con la confutazione
della tesi dogmatica di Parmenide per cui l’essere non può
mai non essere. Si noti però che la posizione di assoluta
trascendenza dell’essere come unità è criticata in quanto
viene dogmaticamente assunta, in quanto cioè essa pretende
di esaurire, in una sola posizione, tutte le possibili posizioni
della correlazione. L’unità parmenidea diventerebbe
subito valida se Teeteto comprendesse che essa non è un
dato che vale di per sè, ma è una delle posizioni correlative
della legge e in tanto vale in quanto è posta dal pensiero
come sua possibile determinazione. La critica delle dottrine
pluralistiche dell’essere, come quella delle dottrine unitarie,
la critica delle teorie delle idee degli Amici delle idee
come quella dei Figli della terra, vengono tutte compiute
dal medesimo punto di vista in quanto tutte rappresentano,
« una concezione dogmatico-metafisica delle idee stesse » e
in quanto « l’astratto essere in sè di tali posizioni rifiuta il
rapporto con posizioni razionali antitetiche e rende quindi
impensabile la complessa struttura del reale » l). In questo
senso « con Platone la ragione esce dalla sua immediatezza,
il suo essere diviene sistema: il momento ontologico
non appare sufficiente ad esprimere l’autonomia razionale,
e, benché esso abbia le sue radici nel teleologismo etico-religioso
della visione platonica della realtà, si svolge e si risolve
verso una posizione logico-trascendentale » 2). A questo
punto la nostra interpretazione del pensiero platonico
assume il significato di un problema della filosofia contemporanea,
e in esso, in un certo senso, tende ad ampliarsi.
Ci sia permesso perciò arrestarci su tale problema la cui
chiarificazione rappresenta nello stesso tempo una chiarificazione
conclusiva dei punti di vista del nostro studio.
La fondazione di una teoria delle idee intese come es
1) A. B ANFI: Principii di una teoria della ragione. Milano
1926, Pag. 404.
2) A. B ANFI : Op. cit. Pag. 405.
senze e quindi una teoria ontologica dell’essere rappresenta
certo una delle conquiste fondamentali del platonismo. Tuttavia
tale mondo ideale, quando esso venga visto in rapporto
ad una posizione di sapere assoluto, non può non apparire
parziale e insufficiente e non può esaurire in sè l’assoluto sapere.
Da questo punto di vista una teoria ontologica delle
idee, e quindi la teoria di un’eidetica, deve venire necessariamente
criticata e considerata non come sapere assoluto
ma solo come una tappa di arresto nel cammino che la
ragione percorre verso quel sapere. Come tale essa si presenterà
come un momento fenomenologico della ragione.
Nella dialettica ascendente del Teeteto, tendente appunto
alla conquista di un sapere puro, tale posizione verrebbe
negata; analogamente, nel Sofista, viene criticata la teoria
degli Amici delle idee in quanto essi pretendono che l’eidetica
esaurisca l’intero senso razionale della realtà. Tanto
varrebbe pretendere che la seconda ipotesi del Parmenide,
dove si fonda il senso di un mondo ideale, sia l’unica ipotesi
possibile. Per tale ragione agli Amici delle idee si contrappongono
i Figli della terra e cioè i sostenitori di quel
mondo di cui il senso viene giustificato dal Parmenide dopo
la terza ipotesi e cioè quando il mondo appare, anche se
fondato dal pensiero, non più come mondo delle idee, ma,
alla luce della stessa correlazione che ha giustificato il mondo
ideale, come mondo reale, come mondo creato. Ambedue
le posizioni sono dogmatiche ma, come la ragione giunta
alla coscienza della sua trascendentalità restituisce valore
ai momenti superati che a tale posizione l’hanno condotta,
e si ricordi nella Repubblica l’idea massima da cui il mondo
come dal sole riceve essenza ed esistenza, così le posizioni
dogmatiche fissate nel riconoscimento dei parziali sensi
dell’essere che in esse si rivelano, vengono tutte rivalutate
non appena le loro dimensioni si presentano come posizioni
possibili della correlatività trascendentale essere e non essere,
non appena cioè si comprende che esse non valgono
in sè e per sè ma sono poste, come nel Parmenide avviene,
dalla ragione che si muove nella sua interiore dinamicità.
Il mondo delle idee e la teoria ontologica di esse non può
pretendere di racchiudere il senso della razionalità del reale,
ma non cessa per questo di essere uno dei momenti necessari
della legge unità e molteplicità e quindi uno degli
aspetti necessari dell’essere. In altre parole se l’eidetica
non è più in una posizione dogmatica e se quindi la ragione
si risolve verso la sua posizione logico-trascendentale, proprio
questa risoluzione restituisce all’eidetica tutto il suo
senso e tutto il suo valore. Il pensiero moderno ha creduto
di avvicinare Platone a sè stesso negando il senso ontologico
dell’idea per ridurla al concetto di legge; se ciò, come
si è visto, è in un certo senso possibile, non è men vero che
proprio questa risoluzione, grazie alla teoria dei vari sensi
dell’essere corrispondenti alle possibili e necessarie posizioni
della legge trascendentale di correlazione, rivaluta
proprio quel senso ontologico delle idee che prima si è dovuto,
e necessariamente, negare. Il resultato di questo movimento
è che l’essenza o l’idea non ha più un significato
dogmatico, il suo essere non è più un essere dato, ma appunto
uno dei sensi in cui la ragione muove sè stessa quando
si esplica nella sua totale e autonoma libertà. L’antinomia
in atto nelle interpretazioni platoniche correnti è tutta
basata sull’antitesi fra l’idea intesa come essere ontologico
e l’idea che si avvia, se non sempre a diventare legge, a
diventare movimento e dinamicità, interpretazione questa
a cui il Sofista ha offerto tanto materiale. Per la stessa ragione
l’unità del pensiero platonico si spezza in due periodi
in cui dominerebbero le due caratteristiche accennate: nel
primo Platone starebbe per la teoria delle idee come entità
fisse e immutabili, nel secondo le idee si rivelerebbero come
vita e movimento. Ma ambedue le posizioni, come si è visto,
hanno valore e si compenetrano l’una nell’altra, ed esiste
un solo Platone che non ha mai rinunciato alla teoria
delle idee intese come essenze e che nello stesso tempo ha
compreso quella teoria in una visione generale della realtà
che la libera dalla sua staticità e dal suo iniziale senso dogmatico.
Si- confrontino queste posizioni con una corrente di
pensiero in parte sorta, si noti bene, come reazione alla
scuola di Marburgo, vogliamo dire con la fenomenologia di
Husserl. Essa parte dalla critica del sensibile come base del
sapere, critica che si esprime nella teoria dell’ « epoche » e
nel processo di « riduzione fenomenologica ». La direzione
naturale del nostro pensiero ci conduce a considerare il
sensibile come un dato al di fuori di noi si tratta invece
di astenersi dall’uso di una simile direzione, di porla « tra
parentesi » e, con essa, tutti i giudizi ed i concetti, insieme
a tutti i dati esterni, i fenomeni psichici ecc. Si raggiungerà
così un « dominio neutro del vissuto » che si presenta
come originario ed irriducibile: la fenomenologia è per
Husserl proprio la descrizione di questo dominio neutro del
vissuto così come esso si presenta all’intuizione 2). In questo
dominio neutro, ottenuto attraverso la riduzione fenomenologica,
noi possiamo scoprire delle essenze indipendenti
dal tempo e da ogni relatività del vissuto non neutro,
opposte quindi ai fatti semplicemente dati e immersi nella
relatività del divenire 3). L’epochizzazione e la riduzione
fenomenologica conducono quindi Husserl alla fondazione
di un mondo delle essenze e cioè di un’eidetica pura. Questa
rappresenta a sua volta la struttura stessa della realtà
in quanto gli stessi aspetti del reale prima posti tra parentesi
vengono ricompresi come direzioni del senso del razionale.
L’oggetto come tale, a cui l’intenzionalità della coscienza
tende, diventa il contenuto di quest’intenzionalità
che risolve gli oggetti nel loro essere ideale 4). Ma ciò che
1) E. H USSERL: Idee zu einer reinen Phänomenologie und
phänomenologischen philosophie. I. Halle, 1928, Pagg. 48-49.
2) E. H USSERL : Op. cit. Pag. 139-140.
3) E. H USSERL: Op. cit. Pag. 7 e segg.
4) E. H USSERL: Op. cit. Pag. 64 e segg.
più interessa è che questa trasformazione della fenomenologia
in scienza delle strutture razionali della realtà J) avviene
attraverso il movimento logico già posto in luce; cioè la riduzione
fenomenologica, tendente a separare le essenze dalla
realtà empirica, ad un certo momento sembra negare le essenze
stesse, per basarsi sull’unico fatto indubitabile da cui
le stesse essenze finiscono per dipendere, vale a dire la coscienza
intenzionale risolta in io puro inteso come residuo
fenomenologico o meglio, possiamo dire, come io trascendentale:
la fenomenologia descrittiva si trasforma così in
fenomenologia trascendentale 2). Dallo stesso punto di partenza
di Husserl, la sua critica del naturalismo come naturalizzazione
del conoscere e del suo oggetto, doveva necessariamente
sorgere una teoria del trascendentale. Ora la
tendenza del naturalismo è quella di concepire ogni essere
nello stesso « senso » con cui concepisce l’essere dell’oggetto
naturalizzato 3). Di questo passo si giunge alla stessa
naturalizzazione della coscienza, e, conseguentemente, ad
una riduzione di questa all’essere della psicologia. Da ciò
la necessità di una critica dello psicologismo attraverso la
quale si dovrà arrivare alla determinazione del vero essere
della coscienza. Questo verrà raggiunto prima attraverso la
ricerca fenomenologica delle essenze su cui si basa un’ontologia
della coscienza e poi con il concetto di coscienza trascendentale
che giustifica lo stesso mondo ontologico delle
idee. Dunque se la critica del naturalismo e dello psicologismo
permette ad Husserl di arrivare alla coscienza trascendentale,
a quel concetto si arriva solo in quanto si distingue
fra diversi sensi dell’essere: prima l’essere della
scienza, naturalizzato, e l’essere della coscienza, come essenzialità
eidetica e poi tra le praticamente infinite ontologie
regionali e cioè attraverso i vari sensi dell’essere corri
1) E. H USSERL: Op. cit. Pag. 309 e segg.
2) E. H USSERL: Op. cit. Pag. 178.
3) E. H USSERL: Op. cit. Pag. 34 e segg.
spondenti alle varie forme del sapere. La caratteristica fondamentale
della fenomenologia sembra dunque consistere
nel porre il concetto di trascendentale da un punto di vista
tale per cui il fondare quel concetto significa nello stesso
tempo determinare i vari sensi dell’essere a cui il trascendentale
non deve adeguarsi. In altre parole per Husserlvari momenti del conoscere non sono solo forme fenomenologiche
negative del sapere assoluto e quindi gradi di sviluppo
puramente teoretici che la ragione deve percorrere
per conquistare sè stessa, ma diventano anche varii piani
essenziali, varii sensi di quell’essere che non sono più dati
dogmaticamente, come prima dell’epochizzazione, ma risolti
nella struttura trascendentale della coscienza1).
Il pensiero moderno si è comportato verso quel senso
dell’essere su cui si fonda la possibilità di un’eidetica come
la scuola di Marburgo si è comportata con l’idea di Platone.
Ma se ciò ha posto in chiaro l’esigenza del problema
del trascendentale e quella di una critica della concezione
dogmatica dell’eidetica, ha però posto nell’ombra la legittima
necessità di un mondo delle idee. Da questo punto di
vista Husserl ripresenta alla filosofia moderna il problema
fondamentale del pensiero platonico2).
La definizione dell’arte dialettica. — Nella critica delle
antiche teorie dell’essere compiuta dallo Straniero è da notare
sopratutto l’interesse platonico nel rigettare quelle teorie
che presentano in senso dogmatico la legge trascendentale
di correlazione. Così viene criticata subito la teoria
secondo cui l’essere è dogmaticamente uno e molteplice
nello stesso tempo e si sostiene che solo una confusione del
concetto dell’essere può rendere possibile l’accordo del di
1) Si veda a proposito di questa interpretazione il lavoro di
L ÉVINAS: La théorie de l’intuition dans la phen. de H. Paris,
1920.
2) C. R ITTER: Die Kerngedanken der plat. phil. München
1931, Pagg. 188 e segg.
saccordo e così via (242 E, 243 C). Dottrine pluraliste e
dottrine unitarie cadono in quanto l’essere è sempre al di
là delle loro identificazioni, trascende sempre ogni sua posizione
dogmatica. La critica del punto di vista unità e
molteplicità riassume le antinomie già viste nel Parmenide,
come, analogamente, l’antitesi tra i Figli della terra e gli
Amici delle idee riassume la stessa antinomia come opposizione
tra mondo ideale, anteriore alla terza ipotesi del Parmenide
e mondo risultato dalla creazione. Nella critica di
queste opposte posizioni si introduce la definizione dell’essere
come « potenza », come azione e passione. A. Diés ha
notato giustamente che questa posizione, non nuova nel
pensiero platonico 1), viene data come provvisoria e considerata
come tale ‘). La conclusione a cui Platone vuole arrivare
è che l’essere non è definibile, che esso è oltre ogni
definizione. « È proprio questa eterogeneità dell’essere in
rapporto ad ogni altra cosa che Platone voleva far risentire
nella sua storia delle teorie dell’essere » 3). Per mezzo di
quella definizione l’antitesi tra materia ed idea come corporeità
ed incorporeità si trasforma in quella di stasi e di
movimento ‘). D’altra parte questo concetto di movimento
su cui si è tanto insistito, non introduce il movimento nelle
idee, non trasforma le idee stesse in movimento 5). Lo Straniero
stesso riassume la posizione dialettica della discussione:
bisogna che il filosofo « da quelli che affermano sia
l’unità, sia la molteplicità delle idee, non si lasci affatto
imporre l’immobilità del tutto, e a quelli poi che muovono
l’essere in tutti i sensi, non presti nemmeno ascolto, ma
faccia suo sia ciò che è immobile sia ciò che si muove »
(249 C). E si richiama la stessa posizione di correlazione
1) A. D IES: La definition de l’etre et la nature des idees
dans le Sophiste de Platon. Paris, 1909, Pag. 21 e segg.
2) A. D IES: Op. cit. Pag. 29-30.
3) A. D IES: Op. cit. Pag. 31.
4) A. D IES: Op. cit. Pag. 35 e segg.
5) A. D IES: Op. cit. Pag. 54 e segg.
trascendentale verso l’interpretazione dogmatica della quale
Teeteto è messo ancora una volta in guardia (250 A).
L’eterogeneità dell’essere si determina sempre come una
correlazione sia dei due termini vita e morte (Fedone 105
B e segg.), sia come idealità e corporeità, sia come unità e
molteplicità e, finalmente, stasi e movimento ‘). Ma l’essere
non si lascia esaurire nemmeno da questa opposizione
quando questa non venga considerata come l’eterogeneità
stessa che l’essere pone a sè medesimo e cioè come opposizione
tra l’essere e l’altro (250 C). Perciò il problema
dell’essere sviluppato in tutto il suo movimento aporético
conduce necessariamente al problema del non essere ed i
due problemi diventano uno solo (250 E). Ora è proprio
nel momento stesso che il problema si pone nella sua interezza
che esso si trasforma in quello della comunione delle
idee e cioè nel problema della predicazione. Nell’interno
del dialogo ancora una volta insieme alla chiarificazione
della legge trascendentale si chiarisce il metodo diairetico
che ad essa viene ricollegato. Il problema della predicazione
si muove su queste due possibilità: o la realtà non è
che molteplicità assoluta ed allora nessuna idea può entrare
in comunicazione con l’altra e il movimento e la stasi
sono inconcepibili in quanto non possono partecipare all’essere;
oppure un’idea partecipa all’altra senza distinzione
(251 D E, 252 A, 252 D). Ma il vero sta in una terza
possibilità e cioè nella mediazione delle due possibilità considerate
(251 E, 252 E) in una concezione che faccia dipendere
la possibilità o l’impossibilità della comunicazione
dalla legge del pensiero che regola i vari sensi dell’essere.
Con l’antico metodo socratico lo Straniero chiede:
chi saprà quando le lettere possono unirsi l’una all’altra,
colui che non se ne intende oppure il grammatico? (253 A)
Analogamente chi è che conoscerà in qual caso e in che
1) A. DIÈS: Op. cit. Pag. 15.
modo la partecipazione delle idee è possibile? La risposta:
il filosofo, è evidente. « È necessaria una scienza che ci
guidi nel ragionamento se si vuol sapere con precisione:
quali generi sono mutualmente conzonanti e quali invece
non possono accordarsi; dimostri inoltre se ve ne sono che,
stabilendo una continuità attraverso tutti gli altri, rendono
possibile la loro comunicazione e se poi nella divisione ve
ne sono altri che, tra quelli raggruppati, sono i fattori della
divisione stessa » (253 B C). Quale sarà questa scienza?
Si ricordi ciò che si è detto della connessione tra errore e
verità, tra non essere ed essere, tra sofistica e filosofia.
« Forse che non ci siamo imbattuti, dice lo Straniero, senza
accorgercene, colla scienza degli uomini liberi, e non
rischiamo noi di aver scoperto prima di trovare il sofista,
proprio il filosofo? » (253 C) Segue la definizione del filosofo
dialettico in un passo già citato a proposito del Parmenide
per dimostrare le connessioni della diairesis con il
problema della partecipazione quale è visto nella quarta
ipotesi di quel dialogo. Colui che è un vero dialettico è in
grado di distinguere « I) un’unica idea, divisa in ogni parte,
attraverso molte, di cui ciascuna resta una separatamente;
II) molte idee, differenti l’una dall’altra, racchiuse
dal di fuori da una sola idea; III) un’unica idea che resta
unica pure entrando in una pluralità di idee; IV) una
molteplicità di idee divise l’una dall’altra » (253 B). Stenzel,
che dedica un intero capitolo a questo passo ‘), lo
spiega sostenendo che in esso si allude al resultato della
separazione dei concetti, alla diairesis, e ad un’idea riunita
attraverso molti interi con l’unità, cioè la sumploké
eidòn necessaria per raggiungere l’atomo eidos. « Il terzo
ed il quarto membro del passo sono riuniti strettamente
fra di loro e stabiliscono l’acquisto della definizione, del
logos, di una sola idea, con una concatenazione di predi
1) S TENZEL: Studien cit. Pagg. G2-71.
cati che è il resultato della separazione delle molte unità
superiori: questa concatenazione costituisce la ricercata
nuova unità e con ciò separa tutte le altre idee nettamente
da questa. Sulla stessa base si comprendono anche il primo
ed il secondo membro » Però mentre i due ultimi membri
hanno per scopo la separazione, con i primi due si indica
invece la ricongiunzione di ciò che è stato diviso.
Il primo membro poi e il terzo sono da considerarsi come
le premesse dei resultati raggiunti rispettivamente dal secondo
e dal quarto. Un’unica idea infatti entra in molte
lasciandole separate (prima membro) per cui (nel secondo
membro) si ristabilisce l’unità in quanto queste idee vengono
poi racchiuse in un’unica idea. Nel terzo membro
l’unità viene stabilita dalle concatenazioni delle unità superiori
e poi i predicati adatti vengono riassunti (nel quarto
membro) in una definizione per cui si può raggiungere una
divisione definitiva dei concetti. Il resultato della diairesis
è dunque un’unità separata nettamente, dalla quale ne
vanno separate molte altre (255 D E); con il che è raggiunto
pienamente ciò che si era affermato nel passo sopracitato
come specifica funzione della dialettica e cioè il
dividere per generi e non prendere per altra un’idea che è
la medesima e non confondere cioè le idee che possono
partecipare con quelle che invece non possono farlo: il
contrario sarebbe proprio l’errore. Stenzel è riuscito così
a spiegare il difficile passo scoprendo in esso i fondamenti
della diairesis. Interessava far presente che questa è possibile
solo quando viene posto in tutta la sua interezza il
problema dell’eterogeneità dell’essere e che cioè il metodo
diairetico è reso possibile proprio dalla raggiunta posizione
della legge trascendentale. Abbiamo visto nel Parmenide
come nella quarta ipotesi si possa determinare il senso dell’essere
su cui la diairesi si muove perchè Parmenide pone
1) STENZEL: Op. cit. Pag. 67.
in relazione il mondo delle idee della seconda ipotesi con
il mondo della realtà. La diairesis in altre parole è possibile
solo se la correlazione trascendentale è già entrata in
giuoco e ha determinato le posizioni su cui quella si deve
muovere.
Deduzione dall’eidetica della legge trascendentale. —
Il problema che ora direttamente si presenta a Platone non
è privo di difficoltà: data l’eterogeneità dell’essere e la
sua correlazione con il non essere, tale correlazione si
esprime essa in idee? In altre parole se la legge trascendentale
pone il mondo ideale e gli altri sensi dell’essere,
questa stessa legge, nei termini in cui si esprime eideticamente,
come deve essere intesa? I generi sono idee di per
sè ma dove trova posto il termine stesso ideale della loro
correlazione? Si tratta fondamentalmente del problema delle
categorie. La legge trascendentale è oltre ogni senso dell’essere
appunto perchè pone l’essere stesso, così è oltre lo
stesso senso ideale: le idee in cui essa si esprime diventano
idee di una speciale categoria correlativa; l’idea dell’animale
e dell’uomo non può formalmente identificarsi con
l’idea dell’essere. Anche Stenzel nota che « l’essere come
concetto superiore a tutte le specializzazioni non è nè l’essere
della predicazione, poiché non congiunge le singole
specie inferiori con il soggetto come farebbe in qualità di
copula ed esso è contenuto immediatamente in queste singole
determinazioni come l’arte nell’arte del pescatore di
lenza; nè è uguale al solo esistere ma è il concetto superiore
ai concetti che si mutano immediatamente in determinati
giudizi esistenziali »1). Questo essere superiore è
l’essere come categoria massima in cui il pensiero si esprime
come nella sua legge, è quindi l’essere che trascende le
due particolari posizioni, prese in sè, di essere e non essere
e si pone come loro pura correlazione. Questa massima categoria
non doveva risultare a Platone troppo chiaramente
come tale, dati anche i pericoli di ritornare, da questo
lato, in un pericoloso dogmatismo. Egli parla di essere e
di non essere come idee, e certamente così possono i due
termini essere considerati sul piano dell’eidetica, ma qui
l’eidetica è vista nella correlazione stessa da cui viene fondata.
Si pone un passaggio non perfettamente chiaro, anche
se necessario, tra il senso eidetico dei termini e la loro
risoluzione in funzioni categoriali. Sembra che solo i generi
massimi possono permettere il passaggio ad una tale
posizione (254 C). Certo la comunicabilità dell’idea dell’essere
con quella del non essere è la legge prima a cui si
tende e la legge sufficiente per spiegare ogni partecipazione,
ma come dedurre dall’idea dell’essere e dai predicati immediati
che ad essa si addicono, e quindi dalle idee immediatamente
vicine, la legge stessa che si pone oltre le idee
come ragione trascendentale di quelle? Si tratta quindi del
problema della deduzione delle categorie, deduzione che
si deve necessariamente compiere sul pensiero nel momento
della sua posizione eidetica. La necessità di questa
deduzione spiega la complessa argomentazione dei cinque
generi massimi. La meta finale sarà sempre la legge trascendentale
ma essa deve venir dedotta in modo che sia
chiara la comunicabilità delle idee. Bisogna partire dalle
idee stesse e, dalla loro connessione, raggiungere la legge
di questa e quindi il concetto di non essere come altro dall’essere.
Per far ciò è necessario dimostrare che l’altro è
un’idea a parte pur essendo in relazione con tutte le altre.
Questa dimostrazione si raggiunge cominciando col paragonare
tra loro i termini della correlazione stasi e movimento
La stasi e il movimento non sono nè il medesimo
nè l’altro. Si noti come tutta l’argomentazione usa dei ge
1) A. DIÈS: Op. cit. Pag. 9.
neri intesi come relazioni trasportandoli sul piano dell’eidetica,
senza la quale trasposizione il ragionamento non
potrebbe reggersi. Così, dopo aver detto che la stasi è una
idea e che il movimento è un’altra idea si dimostra che
anche il medesimo e l’altro sono altre idee. Se infatti si afferma:
movimento = altro, si deve concludere che essendo
uguali ad un terzo termine, movimento e riposo sono
uguali, il che è assurdo. Lo stesso accade se si identificano
con l’essere (255 A). Conseguentemente così come l’essere,
pur partecipando al movimento e al riposo, è altro dal movimento
e dal riposo, riposo e movimento parteciperanno
all’essere, senza confondersi con esso (255 B) 1). Nello stesso
modo l’essere non è identico al medesimo (255 E) nè all’altro
(255 D). Questo altro ha dunque la sua validità oltre
le idee di essere, movimento, stasi e medesimo e si determina
come una quinta idea (255 E). A questo punto si
arriva a ciò a cui la dimostrazione tendeva. « Noi affermiamo
che (l’idea dell’altro) è sparsa attraverso a tutte
le altre. Ciascuna di esse infatti è altra da tutte le altre,
non in virtù della sua propria natura, ma in quanto partecipa
all’idea dell’altro (255 E) ». Il movimento in quanto
è altro dal riposo, e deve essere tale se tutte le idee partecipano
all’idea dell’altro, « non è » il riposo. Ma esso
però « è » in quanto partecipa all’idea dell’essere (256 A).
Le categorie dell’essere e dell’alterità sono dedotte dunque
dalle idee come idee a cui tutte le idee partecipano pur restando
quelle che sono; esse trasformano il senso eidetico
dei generi usati nella discussione nel carattere trascenden
tale della legge di correlazione.
<( Esiste dunque un essere del non essere, non solo del movimento, ma in tutto l’insieme dei generi. In tutti essi infatti la natura dell’altro rende ciascuno di essi altro che l’essere, e, perciò stesso, non essere. Così tutti, universal 1) A. DIKS: Op. cit., pag. 10. mente, sotto questo aspetto, possiamo chiamarli non essere e d’altra parte, poiché essi partecipano all’essere, noi li chiamiamo essere ». « Intorno ad ogni idea c’è una molteplicità di essere e un’infinita quantità di non essere » (256 E). Per tante volte gli altri sono, per altrettante l’essere non è (257 A). Quando si enuncia il non essere non si enuncia il suo contrario « ma solo qualcosa che è altro da lui )> (257 B). Parmenide è così definitivamente confutato
(258 C D E) : il non essere è, ed è perchè l’essere non può
essere senza non essere. La categoria dell’essere con cui
il pensiero pensa il mondo, categoria che si svolge dalle ,
stesse idee, si sviluppa e si trasforma nella legge stessa con
cui il pensiero pensa l’essere e il non essere di sè medesimo.
Si darà quindi pienamente ragione a Diés ed alla sua
critica di quelle interpretazioni che consideravano il movimento
come base di tutto il dialogo. Il concetto di movimento
come quello di stasi e quello di medesimo non è che
un passaggio necessario della deduzione dell’essere come
posizione trascendentale. « Il movimento viene stabilito e
difeso sotto il medesimo titolo della stasi, a titolo cioè di
intermediario, come termine di paragone necessario alla
determinazione di un altro concetto » che è appunto il
non essere come alterità Certo la nettezza di queste posizioni
in Platone è complicata dalla difficoltà dell’argomentazione:
unità e molteplice, movimento e stasi e altre
simili correlazioni possono in realtà tutte valere come categorie
massime su cui si muove la legge trascendentale,
mentre d’altra parte nessuna di esse è valida non appena
la correlazione venga spezzata ed i due opposti intesi dogmaticamente.
Resta da notare qualcosa intorno al concetto di essere
totale (pantelòs on). Infatti che cos’è questa legge trascen
dentale se non quella posizione in cui l’unità si pone come
1) A. DIÈS: Op. cit. Pagg. 2, 45 , 127 e 128.
superiore a tutte le altre ipotesi del Parmenide? Che cos’è
se non l’incontro creativo dell’essere con il non essere per
cui il pensiero crea dall’interno di sè stesso il mondo? In
quanto legge trascendentale il pensiero è il grande « metaxù
», l’eterna continuità correlativa tra l’uno e il molteplice,
tra il movimento e la stasi, tra l’eternità e il tempo.
L’essere nella sua totalità è l’essere oltre ogni determinazione,
in cui la vita si fonde con la morte, il movimento
con la pace eterna. Si è tante volte dimenticato che subito
dopo il famoso passo sull’essere nella sua totalità (249 A)
troviamo nel Sofista un altro passo non meno significativo.
Se l’essere è immobile esso non avrà nè intelletto nè vita
e ciò non è possibile (249 B), « ma, nello stesso tempo,
se noi accettiamo di porre in tutto la traslazione e il movimento,
ciò vorrà dire, ancora una volta, sopprimere l’intelletto
dal rango degli esseri » (cit. 249 B). Movimento e
vita dunque quelli dell’essere totale, ma non il movimento
delle cose, della vita che noi, in quanto uomini, conosciamo.
Quella vita piuttosto che sorpassa ogni determinazione
particolare di mobilità e immobilità, di nascita e
di morte, quella vita dunque che trascende ogni posizione
parziale e in cui solo si attua il pensiero come pura legge
della sua razionalità.
D’ora in avanti i problemi di Platone saranno i seguenti:
la legge trascendentale, che esprimendosi nelle categorie
essere e non essere, garantisce il nostro conoscere e
unifica in sè idealità e materialità, spiegando l’unità del
molteplice e la possibilità dell’errore, quella legge, che già
nel Simposio si era presentata nella creazione come costitutiva
della vita spirituale, in quali categorie si dovrà esprimere
quando si presenterà come sistemazione razionale
del mondo della politica, della morale e della natura?
CAPITOLO II.
POLITICO, FILEBO, TIMEO E LE IDEE NUMERI
77 Politico — Si è definito il contenuto di questo dialogo
come un problema politico che serve di pretesto ad
esercizi dialettici sul metodo. Non si troverà infatti nessun
altro dialogo platonico in cui si parli con tanta continuità
del metodo diairetico ed in cui questo venga più attuato.
Ciò nonostante la diairesis non può rispondere nemmeno
qui a problemi che escono dai suoi limiti. Si tratta di sapere
chi è il politico e si cerca di risolvere il problema analizzando
e dividendo nel seno della tecnica e della scienza.
La politica sarà una scienza pratica e non teorica (258 E),
ma l’uomo di Stato non è un puro tecnico o un puro pratico,
esso possiede un sapere (259 C D) che però ha una
funzione non critica ma direttiva (260 B C), e dirige non
delle cose ma degli esseri viventi che hanno la caratteristica
di vivere in comune (261 C D E). A questo punto interviene
l’applicazione della diairesis che conduce alla definizione
del politico come pastore di uomini. Lo straniero
riassume così la ricerca: « nella scienza teoretica dunque
avevamo, prima di tutto, una parte direttrice e, di questa,
una parte che per analogia abbiamo chiamato autodirettrice.
L’arte di allevare gli animali fu poi divisa come
una non piccola parte di quella e come specie a sua volta
di quest’ultima abbiamo trovato l’allevamento del gregge,
e di questo l’allevamento del gregge errante e ancora l’arte
di allevare gli animali senza corna. La parte che poi si
deve separare di quest’ultima arte ha bisogno per essere
divisa di essere considerata da tre punti di vista se la si
vuol comprendere sotto un nome solo e chiamarla l’arte
di pascolare animali non adatti all’incrocio. Finalmente la
divisione di questa, l’arte cioè di pascolare gli uomini, ultima
parte che restava del gregge bipede, è proprio quella
che si cercava e che si può chiamare arte regia o politica »
(267 B C). Il lettore ritroverà facilmente nel passo citato
il movimento della diairesis nel momento in cui nella sumploké
eidòn raccoglie tutti i predicati intorno « all’ultima
parte che restava » e cioè all’atomo eidos. Si apra un
qualsiasi trattato di sistematica e si troverà che alla domanda:
« che cosa è l’uomo? », si risponde con lo stesso
metodo che l’uomo è l’homo sapiens. Non si vorrà con
ciò pretendere che la sistemazione risolva il problema filosofico
dell’uomo come non si può pretendere che Platone
risolva totalmente nella diairesis il problema politico. Dalla
considerazione della politica come tecnica o arte fra le arti,
bisogna invece passare alla posizione del problema politico
nella sua interezza: qual’è la legge che regola la vita politica?
Qual’è la categoria per mezzo della quale il pensiero
può rendersi ragione dell’attività politica?
La definizione raggiunta dalla diairesis non serve a
questo scopo. In che cosa il re differisce da tutti gli altri
pastori? (267 E). Considerata la politica come un fatto tra
i fatti empirici analizzati essa si confonde con tutte le altre
arti empiriche. Commercianti, maestri di ginnastica,
agricoltori e fornai pretenderanno di essere considerati uomini
politici (267 E, 268 A). Per trascendere questa posizione
puramente empirica del problema si introduce un mito.
La condizione attuale dell’umanità è derivata da una « caduta
» come quella dell’anima individuale, è una condizione
retrograda rispetto al mitico regno di Cronos, in cui
il mondo era guidato da un Dio. Le due età sono in di
pendenza del movimento dell’universo che si svolge in
due tempi. Il cosmos, come una sfera perfettamente equilibrata
su di una base, vien fatto girare da un Dio in un
senso positivo e sotto questa guida divina sulla terra tutto
è felicità e bellezza, poi il Dio l’abbandona e l’universo ritorna
indietro. Al regno di Cronos succede allora il regno
di Zeus e mentre prima gli uomini erano guidati da un pastore
o da più pastori divini, il Dio dell’universo e le sue
divinità, sotto il regno di Zeus « la funzione pastorale non
appartiene più a delle divinità: gli uomini devono bastare
a sè stessi e governarsi da soli » ]). « Il mito del Politico
afferma che la funzione politica esige attitudini specialissime,
poiché il politico è colui che, in una umanità caduta,
deve rappresentare ciò che rappresentava il Dio per l’umanità
del tempo di Cronos » 2). Bisogna dunque tener conto
per la politica di un fatto fondamentale: l’uomo politico
si trova fra un mondo negativo e una funzione positiva
da compiere in questo mondo negativo. La politica non si
può staccare dalla storia dell’universo e il mito vede in essa
il succedersi di due movimenti che riflettono i due sensi
della legge del pensiero: il movimento verso l’essere e
quello verso il non essere. Analogamente nel Timeo l’universo
si muoverà in due sensi contrarli corrispondenti al
moto che partecipa del medesimo e a quello che partecipa
dell’altro (Timeo 36 C D). Il mito dell’Atlantide, con cui
si inizia il Timeo (21 E e segg.), risponde alla stessa esigenza
del mito di Cronos; nell’uno e nell’altro si cerca una
realizzazione storica dell’idea in uno Stato perfetto. Nel
Timeo il mito realizza il desiderio di Socrate che vorrebbe
la storia di una città veramente esistita e corrispondente
alla descrizione teoretica della città perfetta (Timeo 19 B).
La descrizione della città ideale del Timeo ha proprio la
1) R OBIN: Platon cit. Pag. 292.
2) R OBIN: Op. cit. Pag. 293.
funzione di ricollegare il problema della natura al proble
ma politico.
Il politico non è dunque il pastore di popoli dell’epoca
divina ma il correttore di un mondo imperfetto, legato al
divenire, al non essere, al male. « Mentre ci veniva chiesto
il re ed il politico del ciclo attuale e del modo attuale
di vivere, andare a cercare, proprio nel periodo opposto,
‘il pastore che guidava il gregge umano di allora, pastore
divino e non umano, questo era proprio un grande er
rore » (274 E, 275 A).
Viene così introdotto nella ricerca il concetto di non
essere come propedeutica alla descrizione della legge che
governa la vita politica. Il mito non è sufficiente a questo
scopo e lo Straniero cerca di svolgere la discussione sulla
base di un esempio paradigmatico simile, nella sua fun
zione, a quello del pescatore di lenza già usato nel Sofista.
Si tratta di definire l’arte del tessere. Si escludono da que
sta diaireticamente tutte le arti prossime che contribuiscono
alla tessitura. Nell’arte della lana si distinguerà l’arte di
filare il solo ordito e quella che fila le trame per conclu
dere che l’arte del tessere è quella che « con l’intreccio del
le trame e dell’ordito forma un tessuto » (283 A). Si trat
terà di usare lo stesso procedimento per raggiungere la de
finizione del politico. Qui non troviamo il tono ironico del
Sofista rispetto all’analogia tra pescatore di lenza e sofista,
poiché il politico verrà effettivamente considerato come
un reale tessitore che tessendo insieme le varie indoli degli
uomini « conduce a termine il più magnifico e il più ec
cellente di tutti i tessuti » (311 C). Ciò non vuol dire però
che la diairesis riesca effettivamente a definire l’arte poli
tica. Si tratta di un procedimento analogico giustificato dal
fatto che la politica rientra nella sfera dell’azione: tra il
mondo politico e il mondo empirico c’è una connessione
necessaria in quanto la politica deve necessariamente muo
versi ed agire in quel mondo così come esso si presenta al
l’analisi diairetica. L’antitesi si ripresenta come opposizio
ne tra il sensibile e l’incorporeo: l’esercizio dialettico sul
primo prepara alla vera dialettica del secondo (285 E,
286 A). L’uomo politico si trova a metà, per sua natura,
dei due mondi che l’esempio paradigmatico cerca di avvicinare.
In questo modo come la diairesis nel Sofista veniva
ricollegata alla ricerca filosofica, così le varie attività pratiche
e tecniche vengono avvicinate all’arte politica. Il
metodo diairetico circola nell’interno della scienza politica
per i contatti necessari della politica con il mondo. Così si
comprende chiaramente l’approfondimento del processo paradigmatico:
in un certo senso è un paradigma tutta l’azione
politica che tende a realizzare in un mondo negativo un
ordine e un’armonia. A. Diés nota, con la consueta profondità,
che « questa opposizione tra realtà corporali e incorporee,
in cui si prolunga o piuttosto risorge il problema
del paradigma, fa parte di un’esposizione che si presenta
come una disgressione e che si ha spesso il torto di considerare
come tale. Ora, il concetto che qui viene introdotto,
in un luogo che è materialmente il centro del dialogo, ne è
nello stesso tempo il centro dinamico. Questo concetto è
la grande misura: to métrion » ‘), che rappresenta proprio
la legge interiore che regola la vita politica e perciò la
espressione della legge di correlazione assunta come legge
direttiva della vita politica stessa. Platone sottolinea che
questa legge della misura, che regola il rapporto tra il piccolo
e il grande e tra il negativo e il positivo, non deve intendersi
in senso empirico, come se si trattasse di misurare
delle cose. Grande e piccolo non sono solo in rapporto l’uno
con l’altro, ma partecipano ambedue del concetto di misura
(283 E). Si deduce così, come nel Sofista, una categoria
che si svolge in legge e che, se mancasse, renderebbe
impossibili tutte le arti e la politica stessa (284 A). « Dobbiamo
dunque fare come nella questione del Sofista, dove
1) A. DIÈS: Edizione del Politico. Paris, 1935, Pagg. XLIII
XLIV.
abbiamo costretto il non essere a essere, perchè quest’esistenza
era l’unico rifugio del nostro ragionamento e costringeremo,
questa volta, il più e il meno a diventare
commensurabili non solo l’uno all’altro ma anche rispetto
alla giusta misura » (284 B).
L’arte reale è dunque una metretica superiore che accorda
il mondo ideale con il mondo negativo del divenire,
essa permette la divisione per speci e generi in modo tale
che questa divisione si possa applicare a tutte le arti tecniche
e creative: si tratta di una specie di diairesis al servizio
dell’azione basata sul possibile accordo tra il mondo
e la realtà del bello, del giusto e del buono L’uomo di
Stato è la realizzazione di questo principio che permette di
distinguere il politico dal politicante, come il filosofo dal
sofista (291 C). Come il sofista si trovava pericolosamente
vicino al filosofo, così il politico è in stretta connessione
con il tiranno, in quanto gli è permesso di essere superiore
alle leggi, e, in caso di necessità, di violarle (293 A B) e
proprio in quanto ha coscienza della differenza tra sè e il
tiranno è un vero uomo politico. È al di sopra delle leggi
proprio perchè può fondarle, perchè possiede la scienza
reale (296 D e segg.), la sua violenza è giustificata dalla
necessità di una mediazione paradigmatica, dalla legge
stessa che regola la vita politica.
Filebo. — Il Filebo è il dialogo di un autunno pieno
e maturo: un’atmosfera di saggezza goethiana lo pervade.
Il giovane Socrate del chorismos fra idee e mondo si
è ripiegato su sè stesso e la sua ribellione alla vita del senso
è diventata accettazione totale e serena calma di valutazione.
Socrate s’intrattiene sorridendo con questo « Filebo il
bello » che non vuole a nessun patto porre in discussione
1) R OBIN: Op. cit. Pag. 270-271.
la sua certezza che il piacere sia per l’uomo la massima
felicità. Vero sacerdote di quella dea che « egli dice portare
il nome di Afrodite, ma il cui vero nome è Piacere » (12
B). Perchè ecco che cosa ora interessa a Socrate: che ciascuno
di noi cerchi di porre in luce quali sono il tenore di
vita e lo stato d’animo atti a rendere possibile per tutti gli
uomini un’esistenza felice » (11 D). Da questo nuovo punto
di vista la pura razionalità socratica deve discendere dal
suo aristocratico seggio e l’individuale certezza di Filebo
elevarsi ad una posizione universale. La dea di Filebo, dimostra
Socrate, non può identificarsi con il bene; « ma
nemmeno la tua intelligenza, o Socrate ». « La mia forse
o Filebo. Ma la vera, la divina, credo si comporti ben altrimenti.
E nemmeno io ora combatto perchè l’intelligenza
conquisti il primo premio… » (22 C). Il concetto di misura
e di armonia ritorna come medietà degli opposti e
trionfa in una visione etico-finalistica del cosmos in cui Socrate
tenta di fissare una gerarchia di valori. La possibilità’
stessa della ricerca è data da Protarco, termine medio tra
le due credenze dogmatiche del bene come intelligenza e
del bene come piacere. Molto acutamente nota lo Stefanini :
« senza la mediazione di Protarco, Socrate rimarrebbe incomunicante
con Filebo, nella stessa guisa che senza la
generazione del misto la finitezza delle idee sarebbe infeconda
rispetto al torbido fluire dell’infinito, e parimenti
come la pura sapienza contemplativa rimarrebbe squallida
di affetti se un tenore intermedio di vita non elevasse nella
sfera del pensiero qualche palpito di compiacenza e qualche
fremito di piacere »
Infinità e finitezza sono ora le due nuove categorie
sotto cui si presenta il cosmos, il peras principio d’ordine
e di armonia, l’apeiron principio di disordine e confusione
della relatività assoluta dell’illimitato. Sotto questo nuovo
1) L. S TEFANINI: Platone. II. Padova, 1935. Pagg. 283.
aspetto l’universo deve essere visto perchè la ricerca sul
bene sia possibile; la gradualità dell’uno e del molteplice
che qui si richiama, distinguendola dalla pura opposizione
(14 C) e ponendola come giustificazione delle enadi ideali,
tema preludiante, e non il solo in questo dialogo, all’armonia
di Leibniz, questa gradualità diventa rapporto armonico
tra il limite, il preciso, e l’imprecisabile infinità del
molteplice. « Dono di Prometeo agli uomini », « risplendente
di luce infinita », questa nuova dottrina che ci hanno
lasciato gli antichi, « più saggi di noi e più vicini agli
dei », dottrina per cui « le cose che si dicono eterne sono
composte dall’uno e dai molti e hanno insito in loro il limite
e l’illimitato » (16 C). Perchè « l’uno originario non
è soltanto uno e molti e illimitati ma è anche uno e una
quantità limitata » (16 D). La vera vita è così un misto
del limite e dell’illimitato (22 A, 23 D) perchè « nessuno
di noi vorrebbe vivere possedendo la scienza, il sapere,
l’intelletto e la memoria di ogni cosa, senza però aver piaceri
piccoli e grandi e neppure dolori » (21 D E). E di
questo miscuglio del limite e dell’illimitato ci deve essere
una causa che riunisca in una armonia sola i due estremi
stati del reale (22 D, 23 D) e, forse, un’altra azione causale
che divida ciò che prima è stato unificato (23 E). Socrate
non vi insiste troppo. I nuovi generi sono dunque
quattro o cinque: il limite, l’illimitato, il loro miscuglio,
la causa del miscuglio dei due primi generi e forse la causa
che divide i due generi in questione. Cinque generi, ma
non è difficile vedere come, nel loro intimo, essi si basino
e si riassumino sul terzo genere, sull’unione delle due op
poste posizioni di limite e di illimitato. In fondo la causa
del loro unificarsi e del loro dividersi si risolve nella possi
bilità o meno della sintesi armonica del bene che, quando
avviene, realizza la propria natura ed è in un certo senso
causa di sè stessa resa possibile dalla possibilità di una
medietà tra. i due mondi, e, quando non avviene, lascia
due mondi rivolgersi l’uno contro l’altro rendendoli causa
essi stessi, nel loro dogmatismo, della mancata sintesi. Non
bisogna insistere troppo su questi generi e Socrate stesso
ce lo consiglia. L’essenziale è il superamento delle due posizioni
dogmatiche della vita morale, vale a dire del bene
come piacere e del bene come contemplazione, superamento
in cui si esprime la legge con cui il pensiero pensa
l’universo come ordinamento etico-teleologico. Perciò non
si saprebbe del tutto dissentire da A. Diés che non crede
necessaria, a proposito del nostro dialogo, una precisazione
metafìsica troppo ambiziosa Ma nemmeno sembra facile
respingere il tentativo di Lachelier che, basandosi su un
passo di Plutarco, identifica i cinque generi del Filebo con
i cinque già visti del Sofista “), per quanto l’identificazione
sia tutt’altro che priva di difficoltà 3). Precisazioni di questo
genere, dato l’avvertimento notato di Socrate, sono
forse fuori luogo; ma più che esteriore l’analogia è interiore:
si tratta sempre della legge posta in luce dal Sofista
che deve ora costruirsi le categorie da cui svolgersi per
comprendere la vita morale. L. Robin ha posto chiaramente
in luce l’unità ideale dei problemi del Filebo con
quelli degli ultimi dialoghi ‘) e si capisce che se identificazioni
letterali sono impossibili non si deve rinunziare alla
unità dei problemi.
Si può comunque porre la seguente questione: quali
sono le essenze della vita morale? in che modo si deducono
e in che rapporto sono i generi? Ora questi generi sono i
termini in cui si esprime la legge della ragione in quanto
assunta come legge del mondo morale, ma il cosmos si
presenta e si deve presentare come disteso al di fuori di
quella legge, in una sistemazione che sè è razionale si pone
anche come essenzialità etica graduale dei valori. Il mondo
1) A. DIÈS: Autour de Platon cit. II, Pag. 385.
2) Oeuvres de J. L ACHELIER: Paris, 1933. II, Pag. 19 e segg.
3) L. S TEFANINI: Op. cit. Pag. 289 (1).
4) L. R OBIN: Op. cit. Pag. 154 e segg.
del Parmenide che dall’uno scende al molteplice viene visto
come un quadro statico in cui la legge della vita morale
deve scoprire una gerarchia. E se i sensi dell’essere
del Parmenide risultavano senz’altro dallo spiegarsi delle
possibilità antinomiche del pensiero, qui il pensiero si pone
non come la ragione stessa che si crea il suo oggetto ma
come pensiero di un mondo che, pur retto e pensato razionalmente,
ha il suo tipico ordinamento etico, in cui
l’apriori, se si vuol così parlare, è un’apriori razionale in
quanto è nello stesso tempo un apri ori morale. La funzione
di quest’ultimo non è solo quella di rivelare al pensiero un
ordine etico del cosmo come esplicarsi della legge di armonia
tra il limite ed il limitato ma anche quella di vedere
quel cosmos, come si è detto, disteso, oggetto del pensiero
fissato su cui il pensiero ritorna per scoprire in esso la gradualità
del mondo eidetico in cui si esprime la vita morale.
Oltre le categorie ci troveremo allora di fronte ai gradiidee,
rivelati dalla stessa legge in cui i valori morali esprimono
la propria essenza e che è necessario scoprire nella
loro gerarchia. Vedremo come da questo finalismo gerarchico
Platone svilupperà la teoria delle idee-numeri. Per
ora dobbiamo solo sottolineare che se la legge della vita
morale fonde il limite e l’illimitato nella trascendentalità
della sintesi, è necessario poi spezzare ancora una volta la
sintesi per rivedere il cosmos in una rete ideale di cui il
limite è la maglia più larga e più forte e l’illimitato si presenta
come la molteplicità delle piccole maglie in cui la
rete si allarga, assottigliandosi, per tendere all’infinito. Forse
pensando a questa nuova difficoltà Socrate fa intervenire
il genere causa che crea il miscuglio ed accenna ad
una seconda causa che dovrebbe dividere ciò che è stato
unito: semplici accenni che poi non vengono sviluppati.
In ogni modo Platone non crede ancora necessario l’uso
del mito che nel Politico aveva risolto problemi non meno
gravi e che si renderà necessario nel Timeo quando il quadro
del mondo oggettivo come mondo fisico diventerà, in
quanto sommerso-nel. divenire, opaco alla legge del pen-*
siero. Socrate nel Filebo può distendere la sua legge di
armonia in una descrizione delle essenze della vita morale:
qui non ci sembra che Lachelier abbia torto nell’insistere
sul rapporto dei cinque generi con i cinque valori-essenze
per quanto la deduzione di queste dai primi sia tut-
t’altro che chiara l). Del resto una simile indagine sarebbe
a suo posto solo in uno studio sulla teoria della morale platonica.
Sia sufficiente notare che questi cinque valori, gerarchicamente
posti come misura, proporzione, saggezza,
opinione retta che si attua nelle arti e nelle scienze, piaceri
liberi dalla loro correlazione con il dolore (66 ABC) , non
possono costituirsi se non come mediazione tra l’ordine limitato
del bene e il disordine infinito della vita sentimentale,
non possono costituirsi cioè se non come esplicazione
della sintesi regolatrice della morale e quindi della stessa
legge del pensiero che in quella sintesi si esprime.
Il Timeo. — Il problema del Timeo è il problema di
una filosofia della natura congiunto con quello di una filo-sofia
della storia. Da questo tema iniziale, che congiunge
inesorabilmente la necessità di uno strumento teoretico atto
alla conoscenza dell’universo fisico e la parallela necessità
di tener presente che questo strumento dipende a sua,
volta dal tempo e dalla sua inalienabilità, nasce tutta la
problematica di una filosofia della natura, non solo nel Timeo,
ma in tutto lo svolgersi del pensiero occidentale. Le-
vie segnate dal pensiero greco sono le stesse che la scienza
moderna percorre : il problema del tempo riassume in sè .
tutto il senso della ricerca filosofica e si pone d’altra parte
in termini così perentorii da lasciarci perplessi per la sua
fatalità aporetica. Alla conclusione del suo studio sul concetto
di tempo nella filosofia di Platone A. Levi si esprime
1) LACHELIER: Op. Cit. Pagg. 25-27.
nei seguenti termini: « All’interpretazione logico-metodologica
dell’idea, offerta dal Natorp e dai suoi seguaci, che
pensano questa come metodo o legge del pensiero, corrisponde
una filosofia che, condannando ogni metafisica, rivolge
la propria ricerca alla determinazione dei fondamenti
razionali della conoscenza, da cui si sforza di derivare
la logicizzazione progressiva dell’esperienza. Ma se tali
fondamenti non sono nel tempo, se valgono all’infuori di
ogni successione come è possibile ridurre ad essi quell’esperienza
che necessariamente assume l’aspetto del divenire
temporale? Le obbiezioni che sono legittime contro’ l’interpretazione
logico-metodologica del pensiero platonico, valgono
anche contro ogni neo-kantismo formalistico. In breve,
i problemi non risolti dalle concezioni platoniche rimangono
quelli stessi che il nostro pensiero assale vanamente,
perchè non trova il passaggio da ciò che è fuori
del tempo a ciò che in esso si svolge, e perciò non sà spiegare
il problema dell’esperienza nè comprendere come, con
un processo intellettuale che ha un decorso temporale, si
possa cogliere una sfera di valori teoretici che stanno fuori
di ogni successione »
Certo Kant non si è ritirato di fronte ad un tale problema:
noi sappiamo che il concetto di tempo è al centro
ideale della « Critica della ragion pura » come tema dominante
del problema dello schematismo trascendentale il
quale dovrebbe permettere l’applicazione delle categorie ai
fenomeni, per cui lo schema partecipa da un lato della
natura del mondo intellettuale e dall’altro al mondo sensibile
“‘). E non sarebbe fuori luogo notare che, come si è già
visto, nelle ultime espressioni del pensiero platonico il concetto
di medietà compie una funzione analoga nella quale
1) A. L EVI: Il concetto di tempo cit. Pag. in .
2) K ANT: Critica della ragion pura. Bari, 1924, I, Pagg.
159-160.
si rispecchia il punto di vista della terza ipotesi del Parmenide
applicato via via alla politica nel Politico e alla
morale nel Filebo. Ma con tutto ciò non è detto che la difficoltà
sia risolta. La questione sembra riporre in discussione
tutta la teoria delle idee: il chorismos è ripresentato
decisamente proprio all’inizio del Timeo come opposizione
fra ciò che è sempre e non è mai stato generato e eie che
invece nasce continuamente e mai è (27 D) e con il chorismos
ritorna una teoria che gli era parallela e cioè la mimesis
(31 A), largamente usata in tutto il dialogo ‘) nonostante
la ben nota critica del Parmenide. Eppure il mondo
delle idee esiste e negarlo è impossibile. « È forse invano
che noi affermiamo continuamente che esiste di ogni
oggetto un’idea intelligibile, oppure tutto ciò non è che
una questione di parole? » (51 C) E si risponde distinguendo
l’intellezione dall’opinione: ciò che risponde alla prima
esiste e di esso è possibile un’idea (52 A).
Ma non si deve dimenticare la ragione per cui questa
chiarificazione sulle idee è introdotta nel Timeo. Essa è legata
intimamente al problema del luogo, dello spazio (xora,
48 E e segg.) che, comunque si voglia intendere, è certo
un terzo genere, medio tra il mondo ideale e il mondo del
divenire, che il ragionamento conduce di necessità a porre,
anche se lo stesso Platone confessi di non veder troppo
chiaro nella questione (49 A). Allo schematismo temporale
si aggiunge così una specie di schematismo spaziale ed anche
qui si tenta di risolvere il problema per mezzo del concetto
di medietà o, per lo meno, per mezzo di un piano
che concilii le opposte posizioni dell’ideale e dell’esistente.
Il tempo del Parmenide era l’eterno presente che coincide
con l’eternità: il tempo del Timeo è creato dal Demiurgo
come un’imitazione mobile dell’unità eterna, « Egli ha
fatto, dell’eternità immobile ed una, questa immagine eter
1) L. S TEFANINI: Op. cit. II, Pag. 326.
na che progredisce seguendo la legge dei numeri » (37 D).
Il tempo del Parmenide era eternità ed istantaneità come
incontro delle due posizioni dell’uno e del molteplice, dell’essere
e del non essere. Nel Timeo l’uno ritorna eternità
immobile: si distingue l’è che gli appartiene dal fu e dal
sarà del mondo: le tre dimensioni del tempo non si fondono
ma riaprono ancora una volta il dualismo (37 E, 38 A).
Il problema dello spazio si pone sullo stesso piano: appunto
perchè l’istantaneità eterna del Parmenide era l’incontro
tra l’essere come essere perfetto e il nulla assoluto
e, poiché tutte le possibili posizioni dell’uno e del molteplice
confluivano nella terza ipotesi, si poteva in essa ritrovare
il concetto di creazione del Simposio. Dopo la terza
ipotesi la correlazione dell’uno e del molteplice riguarda
non solo un mondo ideale ma un mondo reale, non solo le
idee possono essere le dimensioni del pensiero ma si presentano
come l’essere razionale della realtà, la realtà esistente
del mondo in quanto raggiunta dall’angolo visuale
di una data correlazione resa possibile dalla legge trascendentale.
Ma appunto perchè posta dal movimento dell’uno
e del molteplice la realtà del Parmenide sarà sempre, in
senso largo, una realtà del pensiero, le cose della diairesis
saranno sempre poste dal metodo che le pensa, e in ciò del
resto la giustificazione della massima apertura dell’idealismo
platonico, che giunge là dove sembrava fosse assurdo
giungere a Socrate giovanetto. Ci sono idee di tutte le cose
e il vero metodo è quello prospettato dalla Repubblica e
risolto nel Parmenide: « usare le idee e raggiungere le idee
per finire ancora nelle stesse idee ». Dopo ciò tutto dovrebbe
essere più facile di quanto in realtà non sia: tempo
e spazio sono idee; che vale la ricerca di una esistenzialità
spaziale e temporale se è veramente possibile, per dirla
con linguaggio moderno, che « la natura nel suo significato
materiale » si risolva « nella costituzione della nostra sensibilità
», e, nel suo significato formale, nella costituzione
del nostro intelletto che a sua volta per mezzo delle sue
regole rende possibile la stessa esperienza se infine è
possibile, attraverso lo schematismo, una tavola fisiologica
pura dei principii universali della scienza della natura?
Eppure proprio questa tavola fisiologica pura, e cioè un
complesso di categorie fissate del pensiero scientifico, sembrerà
a Platone impossibile. La sua possibilità sarebbe
stata l’intera risoluzione del reale nell’ideale, del mondo
nel pensiero, dell’esistere nell’essere. Per la stessa ragione
per cui la diairesis ha un senso formale, come si è concluso
a proposito del Fedro, un’equazione tra essere ed esistere
è impossibile. Si possono ridurre il concetto di tempo ed il
concetto di spazio a categorie, ma si tenga presente che
tale risoluzione equivarrebbe alla stasi assoluta parmenidea
che proprio il Parmenide e più tardi il Sofista hanno criticata
a fondo. S’indovina qui il movimento interiore del
pensiero platonico: la comprensione totale del mondo equivale
alla sua negazione come mondo e quindi, per un passaggio
logicamente necessario, alla sua mancata comprensione.
Applicare al Timeo il movimento del Parmenide nella
sua interezza è impossibile e se fosse possibile la natura
non sarebbe più natura ma appunto pensiero e non è come
pensiero che noi vogliamo comprenderla ma come natura:
bisogna muoversi in essa senza negarla. Si ritrova il senso
della nota critica di Hartmann a Kant: tra le categorie a
priori e il mondo non c’è identità. È dunque di una specialissima
ontologia che si ha bisogno per la giustificazione
della natura. Le idee sono necessarie, Platone lo riafferma,
ma lo riafferma in rapporto alla teoria della xora e quando
sta per ricollegare al problema delle idee la sua teoria degli
elementi (53 C e segg.). Ciò che qui si cerca, non è un’ontologia
dell’essere ma un’ontologia dell’esistere, esprimendosi
in modo approssimativo, un’ontologia dell’esistere dell’oggetto
scientifico. Bisogna comprendere l’irrazionale senza
ridurlo a razionale. Ciò è necessario non tanto dal pun
1) K ANT: Prolegomeni. Bari, 1925, Pag. 118.
to di vista dell’esperienza quanto dal punto di vista del
pensiero: non si costringe l’irrazionle nella logica senza
violare la stessa legge della ragione. Identificare l’idea con
l’esistente non significa idealizzare l’esistente ma compromettere
la razionalità dell’idea. Non si vuol negare il senso
profondo dell’hegelismo ma la conclusione della filosofia
della storia non è la razionalizzazione della storia ma la riduzione
del razionale a contingente. Analogamente considerando
la natura come idea nel suo essere « altro da sè »
e come sistema dei gradi logici dell’idea ‘) si identifica l’idea
con il fatto, l’essere con il non essere e, proprio per salvare
la razionalità del pensiero, si spezza la correlatività tra essere
e non essere che la giustifica.
È necessario dunque riporre il dualismo del Timeo ed
è necessario proprio per salvare la ragione. Ciò che ora si
ha presente non è l’essere ideale o la riduzione del mondo
della natura e della storia all’idea, ma proprio l’esistenzialità
nel suo tipico non essere, nel suo essere immanente nel
tempo e nello spazio empirico. Il problema dell’esistenziale
diventa correlativo al problema dell’essere: il suo porsi
non è la negazione della razionalità ma lo svolgersi invece
della sua intima esigenza aporética. L’ontologia dell’esistente
che qui si ricerca deve permettere il muoversi del
pensiero scientifico e non può non essere posta dal pensiero
mentre deve nello stesso tempo far parte dell’irrazionale
diveniente. Si ritroverà la medesima esigenza nella speculazione
scientifica contemporanea: la scienza non può fare
a meno di un’ontologia su cui operare, anche nel caso che
questa venga riconosciuta come irrazionale 2). Così le idee
della diairesis dovrebbero trasformarsi in qualcosa di ibrido,
in qualcosa che pur essendo non è: non si tratta solo
1) H EGEL: Enciclopedia, Bari 1923, II, Pag. 209.
2) E. M EYERSON: Explication dans les sciences. Paris 1927,
Pag. 20, 23 e segg. Per Io sviluppo dei problemi qui posti si veda:
E. P ACI: Filosofia della natura e filosofia della scienza. Riv. di
Fil. 1938. II.
dell’idea del fuoco ma del fuoco concepito come elemento
che entra nella genesi temporale del mondo su cui la scienza
deve operare. Qualsiasi idea di cui si ammetta la risoluzione
nella genesi è fatalmente inadeguata: si pensi che
si può sempre parlare di essenza o di idea dell’acqua ma
che la scienza può mantenere quell’idea (dell’acqua come
elemento indivisibile) solo fino a quando non ha risolto
l’acqua in ossigeno ed idrogeno. Le idee non coincidono
con gli elementi perchè il mondo ideale non si può identificare
con l’ontologia scientifica. Perciò ogni soluzione scientifica
è precaria e, dal punto di vista filosofico, solamente
verosimile. Platone insiste con forza sul carattere puramente
ipotetico di ogni posizione teoretica che riguardi il
mondo dell’esistente scientifico, sia rispetto al concetto stesso
di un’origine del mondo (29 C), di teorie particolari
come la spiegazione delle sensazioni (68 D), sia rispetto
all’insieme di tutta la discussione (69 A B). Se si tratta
di idee queste hanno qui la ben strana caratteristica
di un essere nè stabile nè in alcun modo risolutivo. Ciò che
è vero per Platone come per noi è” che la scienza non sarebbe
possibile se guidata dal solo principio di identità.
La spiegazione scientifica non è che una continua razionalizzazione
del molteplice che pure non deve venir razionalizzato
ma essere mantenuto come tale. Con la ragione si
tende a negare i fenomeni « mentre per muoversi nel dedalo
che essi formano noi dobbiamo al contrario mantenere
la loro realtà » ]). L’irrazionale assicura così il movimento
del pensiero scientifico e dinamicizza l’ideale meccanicistico
della scienza; la risoluzione meccanicistica è un limite a
cui la spiegazione scientifica tende senza raggiungerlo mai:
si oppone al meccanicismo assoluto il principio di Carnot
e cioè il concetto dell’irreversibilità del tempo ‘”). La spie
1) M EYERSON: Op. cit. Pag. 676.
2) M EYERSON in P OIRIER: Phil, et Savants Franc. II. Paris,
1926, Pag. 87 e segg.
gazione meccanicistica dell’universo sarebbe dunque quella
totale razionalizzazione del divenire che si rivela impossibile
per Platone come per noi e che, una volta compiuta,
distruggerebbe la scienza stessa. Platone salva la situazione
per mezzo del mito e cioè, infine, ricorrendo ad un mezzo
di conoscenza non razionale che permette di risolvere la
paradossale situazione per cui si deve da una parte ontologizzare
e risolvere l’universo in una visione razionale,
dall’altra lasciare i termini della spiegazione assolutamente
mobili e sostituibili e quindi solamente ipotetici. Il mito ha
qui la funzione di salvare la razionalità che non si vuol
compromettere in un dannoso dogmatismo conformemente
a quello che secondo Brunschvicg è il senso fondamentale
del mito platonico l). E si può dire, tenendo conto di ciò
che si è notato, che il mito, in questo caso particolare, equivale
al paradosso epistemologico di Meyerson in cui si traduce
l’antinomia, necessaria al pensiero scientifico, tra razionale
e irrazionale, tra principio di identità e principio
di Carnot. L’irreversibilità del tempo è l’ostacolo in cui si
urta fatalmente la scienza come la filosofia della natura:
ogni spiegazione veramente meccanicistica, e cioè veramente
razionale, non può ammettere il tempo che come reversibile.
Di fronte alla realtà per cui ciò che è stato non può
essere più il pensiero deve necessariamente arrestarsi. In
questo arresto si riassume il passaggio dalla filosofia della
natura alla filosofia della storia. Ciò che una spiegazione
razionale della storia dovrebbe raggiungere è proprio la
spiegazione assoluta del succedersi dei fatti, ora la successione
temporale rimanda fatalmente al problema dell’origine
dell’universo e della sua fine: bisogna in altre parole
spezzare la serie causale con un principio da cui tutto ha
origine e con un fine a cui tutto tende. Principio e fine si
confondono in quanto ambedue tendenti a porsi come spie
i) L. B RUNSCHVICG : Le progrès de la conscience dans la phil.
occ. Paris, 1927, I, Pag. 17 e segg.
gazione razionale della, serie temporale. Come principio
assoluto a Platone non poteva presentarsi che l’unità parmenidea
già risolta in correlazione. Ma di fronte alla serie
temporale come irreversibile tale correlazione doveva necessariamente
cadere e l’unità ristabilirsi nella sua trascendenza.
Così Platone si sforzerà ancora di sintetizzare le due
posizioni dell’eraclitismo e dell’eleatismo. Per il primo il
tempo si risolveva nella nascita dell’uno e nel ritorno all’uno
di tutte le cose e l’eternità diventava infinita successione
ciclica, per il secondo l’eternità si fissava nel suo senso
assoluto Platone cerca di fondere le due posizioni:
l’uno si ripone nella sua trascendenza come eternità ed il
tempo diventa l’immagine mobile di quell’eternità. Il divenire
si svolge così in eternità pur restando divenire e salvando
la stasi dell’essere: « l’immagine mobile dell’eternità
è eterna in quanto essa, invece di vanire nell’infinito della
successione, si sviluppa circolarmente col moto perfetto degli
astri e ristabilisce al termine di ciascuno dei suoi cicli
numericamente determinato — il giorno, il mese, l’anno,
il grande anno (39 D) — quell’unità in cui permane l’eterno
propriamente detto » 2). Visione ardua — nota sempre
lo Stefanini — in cui si riflette la tipica concezione classica
della storia. L’irreversibilità è dunque corretta nel solo modo
possibile: si ammette un ritorno, che è poi eterno, all’unità
intorno a cui l’universo gira temporalmente e spazialmente.
Questa concezione classica è nettamente opposta
alla concezione della storia dell’idealismo hegeliano:
tuttavia bisogna notare che un esame approfondito del problema
dell’irreversibilità ci riconduce alla stessa posizione
greca. A. Rey ha dimostrato la necessità di violare il principio
di Carnot3) e la possibilità di un concetto scientifico
1) R. MONDOLFO: L’infinito nel pensiero dei Greci. Firenze
p
1934,ag- 53
2) STEFANINI: Op. cit. Voi. II, Pag. 351.
3) A. REY: Le retour èternel et la philos. de la phisique.
Paris, 1927, Pagg. 298-300.
dell’eterno ritorno che risolva le antinomie di unità e molteplicità
e di spazialità e temporalità1), senza che si sia
obbligati ad abbandonare la dinamicità vitale di quelle antinomie.
La violazione del principio di Carnot e il concetto
dell’eterno ritorno all’unità, intanto sono ammissibili in
quanto le due vie di processione dall’uno e di ritorno all’uno
sono rese possibili, e queste sono solo possibili in una
visione dell’universo che non neghi l’irreversibilità, ma che
ponga lo svolgimento vicino al ritorno in un susseguirsi di
processioni e di identificazioni già miticamente espresse nel
mito del Politico. Filosofia della storia e filosofia della natura
si fondono nello stesso problema: la successione temporale
deve necessariamente spezzare la correlazione del
Parmenide per porre la catena delle ipotesi non nella istantaneità
eterna della terza ipotesi, che tutte le riassume, ma
in un distendersi ciclico che traduce nel tempo, come uno
svolgersi e un ritornare, la discesa logica delle ipotesi dall’uno
superessente e il loro ritorno all’uno dopo il termine
ultimo della discesa. La prima ipotesi del Parmenide si fissa
dunque nella sua extratemporalità; la seconda ipotesi
diventa il mondo ideale come modello dell’universo determinandosi
come il vivente in sè (30 D, 31 A); la terza ipotesi
doveva necessariamente cadere in quanto l’unità delle
ipotesi nell’istante eterno della creazione era ormai spezzata.
Al posto della creazione logica si sostituisce il mito
del Demiurgo. Analogamente si spiega l’unità eterna che
rende possibile al Demiurgo la creazione “) : la creazione
del Timeo, come già avevano visto Xenocrate e Plutarco,
non è che una veste mitica che traduce il principio logico
in inizio cronologico 3). Le sconnessioni del mito sono facilmente
spiegabili: il Demiurgo doveva necessariamente
trovarsi tra l’idea e l’esistente e rappresentare la loro fu
1) A. R EY : Op. cit. Pag. 28G.
2) M ONDOLFO : Op. cit. Pagg. 68, 74.
3) M ONDOLFO: Op. cit. Pagg. 70, 73.
sione nella creazione prima ancora che l’esistente fosse effettivamente
creato. Tuttavia si vedrà qui rispecchiarsi nel
mito la legge che sviluppa in un terzo termine due opposti.
L’altro e il medesimo si ritrovano nella composizione dell’anima
del mondo (35 A B) mediati da un terzo genere
che, comunque si voglia intendere, compirà sempre un ufficio
di mediazione. La correlazione tra unità e alterità,
come quella tra finità e infinità, non sono negate ma solo
riportate all’esigenza del mito e cioè all’esigenza scientifica
del verosimile e dell’irrazionale. In questa complessità
spesso oscura di termini una posizione si fonde facilmente
con l’altra ma l’esigenza base è sempre la medesima: cosi
doveva aggiungersi alle precedenti posizioni il problema
della xora con le difficoltà che si porta dietro. Necessariamente,
dato il disporsi temporale delle ipotesi del Parmenide,
la formazione del cosmo « al pari di quella di ogni
altra realtà condizionata nel Filebo, deve essere ricondotta
al concorso dei due elementi costitutivi della generazione
e di ogni generato; quello in cui e quello a cui imitazione
la generazione si compie: ossia l’assolutamente amorfo e
la determinazione che esso riceve » J). Così la quarta ipotesi
del Parmenide, il mondo delle idee dopo la creazione,
si presenta come quella speciale ontologia di idee nello
spazio di cui si è parlato. Ciò che nel Parmenide è un momento
dialettico diventa nel Timeo una realtà: anche senza
tentare determinazioni più precise in proposito è certo
che nel Timeo si procede dall’unità al nulla, dalla pienezza
dell’eterno al vuoto di cui si cerca di dimostrare l’inconcepibilità.
Mondolfo ha notato che il vuoto escluso nell’interno
si ritrova all’esterno :), oltre l’universo, in una regione
3)
iperurania in cui il nulla si riafferma come superessenza
1) M ONDOLFO: Op. cit. Pag. 311.
2) M ONDOLFO: Op. cit. Pag. 316.
3) M ONDOLFO: Op. cit. Pagg. 320-321.
di tono mistico religioso. Si vorrà notare il significativo parallelismo
di questo movimento di idee con la già studiata
risoluzione dell’ultima ipotesi del Parmenide nella prima,
risoluzione che presenta qui il congiungersi dell’esistere,
che si nega nel seno della sua inevitabile dialettica, con
l’assoluto essere superessente e che ripone nello spiegarsi
mitico-naturalistico delle ipotesi del Parmenide la stessa
correlazione tra essere e non essere della terza ipotesi e
della legge trascendentale.
Nello stesso modo è possibile spiegare il ripresentarsi
della mimesis che qui doveva apparire come l’unica possibilità
di esprimere un rapporto tra l’essere ed il mondo. Ed
è facile capire che l’istantaneità della terza ipotesi doveva
nel mito spezzarsi e far posto alle fissazioni del tempo come
passato e come avvenire.
In conclusione la teoria delle idee non è riposta in discussione
se non in quanto il problema della filosofia della
natura e della storia e quello concatenato del tempo esigono
un nuovo punto di vista. Il tradimento verso la ragione,
e cioè verso la posizione del Parmenide e dei dialoghi
che lo seguono, si risolve in ultima analisi nel mito e quest’ultimo
non tradisce il razionale ma ne salva il valore
mantenendo la scienza nella sua necessaria ipoteticità e
salvando la ragione da un dogmatismo che renderebbe impossibile
la vita stessa del pensiero scientifico.
Le idee numeri. — Poiché le « Leggi » non interessano
il nostro studio finiremo con qualche brevissima osservazione
sulla dottrina delle idee numeri, senza diffonderci
sul problema che richiederebbe una troppo vasta trattazione.
Abbiamo visto la posizione del problema nel Parmenide:
la diade indefinita viene dedotta dall’unità ideale
nella seconda ipotesi e si è già detto come sia impossibile
identificare questi numeri con i numeri matematici. Che
in questo passo del Parmenide si deducano i numeri ideali
dall’unità viene sostenuto anche dallo Stenzel 1). Comun
que il senso delle « dottrine non scritte » di Platone non
sembra potersi ridurre a ciò che se ne dice nel Parmeni
de. Si noti tuttavia che già in quel dialogo si trova, come
si è visto, una gerarchia di ordini di idee di cui il primo
posto è occupato dalle idee numeri.
Il problema ci sembra rimanere nei termini posti dal
Levi che ricollega la teoria delle idee numeri con il senso
fondamentale del pensiero platonico. « L’interpretazione
matematica della realtà ideale si fonde indissolubilmente
con le primitive intuizioni estetico-etiche del platonismo: e
tale fusione è indicata dalla affermazione che la misura e
la simmetria sono bellezza e verità » 2). Con la teoria delle
idee numeri abbiamo dunque l’ultimo termine di sviluppo
del pensiero platonico che svolge ancora in profondità le
sue premesse, senza, secondo noi, negare i resultati prima
raggiunti. A Platone le estreme difficoltà di ricondurre il
divenire in un sistema razionale, difficoltà che d’altra par
te dovevano essere mantenute, come si è visto nel Timeo,
per garantire il movimento stesso del pensiero scientifico,
dovevano far pensare alla possibilità di una superiore vi
sione schematica o formale di carattere extra-temporale da
cui rimanessero fuori i problemi che nascono man mano
che ci si avvicina al non essere, man mano che si procede
dalla seconda ipotesi del Parmenide alle ipotesi negative.
Benché i problemi delle altre ipotesi del Parmenide doves
sero restare sempre validi, Platone poteva pensare di svi
luppare in un solo piano una dottrina puramente formale
su cui non influissero contenuti di sorta, ideale di una ma-
thesis universalis che doveva rivivere in Leibniz e che non
è spento nemmeno oggi. Ora poiché già nel Parmenidenumeri erano visti come le idee prime subito dopo l’unità,
1) S TENZEL: Zahl und Gestalt bei .Piaton und Aristoteles.
1 Ed Pa
Leipzig 1933, 1 -S – 58.
2) L EVI: Op. cit. Pag. 85.
era logico che si sviluppasse per un sapere formale assoluto
proprio la regione ideale da essi determinata, tanto
più che essa permetteva di conservare tutti gli altri aspetti
del pensiero platonico. Il mondo ideale rimane nella sua
tipica gerarchia e in tal modo « Platone realizza il piano
della Repubblica, di fondare sull’incondizionato il mondo
ideale, e, per conseguenza, quello sensibile (che riceve dal
primo la sua ragione d’essere), perchè l’uno è il principio
incondizionato che nulla ammette sopra di sè »1). « La
molteplicità delle idee forma in tal modo un sistema ordinato
gerarchicamente; e la molteplicità dentro ogni singola
idea (il peras del Filebo) è ridotta all’azione determinatrice
dell’uno » “‘).
Poiché lo sviluppo della nuova scienza esatta universale
e la sua formulazione sono possibili in quanto si astrae
da ogni problema particolare e si restringe il sapere in un
assoluto formalismo, doveva essere possibile, da questo
punto di vista, l’identificazione della diairesis con la dialettica
filosofica ed il metodo trascendentale. Per questa
formale regione ideale tutto il mondo si risolverà, così come
vuole Stenzel, sul piano di un’unica realtà ideale-matematica.
Ciò rende accettabile i resultati dello studioso tedesco
che accanto alla diairesis delle idee 3), può porre una
parallela diairesis dei numeri ‘), in quanto il metodo diairetico,
che applicato alle idee permette di discendere all’idea
atomo, applicato alle grandezze geometriche conduce
alla « linea insecabile » comprendente superfici e solidi
e produce, nel campo aritmetico, i numeri.
Ma ciò che a noi preme di sottolineare è il fatto che
nella teoria delle idee-numeri si ripresenta la posizione già
da noi ritrovata nei dialoghi platonici dopo il Parmenide.
1) L EVI: Op. cit. Pag. 90.
2) L EVI: Op. cit. id.
3) S TENZEL: Op. cit. Pag. 10 e segg.
4) S TENZEL: Op. cit. Pag. 23 e segg.
La dottrina si basa infatti sull’azione dell’uno, come principio
formale, sulla diade del grande e del piccolo come
elemento materiale, che « deve significare il principio della
variazione indefinita, della continuità » Tentativo dunque
di risolvere ogni sapere in sapere ideale, tentativo perciò
di una visione scientifica rigorosa, in cui si ripresenta
l’antinomia tra il principio materiale e il principio formale.
Principio materiale o il molteplice, l’illimitato, che traduce
il non essere; principio formale, o il bene o l’uno, che
traduce il correlativo concetto di essere. Dall’azione dell’essere
sul non essere nasce il mondo delle idee che risolvono
il vivente in sè ‘), cioè tutta la realtà vista come perfetta
e sistemata, in relazioni puramente ideali, quella stessa
realtà della seconda ipotesi del Parmenide e del modello
dell’universo che Platone tenta di allargare in una visione
rigorosa del tutto. Ideale che doveva cadere, in ciò che
risultava dalle mitologizzazioni matematiche dell’antichità,
ma a cui lo sviluppo del pensiero occidentale doveva ri
servare, in ciò che conteneva eli puramente razionale, il
più fortunato avvenire.
1) L EVI : Op. cit. Pag. 89.
2) R OBIN: Platon, Cit. Pag. 145.
PER UNA BIBLIOGRAFIA
I testi migliori sono quelli di Hermann-Wohlbrad nella biblioteca
Teubner di Lipsia e la seconda edizione della collezione
di Oxford a cura di J. Burnet. Preziosa ed arricchita della traduzione
e di ottime introduzioni è la collezione « G. Bude » a
cura di Robin, Diès, Rivaud, Croiset, Souilhè, però non ancora
completa.
II lettore troverà in A DOLFO L EVI: Le interpretazioni immanentistiche
della filosofia di Platone. Milano, s. d.; l’esposizione
e la critica delle principali interpretazioni del pensiero platonico.
Per ciò che esula dal contenuto di quest’opera si vedano i due
volumi di A. D IES: Autour de Platon, Paris, 1927. Una sobria
bibliografia si può trovare alla fine della bella sintesi di L. R OBIN :
Platon, Paris, 1935. Altre belle e chiare sintesi sono: A. E. T AYLOR:
Plato, London, 1929, 2a ediz.; A. D IES: Platon, Paris, 1930;
C. R ITTER: Die Kerngedanken der Plat. Phil. München, 1931;
L. S TEFANINI: Platone, due vol. Padova, 1932-1935. Non si dimentichino
le belle pagine dedicate da S TENZEL a Platone in Metaphysik
des Altertums. München, 1931, specialmente per ciò
che riguarda il Parmenide.
Per il Parmenide J. W AHL: Etude sur le P. de Platon, Paris,
1926, ci dà una buona bibliografia sull’argomento alla quale sia
sufficiente aggiungere: G. C ALOGERO: Studi sull’eleatismo, Roma,
1932; l’edizione del Parmenide con introduzione e appendice di
A. E. T AYLOR . Oxford, 1934 e lo studio di M AX W UNDT: Ueber
Platons Parmenides. Stuttgart, 1935.
INDICE
PREFAZIONE Pag.
PARTE PRIMA
IL PROBLEMA DEL PARMENIDE NEI DIALOGHI
FINO ALLA REPUBBLICA
Cap. I. — I dialoghi giovanili fino al Cratilo . Pag. il
L’Ippia Minore e il Primo Alcibiade 12
L’Ippia Maggiore 13
L’Ione ….
Il Carmide ed il Lachete 16
Il Liside …. 17
L’Eutifrone 17
Il Protagora e l’Eutidemo 18
Il Gorgia 19
Il Menone
22
Il Cratilo
25
» IL — 77 Fedone, il Simposio e il Fedro 29
Il Fedone …. 29
Il Simposio . . . . 34
Il Fedro ….. 50
» III. — La Repubblica 68
Lo Stato ideale 68
Dialettica e realtà .
74
PARTE SECONDA
IL PARMENIDE
Cap. I. — La prima parte del Parmenide . . Pag. 89
Socrate e Zenone . . . . . . 89
Parmenide e Socrate. – Necessità di idee
di tutte le cose . . . » 93
Rapporti con il problema della diairesis » 95
Le difficoltà della partecipazione . » 97
L’argomento del terzo uomo . . » 99
L’idealismo empirico . . . . » 100
La teoria della mimesis . . . » 103
Il problema della scienza delle idee e la
conoscenza del mondo . . . » 105
L’esercizio dialettico . . . » 108
» II. — La seconda parte del Parmenide . . » ni
La prima ipotesi . . . . » in
La seconda ipotesi . . . . » 119
La terza ipotesi . . . . . . 133
La quarta ipotesi . . . . » 147
La quinta ipotesi . . . . » 154
La sesta ipotesi . . . . » 155
La settima ipotesi . . . . » 162
L’ottava ipotesi . . . . » 164
La nona ipotesi . . . . . . 165
PARTE TERZA
IL TEETETO
Dialettica ascendente e fenomenologia del conoscere . » 169
La maieutica ……… 174
La libertà del sensibile . . . . . . . 178
La prima critica di Socrate a Teeteto . . . » 185
La seconda critica . . . . . . » 191
La terza critica …….. » 196
La quarta critica . . . . . . . » 197
La scienza come giudizio, il metodo diairetico e il problema
dell’errore . . . . . . . . 201
P ART E Q UART A
GLI ULTIMI DIALOGHI
Cap. I. — 77 Sofista . . . . .
Il problema degli ultimi dialoghi in rap
porto al Parmenide .
Il sofista e il filosofo
Lo sviluppo delle posizioni del Parmenide
Ontologismo e trascendentalismo
La definizione dell’arte dialettica
Deduzione dall’eidetica della legge tra
scendentale . . . .
Pag. 219
» IL — Politico, Filebo,
Il Politico
Filebo
11 Timeo .
Le idee numeri
Timeo e le idee numeri
Per una bibliografia
Commenti recenti